Il problema morale nel dibattito contemporaneo

Autori: Berti Enrico

Nella relazione prenderò in esame problemi che tutti conoscono, con i quali tutti hanno a che fare e sui quali non ho da proporre soluzioni particolari. Voglio solo contribuire ad una presa di coscienza, a prestare attenzione alla nuova problematica che caratterizza la società contemporanea e che ha determinato un fenomeno molto interessante dal punto di vista culturale, che non si poteva registrare alcuni decenni fa, quando per esempio io ero studente, che riguarda il sorgere di una nuova domanda d’etica. Quando studiavo filosofia all’università, tra le varie materie si trovava anche l’etica e la si studia ancora nella disciplina chiamata filosofia morale, però ai giovani interessava poco; altre materie suscitavano attenzione: le discipline di carattere politico, di carattere religioso oppure di carattere scientifico, secondo gli interessi che ciascuno aveva. L’etica non era per niente di moda, parlo degli anni 50-60-70; negli ultimi decenni, invece, è venuta alla ribalta come disciplina filosofica su cui si concentra la maggiore attenzione degli studiosi non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti D’America e nel resto del mondo. L’etica è detta anche filosofia pratica ed è una filosofia capace non solo di farci conoscere il senso ultimo della realtà, ma soprattutto di orientarci nella prassi, di definire che cosa è bene e che cosa è male, cosa è giusto e cosa ingiusto, come ci dobbiamo comportare, quali azioni dobbiamo compiere e quali invece evitare. Che cosa ha determinato questo fenomeno, l’insorgere di una nuova domanda di etica

Tanti fattori che adesso cercherò di passare rapidamente in rassegna. Anzitutto quella che è stata chiamata “la crisi delle evidenze etiche comuni”. Una volta, fino ad alcuni decenni fa, certi valori morali erano evidenti ed accettati da tutti; erano i valori della morale tradizionale, sostanzialmente della morale cristiana, che permeavano l’intera società ed erano accettati, direi quasi senza alcuna discussione, sia dai credenti che dai non credenti. I non credenti magari contestavano certi dogmi di fede, ma i valori che permeavano di sé il modo di vivere e di pensare della gente erano riconosciuti quasi unanimemente. Oggi è sotto gli occhi di tutti una situazione completamente nuova in cui dobbiamo riconoscere – io lo dico anche con dispiacere essendo credente – che l’etica cristiana esercita un’influenza molto limitata nel modo di vivere e di pensare della gente.

Questo è il risultato di un processo storico di dimensioni enormi, il processo della secolarizzazione che ha avuto inizio praticamente nel Rinascimento, all’inizio dell’età moderna, ed ha portato via via alla separazione di sfere sempre più ampie della vita umana dall’influenza della religione. Una volta la religione influiva sulla filosofia, sull’arte, sulla politica, sulla stessa scienza poi, con l’inizio dell’età moderna, ciascuna di queste attività, ciascuna di queste sfere della vita e della cultura, si è progressivamente emancipata, cioè sottratta all’influenza della religione. Questo processo, che ultimamente ha riguardato anche il comportamento della gente, credo sia inarrestabile e sia inutile cercare di volerlo ritardare o arginare. Di esso bisogna prendere atto e scoprirne anche certi aspetti positivi che indubbiamente ci sono, perché in molti casi ne ha guadagnato la fede, dal punto di vista qualitativo o dal punto di vista dell’intensità, nel senso che si è purificata. Comunque è un fatto che a causa della secolarizzazione non c’è più un etica condivisa, un etica che s’ispira alla tradizione.

Vi è poi il cosiddetto “pluralismo”, per cui viviamo in una società nella quale convivono gruppi e individui che professano religioni e ideologie politiche diverse, che provengono spesso anche da storie differenti, con culture diverse. C’è una compresenza, un intreccio all’interno della nostra società di una quantità, di una pluralità appunto di orientamenti, di modi di pensare e di modi di vivere. Dal momento che in tutte le società moderne, almeno nelle più avanzate, si è ormai imposto come regime politico condiviso la democrazia, è chiaro che in democrazia devono essere rispettate tutte le diverse concezioni del mondo. Il pluralismo dunque ha il diritto sussistere e non si può né si deve eliminare.

Ho espresso in maniera abbastanza rapida alcuni dei fattori che hanno contribuito a creare questa situazione, questo venir meno delle evidenze etiche, di quello che con termine tecnico si chiama ethos. L’ethos è il costume, cioè non l’etica riflessa, non l’etica oggetto di ricerca, ma l’etica vissuta, l’etica spontanea che ciascuno mette in pratica senza pensarci perché è abituato, perché gli viene naturale. Ecco non c’è più un ethos comune, condiviso da tutti.

