Quella del rapporto tra Erasmo e More non è soltanto la storia di un’amicizia civile, ma è anche la storia della nascita della coscienza moderna.
La coscienza diviene luogo di resistenza alla tirannide, perché proprio nella coscienza si incontra, in modo talvolta lacerante ma anche fecondo, la doppia cittadinanza dell’uomo, in specie dell’uomo credente, abitatore del tempo e dell’eternità.
La vicenda di More è emblematica del conflitto che può talvolta instaurarsi tra la doppia cittadinanza della coscienza: da un lato, l’intellettuale, l’uomo alla ricerca della verità, e, dall’altro lato, il suddito fedele, il consigliere del principe; all’obbedienza a Dio si contrappone l’obbedienza al proprio re e al proprio Paese. È una vicenda esemplare per la fecondità che in questa tensione viene a generarsi.
Sin dall’inizio, quando in gioventù comincia a frequentare gli ambienti di corte, Thomas More comincia a conoscerne la pericolosità: come ricorda Erasmo più volte, More non è affatto affascinato dalla vita di corte, e accetta spesso a malincuore gli incarichi politici che riceve, con un forte senso di distacco.
Questo senso di distacco non è però un “senso di estraneità” nei confronti del proprio Paese.
Nel primo libro di Utopia, nel dialogo detto “del consiglio”, si assiste a una sorta di conversazione ideale con Erasmo, su temi che probabilmente i due spesso avevano spesso discusso, sul ruolo dell’intellettuale nei confronti del principe e della politica. Hythlodaeus, uno dei personaggi di questo dialogo, è perplesso e nutre poca fiducia nel fatto che i principi possano ascoltare i consigli dei filosofi, ma More invece non condivide completamente questo pensiero, sostiene che la responsabilità è spesso anche degli intellettuali che propongono una filosofia troppo “scolastica”, mentre quello di cui il Paese ha bisogno è un’alia philosophia civilior, un’altra filosofia, più civile.
“Più civile” nel senso che non deve limitarsi all’enunciazione di principi astratti, ma deve preoccuparsi del bene reale che i cittadini e i principi devono compiere; i filosofi non devono entrare nella vita pubblica come, secondo le parole di More, dei personaggi che, entrando in scena in un teatro in cui si rappresenti una commedia divertente, si mettono a recitare un monologo tragico: si possono dire anche cose profondissime, ma non è né il luogo né il momento né il modo per dirle.
Si avverte una sorta di obbligo morale a non abbandonare “la nave” in cui siamo imbarcati, per usare la classica metafora che descrive lo Stato: il fatto che i filosofi, gli intellettuali, coloro che ricercano la verità, incontrino delle difficoltà nel cercare di far udire la loro voce non è perciò motivo sufficiente per disertare la res pubblica, soprattutto nel momento della tempesta, anche se la via obliqua che More sostiene debba esser ricercata non deve mai essere un percorso in cui viene compromessa la verità ultima, le ragioni di Dio.
Nel More utopista si avverte un senso acuto della realtà storica, e di come la ricerca della verità debba tener conto della particolarità, della contingenza, dell’opacità della realtà della storia, rimanendo tuttavia pronti a fermarsi nel momento in cui questa ricerca della mediazione dovesse portare a un compromesso su ciò che invece è irrinunciabile.
Tutta la storia personale di Thomas More è una ricerca di fedeltà a questa doppia cittadinanza: anche sul patibolo egli muore professandosi davanti ai fratelli fedele al re e servo di Dio. Sembrerebbe quasi esserci in More un principio di affermazione del diritto di resistenza: il re che lo ha condannato è scomunicato, e tuttavia egli proclama la sua fedeltà.
C’è poi un secondo nodo che Thomas More deve affrontare, da cui traspare tutta l’umiltà del personaggio: bisogna sì resistere ed essere fedeli alle proprie idee e alla propria coscienza, anche a rischio della propria vita, ma va pure considerato il rischio della presunzione, di un “martirio cercato”.
Spesso More in prigione si domanda se davvero la sua posizione di fermezza non fosse piuttosto ostinazione, termine che ha un significato giuridico; secondo gli atti di Enrico VIII erano condannati coloro che rifiutassero “con ostinazione”.
More fa di tutto per salvarsi, non cerca il martirio: durante il processo tace, non rivela le ragioni che gli impediscono di giurare, perché da buon giurista sa che tacendo può essere imprigionato, ma non messo a morte. Una falsa testimonianza porterà in seguito alla sua condanna, e solo ormai condannato egli potrà parlare, ma fini a quel momento non si mette a “proclamare” la sua verità, ma cerca fino in fondo la sua salvezza personale.
Un altro punto significativo è quello del rapporto tra la coscienza individuale e il più ampio “corpo” in cui l’individuo è inserito, la società e la Chiesa: come è possibile affermare il primato della coscienza personale quando l’autorità si pronuncia in un altro modo, quando gli altri, la maggioranza, la pensano in un altro modo, e come si può affermare il primato della coscienza personale e al tempo stesso rispettare la coscienza altrui?
Davvero a questo punto si assiste alla nascita della coscienza moderna, perché la coscienza non è solo il luogo attraverso cui in ogni individuo passa l’affermazione della legge di Dio rispetto alla legge umana, ma è anche il luogo in cui ciascuno, diversamente dagli altri, può cogliere in un determinato momento della storia qualcosa che non tutti vedono.
