Non voglio ripetere quello che ho detto nel libro . Ho scelto due argomenti su questo problema molto difficile, sul gesto audace del Santo Padre che ha deciso di domandare perdono per le colpe del passato.
Siamo davanti ad un atteggiamento della Chiesa che è veramente nuovo, innovatore. Per la verità qualche precedente lo si può rinvenire; per esempio, il 25 novembre 1522, abbiamo avuto nella Chiesa un papa riformatore, Adriano VI, che manda alla dieta di Norimberga un messaggio in cui riconosce gli abomini, gli abusi e le prevaricazioni di cui sono colpevoli la corte romana e molti sacerdoti del suo tempo. Constata che si è di fronte a una malattia diffusa e radicata; dice:«Ciascuno di noi deve esaminare in che cosa è caduto ed esaminarsi lui stesso più di quanto lo sarà da Dio nel giorno della sua collera». Dunque: pentimento, riconoscenza del peccato e penitenza. Non è ancora la richiesta di perdono.
Forse il primo papa che lo fa veramente è Paolo VI. All’inizio del secondo periodo del Vaticano II domanda perdono a Dio e ad alcuni contemporanei presenti, i fratelli ortodossi, se si sentissero offesi dalla Chiesa cattolica e aggiunge di sentirsi pronto a perdonare, da parte sua, le offese ricevute, i peccati contro l’unità. Pone cioè un principio di reciprocità. È certamente Giovanni Paolo II colui che ha moltiplicato le richieste di perdono. Il suo è stato un invito alla «purificazione della memoria», così si esprime la bolla di indizione dell’anno santo, del 1998, presentata come uno dei segni caratteristici dell’anno santo, che possono opportunamente servire a vivere con maggiore intensità l’insigne grazia del giubileo e contribuire al nostro cammino di riconciliazione. Richiede, questa domanda di perdono, un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani. «Si fonda questa domanda sulla convinzione che per quel legame che nel corpo mistico ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personali, senza sostituirci al giudizio di Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto». Aggiunge il papa: «Come successore di Pietro, forte della santità che riceve dal suo Signore, mi inginocchio davanti a Dio e imploro perdono per i peccati presenti e passati dei figli della Chiesa, senza nulla chiedere in cambio». Paolo VI, richiedeva reciprocità, Giovanni Paolo II non chiede nulla in cambio: è un gesto gratuito.
Queste dichiarazioni sono state precedute da uno dei grandi testi di questo pontificato, la Tertio millennio adveniente, lettera apostolica circa la preparazione del grande giubileo. È una lettera del 1994. Vi invito a leggere i numeri dal 33 al 36 . Si è sollecitati a riflettere su tutte le circostanze in cui i figli della Chiesa si sono allontanati dallo spirito di Cristo e del suo Vangelo nel corso della storia. Come si sono allontanati? Offrendo al mondo invece della testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e agire che erano forme di antitestimonianze e di scandalo. La Chiesa che è santa, è santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza, perché riconosce sempre come propri davanti a Dio e davanti agli uomini i figli peccatori. Quando si è parlato della Chiesa santa e di figli peccatori, alcuni l’hanno interpretato come se la Chiesa si lavasse le mani. Ma, al contrario, si afferma che la Chiesa è presente nel mio peccato. Con il peccato offendo la Chiesa, manco alla testimonianza, ma la Chiesa è madre. «È madre a tal punto che i miei peccati li fa suoi». Quando in una famiglia c’è qualcuno che dà preoccupazione, non lo abbandoniamo, anzi, lo teniamo più vicino al nostro cuore. Così ancora più fortemente sta la Chiesa di fronte ai nostri peccati; riconosce sempre, davanti a Dio e davanti agli uomini, i propri figli peccatori. C’è dunque solidarietà, un legame forte che non si può distruggere. La Chiesa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, da infedeltà, da incoerenze, da ritardi. Queste parole sono da pesare tutte. Non soltanto i peccati, ma anche alcuni errori. Ci furono anche dei ritardi, casi in cui la ragione cristiana è giunta troppo tardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è un atto di lealtà, di verità e di coraggio, che ci aiuta a rafforzare la nostra fede e ci avverte di essere pronti per affrontare le tentazioni e le difficoltà di oggi. Questo è importante perché è una critica ai nuovi ambienti ecclesiastici. La fede non ha mai paura della verità, è adesione alla verità divina, dove si vedono le cose con gli occhi aperti. Il papa enumera una serie di peccati. Quelli che hanno fatto torto a Dio, agendo contro l’unità del suo popolo sono tra essi. La responsabilità è sempre reciproca nelle divisioni. Notando che il peso dei peccati del passato si fa ancora sentire oggi. Pensate ai pregiudizi storici che tengono duro. Dobbiamo implorare l’unità dei cristiani che è un dono dello Spirito Santo e dobbiamo collaborarvi con un esame di coscienza ed il desiderio, nella preghiera, di presentarci alla finte di questo anno santo più vicini, se non ancora uniti.