Proprio nel momento in cui viene meno l’ethos, si affacciano all’uomo contemporaneo una serie di questioni nuove che fino a qualche decennio fa non erano neanche immaginabili, che spesso hanno dei risvolti di carattere etico, cioè pongono domande su cosa è bene e cosa è male, su cosa è lecito e cosa non è lecito. Mi riferisco, per esempio, a tutti i nuovi problemi posti dallo sviluppo scientifico e tecnologico nel campo della medicina e della biologia: le varie tecniche di inseminazione artificiale, la fecondazione in vitro e tutto ciò che vi si connette, le tecniche che rendono possibili i trapianti di organi da un organismo all’altro, quelle che rendono possibile la sperimentazione sugli embrioni e quindi anche la modifica del codice genetico degli individui umani, tutto ciò che riguarda il problema del prolungamento della vita, la rianimazione, le cure protratte oltre ogni limite, l’eutanasia, e così via. Sono questioni, dobbiamo riconoscerlo, che qualche decennio fa non esistevano, legate alle ricerche scientifiche più recenti, che pongono una quantità di problemi in gran parte nuovi. Quando si può veramente dichiarare la morte di un organismo e quindi il diritto di espiantare un organo? Quando è lecita la fecondazione artificiale? In quali condizioni? Con quali scopi? La stessa etica tradizionale sarebbe stata del tutto impreparata a dare delle soluzioni a queste domande e la stessa Chiesa, sebbene si sforzi continuamente di dire una sua parola e di dare delle indicazioni in questo campo, è però costretta a cercare soluzioni innovative, che non si trovano nei Vangeli e nemmeno nei trattati di teologia di tipo tradizionale.

Ora, come dicevo prima, proprio nel momento in cui da un lato viene meno un’etica condivisa, si affacciano problemi nuovi che richiedono altrettante soluzioni. Ho fatto l’esempio di quelli posti dallo sviluppo scientifico e tecnologico nel campo della medicina e della biologia, ma si potrebbero fare innumerevoli altri esempi in campi che ci toccano tutti da vicino: pensiamo ai problemi che riguardano i rapporti fra l’uomo e l’ambiente e le questioni poste dall’industrializzazione. Anche questi sono anche problemi di etica, come quelli nati dallo sviluppo della medicina e che hanno creato la cosiddetta bioetica, disciplina insegnata ormai in tutte le università, cui sono dedicate ricerche, risorse umane e anche finanziarie.

Per quanto riguarda il rapporto con l’ambiente emerge una nuova branca dell’etica, che si chiama l’etica ambientale, in cui si discute fino a che punto è lecito esaurire le risorse oggi disponibili nel mondo e in quale misura invece dobbiamo preoccuparci di ciò che lasceremo alle generazioni future, oppure in quale misura è lecito promuovere il progresso industriale con il rischio di inquinare l’ambiente. L’etica ambientale è al centro dell’attenzione dei moralisti, dei filosofi, e anche degli uomini politici, cioè di coloro che hanno poi la responsabilità di prendere decisioni che possono avere conseguenze sull’ambiente, sulla vita di tutti.

Accenno soltanto ad una terza grande area, quella dell’economia e della globalizzazione, in cui sorgono problemi nuovi che derivano dal fatto che ormai, dal punto di vista economico, tutto ciò che accade sul pianeta è strettamente connesso e interdipendente. Così non possiamo restare indifferenti a quello che accade in India, in Cina, in America Latina o in Africa, perché ne risentiamo immediatamente il contraccolpo. Basti pensare ai fenomeni migratori, agli spostamenti di milioni di persone dall’Africa e dall’Asia verso l’Europa o verso l’America del Nord (nel Canada pare ci siano decine di milioni di cinesi). Queste grandi migrazioni portano grossi problemi di convivenza, di rapporti, di integrazione, che fino ad ora non si erano mai posti e per i quali l’etica tradizionale non fornisce delle risposte.

