Alla trattazione del tema ritengo utile premettere qualche considerazione di carattere generale su Virgilio e sul lavoro del critico.
Virgilio, il poeta dell’età di Augusto, interpreta l’età in cui vive e preannuncia l’età ventura: testimone e profeta, la sua poesia è ricca di un duplice senso (realtà e simbolo vi si intrecciano). A lui ci rivolgiamo se vogliamo capire il suo tempo; ma la sua conoscenza ci è altrettanto indispensabile per capire le vicende dell’umanità successiva all’età sua. Per noi, che entriamo in confidenza con lui attraverso la sua poesia, leggendolo e rileggendolo, egli a poco a poco diventa un amico. Giustamente il grande critico francese dell”800, Charles‑Augustin Sainte Beuve, nella sua Etude sur Virgile, Paris 1857, p. 2, ha scritto: “Virgilio è il maestro e insieme l’amico”, quasi un fratello, che ci aiuta a guardare dentro di noi. Ma perché egli diventi tale per noi è necessario un lungo impegno e disciplina nel lavoro intellettuale. Questo mi piace dire con le parole del letterato Renato Serra (1884-1915), che all’inizio della prima guerra mondiale (nella quale incontrò la morte a 31 anni nel luglio 1915) scrisse L’esame di coscienza di un letterato, un breve testo valido ancor oggi sulla presenza e la funzione dell’uomo di cultura nella società, la cui lettura vorrei raccomandare a tutti gli studenti di liceo:
“Il passato non rivela i suoi segreti alla frettolosa curiosità del primo venuto. E’ solo dopo un lungo periodo di studi pazienti e disinteressati, di contemplazione tranquilla, che nella mente ormai imbevuta, penetrata profondamente e per tutti i pori della vita d’un’altra età, i frammenti disgregati, le memorie, gli avanzi, il muto e disperso materiale si anima (…), si ricompone e si avviva in una risurrezione stupenda degli uomini e delle cose scomparse. Ma prima di questa gioia, quante fatiche, quanto lavoro minuto e pedestre!”.
Nella sua universalità, nella sua validità nel tempo e fuori del tempo, è la ragione prima della impossibilità per l’uomo di cultura europeo, di eliminare Virgilio dal proprio paesaggio spirituale. Nella sua poesia, comprensiva e universale, troviamo l’uomo e tutto l’uomo: ciascuno vi si può specchiare. Vi si specchiò anche Hermann Broch, quando più che cinquantenne si trovò nel 1936 chiuso in un carcere nazista dal quale era convinto di non uscire vivo. Volendo tracciare il bilancio della propria vita, nel romanzo La morte di Virgilio il Broch rivisse con intensa partecipazione le ultime sedici ore di vita del poeta. Il Virgilio del romanziere è dolorosamente tormentato dalla coscienza di aver fallito l’opera della sua vita componendo l’Eneide, cioè un poema, secondo il Broch, essenzialmente ispirato da motivi politici: sente che avrebbe invece dovuto creare un poema con cui mostrare per quale via l’uomo potrebbe attingere la suprema conoscenza (il Broch fa di Virgilio un inconscio annunciatore del Cristianesimo: “il salvatore verrà quando il tempo sarà maturo”, dice). Secondo il Broch, quindi, Virgilio non raggiunge la felicità: giunto al termine della sua esistenza, il Virgilio di Broch – ha scritto il germanista e romanziere Claudio Magris – “la cattiva coscienza del classico che non riesce ad essere un vero padre per coloro che vengono dopo di lui” sente di aver fallito la sua vita.
Vediamo, dopo questa premessa, di entrare in contatto diretto con Virgilio. Quando leggiamo Virgilio la prima impressione che ne riceviamo è quella della semplicità, della naturalezza: eppure, appena ci proponiamo dì comprenderlo, ne avvertiamo la problematicità. Quanto più le espressioni a cui il Poeta si serve sono semplici, tanto più esse rivelano una profondità e pluralità di significati nei quali sentiamo che si specchia la complessa personalità di chi si è fatto interprete di un intero mondo il quale, proprio nella misura di perfezione raggiunta, avverte l’inquietudine del limite toccato, oltre il quale non è dato procedere. Di Virgilio e della sua poesia e stato scritto, in occasione del bimillenario della nascita, da un poeta e fine letterato tedesco, Rudolf Borchardt, amico dell’Italia e che in Italia trascorse parte della sua vita, “che nessun giudizio puro e semplice, anche quando sia capace di cogliere certi caratteri di quell’uomo (cioè di Virgilio) e del suo mondo, può estendersi a tanta ampiezza e con tanta finezza da afferrare nella sua legge interiore” per intero il senso e il valore universali di quella poesia. E tuttavia, quando riflettiamo sui versi di Virgilio, ci rendiamo conto che questo nostro impegno, per limitate che siano le nostre forze e capacità, ci mette in sintonia con il Poeta e con la sua disciplina paziente e quotidianamente rinnovata con la quale compose i suoi tre capolavori, le Bucoliche, le Georgiche, l’Eneide.