Altro campo dove c’è da interrogarsi è quello delle persone che ricorrono alla violenza per difendere la verità o interessi spirituali. Il papa ricorda che alcuni grandi spiriti, pieni di Dio, sono riusciti forse a sottrarsi a questa atmosfera passionale. Abbiamo aspettato il Concilio Vaticano II, per sentire che la verità non si impone se in forza di se stessa, ovvero la verità si difende da sola. Dobbiamo anche interrogarci sulle responsabilità che hanno i cristiani nei confronti del male del nostro tempo. Anche questo è importante, perché la domanda di perdono non è una questione che si getta solo verso il passato: sarebbe malsano. Il nostro compito è l’oggi ed il domani. Ma non si vive bene l’oggi ed il domani se non abbiamo un rapporto sano con il nostro passato. Fra questi mali il papa nota i mali culturali e spirituali: l’indifferenza, il secolarismo, il relativismo, l’irreligiosità. Dobbiamo domandarci se nell’irreligiosità non ci sia una responsabilità dei cristiani. Vi è anche la mancanza di discernimento, che ha portato talvolta all’acquiescenza di fronte alle violazioni dei diritti fondamentali dell’uomo. Pure la corresponsabilità in gravi forme di ingiustizia ed emarginazione è sottolineata dal papa. Egli insiste poi su un ultimo punto, che è la ricezione del Concilio. Cosa abbiamo fatto del suo messaggio sulla parola di Dio, sulla liturgia, sulla Chiesa come comunione, sul rapporto tra la Chiesa e il mondo, sul significato del dialogo? Questo che vi ho esposto è in breve il senso dello scritto del papa.
Come ho detto, l’invito ha suscitato sorprese. È stata istituita una commissione teologico-storica del grande giubileo. Abbiamo organizzato tre colloqui, uno sulle radici dell’antigiudaismo negli ambienti cristiani, nel 1997. Ce ne fu pure uno sull’inquisizione, mentre il terzo è stato sulla ricezione del Concilio Vaticano II. Come è stato detto, la commissione teologica internazionale ha pubblicato il documento Memoria e Riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato. Le parole del papa hanno suscitato parecchie iniziative ad opera degli episcopati nazionali. La chiesa della Repubblica ceca ha fatto un colloquio importante sul riformatore condannato a morte al consiglio di Costanza, Jan Hus; i vescovi francesi hanno fatto un atto di purificazione della memoria nel paese dove la polizia del regime di Vichy aveva radunato gli ebrei della regione di Parigi per deportarli ad Auschwitz. Analogamente la conferenza episcopale della Polonia ha fatto delle dichiarazioni sull’antisemitismo.
I gesti del papa sono stati molti. Il 12 marzo 2000 ci fu la giornata del perdono ed i testi liturgici furono bellissimi. Vi fu la preghiera universale, come grande implorazione a Dio. Ho pensato che sarebbe interessante in questa sede cercare di affrontare alcune obiezioni che sono state fatte a questo gesto del papa. La prima obiezione da considerare è quella mossa dagli storici che hanno detto che un tale gesto è anacronistico. Come giudicare, con criteri di oggi, atti o comportamenti di ieri senza tener conto del contesto in cui si inseriscono? È impossibile essere contemporanei degli uomini del passato. Quest’ultima considerazione è, a mio avviso, valida solo in parte. Siamo spesso condizionati da idee e da modi di sentire che caratterizzano la nostra vita e la influenzano: in una parola, da pregiudizi. Quando si riflette un po’ si capisce che le cose non funzionano nel modo in cui veramente noi le vediamo, ma sono spesso distorte dalle idee della società. Non è però vero che si debba essere prigionieri di un’epoca, come se le differenti epoche fossero impermeabili una all’altra. In ciascuna di esse emergono verità e valori che trascendono la singola epoca e testimoniano dell’umanità degli esseri umani. Le tracce dell’uomo le vediamo in tutte le epoche e trascendono il tempo. Mi riferisco alle leggi morali, ai valori permanenti del Vangelo, al decalogo. Il Vangelo ci è sempre contemporaneo. San Francesco d’Assisi è più vicino al Vangelo di molti personaggi del secolo scorso.