Ecco, queste situazioni hanno determinato il sorgere di una nuova domanda di etica. Ciò ha comportato per la filosofia un notevole cambiamento perché, fino all’incirca la prima metà del ‘900, anche i problemi di carattere morale erano affidati alle scienze, le cosiddette scienze umane: le scienze sociali, l’antropologia, la psicologia, la psicanalisi; sennonché, a un certo punto, a mano a mano che queste scienze hanno assunto uno statuto rigoroso proprio dal punto di vista scientifico, ci si è resi conto sempre più che la scienza, ottima nel descrivere la realtà, anche quella umana e sociale, è però del tutto incapace di formulare giudizi di valore. La scienza ci dice come stanno le cose, può anche fare delle previsioni, ma non ci dice mai se le cose che accadono sono un bene o un male, se noi ci dobbiamo comportare in un modo o in un altro. Non dà giudizi di valore, ma soltanto giudizi di fatto. Cioè la scienza si rivela, come disse il grande Max Weber, “libera da valori”, che poi vuol dire anche incapace di valutare. La scienza non valuta, non giudica, descrive e, al massimo, prevede, offre gli strumenti per intervenire, ma non dice in quale direzione è giusto agire, che cosa conviene fare.

Per l’insieme della ragioni che ho fin qui esposto, si è avuta quella che molti chiamano la rinascita o la riabilitazione della filosofia pratica. Cosa vuol dire qui filosofia pratica? Il sostantivo “filosofia” implica una forma di razionalità che deriva dalla ricerca e non semplicemente da una rivelazione, una conoscenza alla portata di tutti, credenti o non credenti, che sia quindi raggiungibile mediante i mezzi umani, ed in particolare con l’utilizzo della ragione; l’aggettivo “pratica” sta ad indicare la capacità di orientare la prassi, di guidarci, di dare giudizi di valore.

In questa rinascita sono stati riscoperti alcuni filosofi che da molto tempo erano trascurati, come Aristotele e Kant; si è tornati cioè a quei filosofi che avevano cercato con mezzi puramente razionali di orientare la prassi. La nuova domanda di etica non è, non può essere ritrovamento di un ethos, di un costume spontaneo vissuto immediatamente, perché in una società secolarizzata e pluralistica non esiste più. Allora l’etica deve essere per forza un’etica riflessa, un etica basata su ricerche, su ragionamenti, su discussioni, su dibattiti, su approfondimenti, che ciascuno compie con i mezzi di cui dispone, in modo da trovare argomenti che siano accettati da tutti o perlomeno dalla maggioranza, e questi non possono essere gli argomenti che offre la fede. Un grande filosofo credente, di religione ebraica, Hans Jonas, morto qualche anno fa, che si era impegnato moltissimo nel campo della bioetica e dell’etica ambientale, diceva: la fede non si può avere su ordinazione, non basta chiedere per averla, invece la ragione l’abbiamo già e tutti, per cui si può pretendere che tutti la esercitino. Anche nel campo dell’etica questo esercizio è l’unico disponibile per arrivare a trovare delle soluzioni che siano sufficientemente condivise.

Ecco un punto importante: il criterio della condivisione, dell’universalità. Non vorrei essere frainteso, non voglio sostenere che il consenso sia ciò che fonda, ciò che dà valore all’etica. Ci possono essere delle cose che sono giuste o sbagliate, indipendentemente da come la pensa la maggior parte della gente; per esempio, nell’antichità l’istituto della schiavitù era universalmente ammesso, era considerato naturale e c’è voluto molto tempo prima di renderci conto che non era tollerabile. Non solo, la schiavitù è esistita in età moderna in uno dei paesi più civili del mondo, gli Stati Uniti d’America, dove è stata praticata fino a poco più di un secolo fa, tanto che per abolirla c’è voluta una sanguinosissima guerra civile.

Tuttavia, precisato questo, in una società pluralistica, come quella in cui viviamo, può essere necessario prendere certe decisioni, adottare provvedimenti di carattere anche legislativo per far fronte a determinati rischi e per risolvere determinati problemi. Ad esempio, per quanto riguarda il rapporto fra l’uomo e l’ambiente, vi sono materie che non possono essere lasciate semplicemente all’arbitrio dei singoli, perché poi le conseguenze le soffrono tutti. Sono dunque necessari provvedimenti di carattere pubblico, delle leggi. Di qui l’esigenza di un’etica pubblica, di un etica della responsabilità, per cui occorre rispondere per le conseguenze che le nostre azioni possono avere sugli altri.