More muore per un determinato ideale ma non condanna coloro che si comportano diversamente; se quest’idea era per lui così importante al punto di portarlo alla morte, avrebbe dovuto cercare di indicare la sua “retta via” per la salvezza dell’anima anche agli altri, invece More fino all’ultimo si rifiuta di giudicare la coscienza degli altri, perché gli altri potevano non vedere ciò che invece lui percepiva chiaramente.
È un momento certamente difficile: il fatto che il potere politico pretendesse di essere un potere assoluto anche in campo religioso, che, per dirla con le parole di Hobbes, pretendesse di stabilire quali fossero miracoli e non miracoli, oggi a distanza di secoli pare evidentemente un fatto scandaloso, mentre a quel tempo per la maggioranza della gente era perlopiù una formale questione organizzativa di poco conto.
More è solo: tutti i suoi vescovi, salvo uno, hanno prestato giuramento; resta certo il papa, ma si tratta comunque del capo di una potenza straniera, che non è molto credibile in questa situazione.
Però More ha lungamente meditato sulle scritture, sulle interpretazioni dei padri, conosce Enrico VIII, conosce le dinamiche della storia politica istituzionale del suo tempo, sa quello che comporterebbe il suo giuramento, e proprio per questo non può giurare.
Altri, che non sanno cogliere questi aspetti, possono invece in buona fede giurare, ed è questo il senso profondo della coscienza moderna.
La principale obbiezione continuamente mossa a More dai sui interlocutori riguarda il fatto che siano solo lui, il vescovo John Fisher e pochi altri a condividere la stessa opinione, mentre tutti la pensano diversamente, e che quindi potrebbe essere presuntuoso da parte dei “pochi” rimanere sulle proprie posizioni, e nell’incertezza forse farebbero meglio ad uniformarsi alla maggioranza.
Le ragioni di More sono ottimamente espresse in una delle ultime splendide lettere alla figlia, in cui è raccontata la storia dell’onesto contadino Compagnia.
Compagnia, quando ad una fiera un mercante viene sorpreso a vendere senza licenza, entra a far parte della giuria popolare formata secondo tradizione per pronunciarsi sul caso. Tutti gli altri undici giurati sono settentrionali come il mercante, mentre il povero Compagnia è l’unico meridionale; gli undici si riuniscono e, notando come si tratti solo di un banale problema formale, in breve decidono di assolvere il mercante, e si rivolgono al contadino dando per scontato che egli si adegui alla maggioranza. Egli però non è altrettanto sicuro della semplicità della questione, e non può adeguarsi solo per “buona compagnia”, perché sa che al momento del giudizio del tribunale eterno egli sarebbe condannato per aver agito contro coscienza, mentre gli altri giurati, avendo agito in buona coscienza, sarebbero assolti, e non sarebbero certo disposti a seguirlo all’inferno per “buona compagnia”: il destino dell’anima oltrepassa il valore di ogni “buona compagnia”.
L’ultimo punto significativo è quello del rapporto tra la fedeltà al re e il dovere civile di criticare o contenere le pretese di un potere politico quando diventa assoluto.
More è ambivalente, nel senso che tutto il suo pensiero politico è sicuramente anti-assolutistico, contro i tiranni, contro la concentrazione del potere, a favore delle assemblee rappresentative, come testimoniato dalla sua partecipazione alla vita politica e nel suo scritto Utopia; però è anche un suddito fedele, e tiene a distinguere tra quelle che sono le carenze e le mancanze dei rappresentanti politici da quello che è invece il piano delle istituzioni, con un modernissmo “senso dello Stato”.
Anche nei confronti di Lutero, egli afferma che sia possibile criticare anche radicalmente la malvagità e la corruzione degli uomini, sia della Chiesa che dello Stato, ma sia assolutamente sbagliato lasciar travolgere le leggi e le istituzioni nella stessa critica, perché in tal caso si giunge all’anarchia. Le regole vanno quindi difese anche quando di queste regole si serve “il diavolo”.
C’è dunque quest’altra grande tensione in More: egli è infatti un suddito fedele di Enrico VIII, e solo dopo la condanna gli ricorderà che il suo atto contrasta non solo con le leggi di Dio e della Chiesa ma anche con le tradizioni inglesi di libertà della Magna Charta.
La coscienza è luogo di un conflitto, ma Thomas More è un uomo che vive i conflitti e la lacerazione non mai al punto di smarrire l’unità e la serenità della coscienza.
Quando infatti la coscienza giudica rettamente allora essa è anche in grado di offrire all’uomo il conforto di un animo tranquillo. Molto spesso More torna sul tema della tranquillità del suo animo, la tranquillità che Tommaso D’Aquino, citando il libro dei Proverbi, paragonava a un banchetto eterno, e insistendo su questo tema nelle sue comunicazioni con i famigliari, per mostrare che dopo la lotta che si è compiuta nella coscienza è alfine giunta alla pace. scrive: “La battaglia è vinta”.
In questo cruciale argomento va notato un significativo aspetto di originalità, attuale e importante per gli uomini di oggi che ancora vivono il tema della doppia cittadinanza in modo sofferto e malinconico: il tratto dell’umorismo, l’umorismo cristiano che contraddistingue certamente anche Erasmo ma soprattutto More, fino all’ultimo, addirittura anche sul patibolo.
Si tratta di una caratteristica tipicamente anglosassone più che continentale, ed è certamente importante per sottolineare come questa dualità tra tempo ed eternità che l’uomo vive non vada declinata in modo malinconico o sofferto, ma vada invece declinata anche con un senso di umorismo, che è proprio il senso di vedere le cose nella loro relatività, sotto lo sguardo dell’Eternità.
NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’1.3.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.