Il problema è semmai quello di interpretare il passato. Lo studio del passato ha come scopo quello di evidenziare le differenze, di far vedere come il passato non sia identico al presente e in cosa sono veramente differenti. Per lo storicismo l’uomo è chiuso nell’immanenza della storia e del suo tempo. C’è poi un altro approccio, cui io mi sento più vicino, secondo il quale l’uomo è un essere storico che in certa misura trascende il tempo, in quanto ha la capacità di cogliere la verità ed i valori che non sono sommersi dal flusso del tempo, di raggiungere ciò che fa dell’uomo del passato un nostro contemporaneo. Quando stendevo queste note, mi sono ricordato delle mie esperienze di quanto ero giovane e, durante la seconda guerra mondiale, avevo un professore di greco con il quale si leggeva Tucidide e la sua storia della guerra del Peloponneso. Ed essa era una chiave per leggere gli avvenimenti e le tragiche situazioni della guerra che stavamo vivendo in quel momento. Lo storico, grazie all’interpretazione critica dei documenti, si pone come scopo di restituire un frammento del passato, generalmente in virtù di un esigenza del suo metodo, ma si astiene dal giudizio. Deve avere un certo legame con quel passato, ma se ha solo simpatia o antipatia non è un vero storico. Il lavoro degli storici è imprescindibile. Sull’inquisizione, abbiamo invitato alcuni storici che hanno apportato un grande aiuto alla comprensione. Il nostro rapporto con il passato non è un rapporto immediato: ci mettiamo molta passione. Allo stesso modo dell’anima individuale, dove si sviluppa una dialettica del ricordo e del dimenticare e certe volte molti ricordi sono racchiusi nell’inconscio, le nostre società sono soggette a flussi e riflussi, secondo interessi e passioni che determinano la dialettica memoria-oblio. Siamo attenti alle cose che aiutano i nostri interessi, mentre capita che alcuni grandi problemi li lasciamo da parte Ciononostante permangono. Questo è importante e permette di compiere un passo successivo.
Può sembrare ovvio, ma va sottolineato che non si domanda perdono per fatti che non sono accaduti. Dico questo per evidenziare che dobbiamo distinguere tra i giudizi della scienza storica e quelli teologici. È importante la ricerca storica per stabilire come i fatti si sono svolti. Attraverso i mass media abbiamo una semplificazione della storia, che la snatura; lo storico deve essere invece preciso e oggettivo. Dopo questo primo momento, interviene – nella prospettiva della richiesta di perdono – la lettura teologica della storia, che va al di là del lavoro degli scienziati. Questa prospettiva è quella in cui si colloca anche la Bibbia. L’Antico Testamento ci dà una grande chiave di lettura della storia come incontro tra la fedeltà di Dio e l’infedeltà d’Israele. A partire da questa chiave di lettura, Israele interpreta la propria esistenza. Le grandi sciagure del popolo ebreo si capiscono attraverso l’infedeltà originaria; le colpe dei padri sono un richiamo alla penitenza e alla conversione verso un Dio pieno di misericordia: Dio che non vuole la morte, ma la vita.
Dobbiamo tenere ben salde due idee, quella della responsabilità storica e quella della solidarietà verso le generazioni. Il peccato provoca il castigo e questa è giustizia; chi ne soffre si avvicinerà a Dio e alla conversione. Quando arriverà, con il Nuovo Testamento, la Rivelazione della risurrezione, il castigo si presenta come una castigo storico all’interno della storica. Bisogna stare attenti a non confondere la punizione con qualcosa di troppo materiale. Ci saranno delle conseguenze ai tanti peccati commessi e la responsabilità storica esiste. Nel Nuovo Testamento c’è qualcosa di più. C’è la dimensione escatologica che sboccia sulla nuova Gerusalemme, che è al di là della storia. Nell’Apocalisse c’è una luce nuova sul destino della Chiesa stessa. La crescita del regno di Dio nella storia segue l’imitazione dei Cristo, capo della Chiesa, nel suo mistero pasquale di morte e resurrezione. La testimonianza è importante, ed i martiri ne sono un esempio. I temi dell’Antico e del Nuovo Testamento ci danno quasi l’orizzonte per l’interpretazione teologica della storia. Per una applicazione alla nostra epoca essi devono essere integrati da un aspetto che è stato messo in luce dal Concilio, riguardante i segni dei tempi, il quale ci permette di dare un’interpretazione delle caratteristiche principali della nostra epoca. «È compito della Chiesa scrutare i segni dei tempi e di darne un’interpretazione alla luce del Vangelo». Il popolo di Dio deve discernere i veri segni della presenza di Dio. Si tratta di fornire una lettura sul nostro presente alla luce della fede, ma il presente non lo si può capire senza il passato. La memoria del passato fa parte del nostro presente. Il tempo ci lega al passato. Bisogna purificare la memoria: questo concetto ha un significato teologico.