Kant poteva ancora dire quella bella frase: “Dummodo fiat iustitia, pereat mundus“, purché si faccia giustizia vada pure in rovina il mondo intero, perché duecento anni fa un individuo, per quanto fosse importante, non disponeva di mezzi tali da poter incidere fortemente sulla vita degli altri. Oggi, con i mezzi messi a disposizione dalla tecnica moderna, ogni persona è potenzialmente onnipotente, può agire con conseguenze devastanti sulla vita degli altri, per cui non si può più dire “pereat mundus”. Di qui la necessità di un’etica pubblica, di provvedimenti legislativi che, come tutti sappiamo, nei regimi democratici presuppongono la maggioranza nel Parlamento. Il consenso non è pertanto il criterio per decidere che cosa è bene e che cosa è male, ma la condizione indispensabile per adottare certe leggi, e si ottiene soltanto quando si riesce a pronunciare un ragionamento che venga in qualche misura condiviso anche da persone che hanno idee, culture, religioni o filosofie diverse. Uno dei nodi principali dell’etica contemporanea è appunto di individuare alcuni principi, alcune premesse condivise, se non da tutti, almeno dalla maggioranza dell’opinione pubblica, perché solo da queste premesse sarà poi possibile trovare soluzioni pratiche. L’obiezione di chi afferma di non essere interessato al consenso, ma a ciò che la coscienza prescrive, vale a livello personale, ma non a livello sociale.

Quali sono le principali correnti del pensiero morale contemporaneo impegnate in questa ricerca? Ce ne sono alcune molto interessanti tra le quali è attualmente di moda il cosiddetto comunitarismo. Comunitarismo non ha niente a che vedere con comunismo, è l’etica fondata sulla comunità, sulle tradizioni della comunità; specialmente nel mondo anglosassone, negli Stati Uniti d’America, alcuni tra i più originali filosofi contemporanei ritengono che l’unica base possibile per fondare un’etica sia la comunità, che il consenso si trovi solo all’interno di una comunità dove ci siano in comune una storia, una cultura, delle tradizioni, dei modi di pensare e di sentire, un sentimento comune. Secondo me, il comunitarismo ha il limite di rimanere confinato in un ambito particolare. Nella società pluralistica contemporanea ormai convivono comunità diverse; le stesse nazioni operano in un intreccio spesso inestricabile che non permette di separarle nettamente. Il problema pertanto è di trovare dei principi condivisi non solo dai membri della propria comunità, ma anche da quelli delle altre, ma l’etica comunitaristica non è in grado di risolverlo, cioè non è in grado di indicare delle norme, dei valori, dei principi che siano universali.

La tendenza opposta è il liberalismo, anche qui il termine non deve essere inteso nel senso politico a noi consueto, ma come lo intendono gli americani, per i quali “liberal” sta ad indicare l’uomo aperto, progressista, che è a favore di una società multietnica e così via. Quest’apertura universale è un merito del liberalismo rispetto al comunitarismo, pagata però ad un prezzo molto caro, cioè con la rinuncia a qualsiasi contenuto determinato. Si pronuncia un discorso molto formale, ci si accontenta di alcune regole molto generali, senza affermare che cosa è veramente bene per l’uomo, in che cosa consiste lo sviluppo, la piena realizzazione della persona umana. Questo il liberalismo non lo dice e non vuole dirlo, perché ognuno deve essere lasciato libero di costruirsi il suo progetto di vita così come preferisce. Il grande economista, di origine indiana, Amartya Sen racconta spesso che in India ci sono in certe popolazioni, in certi luoghi, dove le donne per tutta la vita non escono mai da casa, non hanno nessuna istruzione, non leggono un libro, non viaggiano. Ora, che progetto di vita sono in condizione di fare queste persone? Come si può dire: lasciamo ciascuno libero di farsi il suo progetto di vita? Bisogna anche vedere quali sono i bisogni, quali sono le capacità che ciascuno ha e che devono essere realizzate; bisogna portarle alla coscienza attraverso la cultura, attraverso l’istruzione, attraverso la mobilità, attraverso tutti i mezzi che offre la vita contemporanea.

Ecco allora il grosso problema: comunitarismo o liberalismo? Questo è il dilemma attorno a cui si polarizza gran parte dell’etica contemporanea. Modestamente avanzo una proposta, che ho fatto altre volte e che di solito è accolta con un certo interesse: credo che sia possibile individuare alcuni principi condivisi, se non proprio da tutti, almeno da una larga maggioranza. Sono i cosiddetti diritti umani. E’ meglio prendere il problema dalla parte dei diritti piuttosto che dalla parte dei doveri, anche se in realtà le due cose si implicano, perché ad ogni mio diritto corrisponde il dovere per un altro di rispettarlo e viceversa; quindi diritto e dovere sono due concetti che si richiamano, però sappiamo tutti che è più facile rivendicare i diritti che ricordare i propri doveri.

