Violinista ad Auschwitz

Signori e signore, amici, ringrazio tutti per mille ragioni, ma la principale è che ho avuto e abbiamo avuto tutti l’occasione unica di sentire l’emozione con la quale ha parlato il professor De Benedetti, che ha semplificato il mio lavoro riassumendo le ragioni principali del mio libro. La mia permanenza ad Auschwitz nel campo di concentramento non la si può raccontare in una ora, né in due ore, né in due giorni, e credo che comprenderete bene come non la possa spiegare in pochi momenti. Anche ciò che ho scritto non è sufficiente, non si può descrivere la tragedia di Auschwitz, come non si può scrivere la tragedia del popolo ebreo.

La mia salvezza ad Auschwitz è veramente un miracolo. Ma questo miracolo lo devo in primo luogo al mio professore di violino che era un italiano, il professore Livio Marchesini, amico di mio papà che viveva a Salonicco in Grecia, e che malgrado tenesse molti allievi, dopo un piccolo esame accettò di prendermi, e io divenni per la mia concentrazione uno dei suoi migliori allievi. Inoltre il mio secondo professore fu uno studioso straordinario, Gaston Poulet, il direttore del conservatorio e del Gran Teatro di Bordeaux in Francia, città dove mi trovavo per studiare per prendere il diploma di radiotecnico. Quando dovevo passare l’esame di violino al campo di Birchenau, bastò dire che ero stato allievo di Gaston Poulet per essere ammesso all’orchestra senza bisogno di esame: il nome di questo professore mi aprì la porta. Dopo un mese mi trasferirono al campo di Auschwitz, a tre o quattro chilometri da Birkenau, dove c’era più bisogno di ingegneri che violinisti. Ebbi, se così si può dire, l’occasione di passare attraverso tanti tanti pericoli, ogni minuto, ogni secondo eravamo in pericolo di morte, soprattutto la notte quando tornavamo al campo per dormire, per dormire in modo di dire, perché in realtà si non si riusciva a chiudere occhio per lungo tempo. Ho avuto la fortuna di conoscere un tedesco di un’intelligenza straordinaria, il mio capo ingegnere, l’Oberingenieur Bosch. Dopo due o tre giorni dall’inizio del lavoro nell’ufficio tecnico mi chiese a bruciapelo: “Dimmi, Jacob, quale crimine hai commesso per essere internato?”. Credeva che fossi un assassino. Quando gli spiegai che gli assassini internati erano venti o tenta, un’esigua minoranza, mentre tutti gli altri centomila erano ebrei vittime delle SS, dopo un secondo mi disse: “Jacob, io voglio essere tuo amico”. In un attimo quest’uomo, capo ingegnere di una fabbrica enorme con duemila operai che lavoravano su due turni, mille di giorno e mille di notte, divenne mio amico, divenne come un padre. E’ un vero miracolo.

Può sembrare impossibile che ad Auschwitz vi fossero uomini che non conoscevano la vera natura del campo di sterminio. Eppure era vero. Bosch veniva da Saporoshje, nella Russia lontana, profonda, vicino a Stalingrado, dove dirigeva una fabbrica che, quando l’esercito russo iniziò ad avanzare, venne trasferita nell’Alta Slesia, ad Auschwitz. Nell’ambiente in cui viveva non si potevano porre domande e, d’altra parte, tutta l’impresa di sterminio, soprattutto le camere a gas e i forni crematori erano diretti unicamente dalle SS, il lavoro era compiuto tutto dai deportati come noi, che non avevano alcun contatto con gli altri detenuti, ed erano regolarmente sterminati per salvaguardare il segreto sul tipo di lavoro che erano costretti a fare. Ma il 20 gennaio 1945 anche Auschwitz dovette essere evacuata. Io feci parte degli ultimi trecento uomini che abbandonarono il campo, con la temperatura di meno 18 gradi Celsius. Correvamo perché gli assassini delle SS sparavano. Correvamo, correvamo, correvamo. E corremmo per tre giorni e tre notti. Arrivammo a Vienna, in Austria, ed ci fecero salire su un treno con i vagoni aperti per il trasporto del carbone. Durante la notte siamo arrivati a Mathausen. Qui incontrai un amico che mi disse che i detenuti avevano soprannominato il campo con il nome di Mortausen, per la grande quantità di morti tra i detenuti Per me Auschwitz è una cosa indimenticabile come è indelebile il numero 21097 inciso sull’avambraccio sinistro, che vi voglio mostrare. Questo numero è scolpito nella carne, nel nostro corpo e mostra quello che abbiamo sofferto in Auschwitz.

Alla fine del libro ho scritto due frasi molto significative: “Colui che entra ad Auschwitz non ne esce più! E colui che non ci è entrato, non vi potrà mai entrare!”. Cosa significano queste due frasi? Che sia io che sono stato due anni in Auschwitz come pure il mio amico che è stato in Mathausen non so quanto tempo, non potremo mai dimenticare. Voi che avete avuto la fortuna di nascere dopo Auschwitz e che sperate di non entrarvi mai, non potete sapere com’è veramente, anche se leggete dei libri, come quello di Primo Levi che era mio amico. La forza che ebbi in questi due anni mi fu dato principalmente dalla musica. Avevo una missione, mi ripetevo queste parole: “devo uscire vivo di qua”. Scappare da Auschwitz era impossibile, vivervi era molto difficile. Un giorno, trenta giorni, un anno, due anni è terribile, non dovevi essere mai malato, altrimenti eri già condannato. Ho avuto il piacere di ricevere poco tempo fa dal Presidente della Germania la croce di merito prima classe. I miei amici tedeschi, la settimana scorsa mi hanno invitato un fax in cui mi dicevano: “tu che hai l’onore di questa medaglia, dovresti inviare una lettera al Presidente della repubblica tedesca, affinché vengano prese le misure necessarie per fermare il neofascismo”.

Con queste poche parole vi voglio ringraziare per essere venuti, ringrazio il professore De Benedetti delle sue parole, mi ha molto emozionato, ringrazio il Sindaco che mi ha onorato con una statua nella città. Molte grazie a tutti.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 12.10.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.