Rimane una seconda obiezione. La domanda di perdono non significa che ci consideriamo superiori agli uomini del passato. Il giudizio appartiene solo a Dio. Non è una fuga rispetto alle nostre responsabilità del presente. Altro è quello che chiamo la verifica oggettiva dell’atto, altro è la responsabilità del singolo soggetto. La riflessione morale è capace, a partire dai principi del valore morale, di determinare la qualità di un atto buono o cattivo. Pensiamo, ad esempio, a un fenomeno particolarmente degno di nota: la riflessione sulla pena di morte. Se leggiamo un manuale di teologia di cinquant’anni fa, vi troveremmo posizioni ben diverse da quelle odierne. La riflessione sulla morale cambia con l’uomo. Così c’è la classifica oggettiva dell’atto (liceità o meno della pena di morte); poi, per quel che riguarda la persona che commette l’atto, la valutazione dipende dal carattere più o meno volontario dell’atto. L’atto può derivare dalla deficienza mentale, dalla paura, da tante circostanze che limitano la colpevolezza. Questa responsabilità ed il grado di impegno della volontà, solo Dio può giudicarli. La domanda di perdono non si sostituisce a Dio. Ha per oggetto alcune forme di comportamento che giudichiamo più o meno conformi alle leggi morali e al Vangelo: la qualità oggettiva dell’atto. Si può anche insistere a mantenere il giudizio sul livello oggettivo. Come facciamo a giudicare atti che noi condanniamo ma che per le persone del tempo andavano bene? Per trovare una risposta, due passaggi dei documenti conciliari possono aiutarci. Il primo osserva: «La Chiesa, mentre gli anni passano, tende verso la pienezza della divina verità, fino a che non siano in lei compiute le parole di Dio». E altrove: «Contemplando Maria nella luce del verbo incarnato, la Chiesa penetra con rispetto nel mistero supremo dell’incarnazione, diventano sempre più conforme al suo sposo». Si riconosce dunque che nella vita della Chiesa – si tratti delle penetrazione della verità della Scrittura o della santificazione come conformità a Cristo – c’è un progresso: «A tutte le tappe del suo pellegrinaggio, in tutti luoghi della sua dispersione, la Chiesa, quando progredisce nella storia è sollecitata ad rivivere gli avvenimenti della vita evangelica di Cristo». È sollecitata, ma senza mai pervenire a questo traguardo, perché è creatura. È sottomessa a una misteriosa tensione che si esercita costantemente su di lei, da Cristo stesso. La Chiesa è quindi creatura capace di peccato.
Si può giudicare il passato perché nella storia della Chiesa c’è un progresso. Sotto la pulsione dello Spirito Santo c’è un approfondimento del senso evangelico. Sicché questo non vuol affatto dire che siamo più santi di chi ci ha preceduto, anzi. Si tratta della coscienza morale e non basta avere la coscienza del bene e del male per fare il bene. La domanda di perdono non finisce con l’anno santo. La Chiesa deve andare avanti con l’esaminare il suo passato, per verificare non per condannare: verificare dov’è la giusta strada evangelica. Il principio che stava alla base dell’inquisizione era corretto: bisognava difendere il popolo di Dio contro l’errore, specialmente i piccoli che non hanno i mezzi culturali per difendersi; è un dovere della Chiesa. Lo sbaglio è stato nel ricorrere a mezzi violenti per difendere la verità. Perché è successo? Abbiamo avuto degli inquisitori che personalmente erano santi, con vite morali pulite. Non erano sadici, sarebbe troppo semplice. Una delle chiavi di lettura viene dal rapporto della Chiesa con il mondo. C’è sempre stato un legame fortissimo tra la Chiesa e lo Stato. C’era una convergenza di alcune leggi e certi atti erano contro la fede e contro l’unità dello Stato. Un eretico non era un fatto solo sociale ma anche un fatto politico. Questo ci può aiutare a capire. Purificare la memoria significa portare un giudizio di verità alla luce del Vangelo. Questo è il senso della purificazione della memoria.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 10.10.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Nel file in PDF si possono reperire le note a corredo del testo.