Non è difficile trovare tutta una serie di documenti in cui sono elencati i vari diritti, sui quali si è registrato in genere un ampio consenso: sono i diritti enunciati nelle costituzioni dei Paesi più avanzati del mondo, le grandi dichiarazioni dei diritti fatte a livello internazionale, tra cui la dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948, che è stata sottoscritta da moltissimi Stati, ma anche le dichiarazioni internazionali in ambiti più ristretti (ad esempio, la carta dei diritti dei popoli africani e le dichiarazioni dei diritti anche nell’ambito islamico, nonostante sia il più refrattario a riconoscerli). Dunque su queste dichiarazioni c’è un consenso molto vasto; qualcuno può dire, e questa è l’obiezione che spesso viene avanzata, che tutti a parole li ammettono ma poi in pratica sono violati, come ognuno sa e Amnesty International quotidianamente denuncia. Però, sebbene i diritti dell’uomo siano violati, cosa che sicuramente è un male, nessuno di quei governi che li violano ha il coraggio di ammetterlo ufficialmente, in genere avviene di nascosto e se qualcuno li denuncia negano recisamente. Il fatto che i governi non abbiano il coraggio di mettersi contro i diritti umani, di dichiarare che non li vogliono rispettare, sta ad indicare che hanno un certo consenso, e quindi hanno anche una forza. Allora il fatto che siano violati non è un’obbiezione sufficiente per negare che essi costituiscono effettivamente una base utile di partenza.

Quali sono i grandi diritti da cui è possibile partire anche per cercare una soluzione ai problemi posti dallo sviluppo scientifico e tecnologico? Il diritto alla libertà, il diritto all’uguaglianza e il diritto alla proprietà. Sarebbe interessante approfondire nel dettaglio, ma non ho tempo di farlo, cone ciascuno di questi diritti ha delle implicazioni che portano ad un concetto di persona che poi è molto fecondo di applicazioni pratiche. Quando per esempio si riconosce il diritto di tutti all’uguaglianza, ad avere un uguale trattamento indipendentemente dalla razza, dal sesso, dalla condizione sociale, dalla cultura, vuol dire riconoscere che esiste una natura umana, cioè qualche cosa che accomuna tra di loro tutti gli uomini al di là delle differenze innegabili che ci possono essere fra individui o fra gruppi. Quando si afferma il diritto alla libertà di pensiero, libertà di parola, libertà di stampa, libertà di associazione, eccetera, si riconosce che l’uomo, se è in grado di esercitare qualche libertà, non è totalmente condizionato dai fattori materiali, ma c’è in lui qualche cosa che emerge, che sporge rispetto ai condizionamenti esteriori biologici, sociali, economici, quindi si riconosce quello che una volta era chiamato il carattere spirituale della persona umana. Il diritto di proprietà è un diritto molto importante perché in genere è un diritto che non si perde, qualunque trasformazione si compia nella vita di una persona; uno può cambiare cittadinanza, può cambiare religione, può cambiare famiglia, però permane la sua proprietà. Il diritto di proprietà presuppone pertanto che nella persona ci sia qualche cosa che rimane immutato al di sotto di tutti i mutamenti, un sostrato, quello che una volta si chiamava una sostanza, un principio di carattere sostanziale. Ora se si mettono assieme tutte queste implicazioni ne viene fuori niente meno che il concetto di persona che noi troviamo nella tradizione filosofica dell’antichità e del cristianesimo, quello che Severino Boezio enunciava nella formula: rationalis naturae individua substantia.

Il concetto di persona fornisce una visione dell’uomo con determinati contenuti che l’etica liberale e formalistica non è disposta a riconoscere. Spesso noi diciamo che bisogna riconoscere la dignità della persona. Che cosa è la dignità della persona? Kant lo ha detto benissimo: ciò che distingue le persone dalle cose è che le persone hanno dignità mentre le cose hanno prezzo. Cosa è il prezzo? Il prezzo è quel carattere per cui una cosa può essere scambiata con un’altra, io ti do mezzo milione di euro e tu mi dai questa bella casa, che per quanto sia bella tuttavia può sempre essere scambiata; la dignità, invece, è quel carattere non scambiabile con niente altro, per cui la persona non può mai essere trattata, sempre per citare Kant, soltanto come mezzo ma deve essere considerata sempre anche come fine. E’ un principio molto generale, forse generico, però gravido di infinite applicazioni anche molto precise, anche molto particolari nel modo di agire e di comportarsi.

Penso che una buona strada per trovare la soluzione ai problemi etici del nostro tempo possa essere questa: partire dai diritti umani e vedere quali sono le loro implicazioni; ovviamente per far questo bisogna discutere, ragionare, cercare intese; però è una buona base da cui partire che ci può portare verso la soluzione di molti problemi.


NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 7.11.2000 su invito della CCDC.