Il lavoro di noi interpreti non va esente da inquietudine e insoddisfazione perché sappiamo bene, dovunque portino i nostri risultati critici, che essi non possono essere che limitati e provvisori. E’ già ricompensa adeguata la gioia che l’interprete di Virgilio prova frequentando il Poeta, entrando in dimestichezza con lui, ascoltandone e riascoltandone la voce: una gioia del genere di quelle per le quali il filosofo Seneca ebbe a scrivere un giorno: verum gaudium res severa est.
Molto di ciò che il filosofo e teologo Romano Guardini scrisse nel 1928 nella sua analisi dell’uomo malinconico è di aiuto per chi si accosta a Virgilio sembrano proprio scritte per Virgilio queste frasi del Guardini: “…difficile comunicare se stessi direttamente. Difficile dire con semplicità ciò che si pensa, ciò che avviene dentro di noi. (…) Ecco sorgere così il problema dell’espressione, il dissidio tra estremo e interno. Per il malinconico, proprio intimo e mezzi d’espressione non sono commensurabili”.
Nel nostro tentativo di capire Virgilio partiamo da una parola detta dal Poeta trentenne, nella quale, apparentemente semplice, tutti ci ritroviamo: una parola che anche noi ci sentiamo di dire facendola nostra: nunc scio quid sit amor (Ecl. VIIII 43); davvero questa è una di quelle espressioni, come ebbe a scrivere Ernst Robert Curtius, grande studioso delle letterature europee, “di estrema concentrazione, in cui la concisa latinità sembra risplendere di infinito”. A questa parola, piena e rassicurante, Virgilio fa però subito seguire il riconoscimento che Amore è un fanciullo di un’altra stirpe rispetto alla nostra, di un altro sangue (Ecl. VIII 45). (Così e il nostro Poeta: appena ha parlato con la voce di tutti, subito ritrova la sua singolarità).
“Ora so che cos’è Amore”. Di questo, Virgilio è certo: e lo ribadisce con altre parole, anch’esse semplici e schiette, non bisognose di traduzione: Amor omnibus idem (Georg. III 244), per tutti gli esseri viventi; omnia vincit amor per cui et nos cedamus Amori (Ecl. X 69); soprattutto, Amore non conosce (non può conoscere) misura: quis modus adsit Amori? (Ecl. II 68). Da queste sue parole veniamo così preparati a sentirci dire, da lui, che il punto d’arrivo, per ciò, è uno solo, per tutti i viventi: rovina e morte: idem amor exitium pecori . pecorisque magistro (Ecl. III 101).
A questo punto noi chiediamo al Poeta di dirci se mai esiste un amore, per i viventi, sereno, che dia letizia. Egli ci risponde che, per lui almeno, esso esiste: è non l’amore per una creatura, ma l’amore per le Muse, per la poesia; esso è dulcis (Georg. III 292: e cfr., ivi, 285, nonché Ecl. VII 21; Georg. II 476: ingens).
Anche l’amore di Enea per Didone è, un’unica volta, detto “dolce” dal Poeta: ma quando la vicenda terrena di quest’amore è ormai chiusa, definitivamente. Nell’incontro dell’eroe con la regina nell’Oltretomba (Aen. VI 455), solo dopo che Enea ha irrimediabilmente perduto la donna che lo aveva amato con dedizione totale, solo quando egli non può più comunicare con lei, murata nel silenzio impenetrabile che ha scelto, il suo amore per Didone si rivela, e si rivela come dolce. Ma nel corso del quarto libro Virgilio non ci parla mai esplicitamente di un sentimento d’amore di Enea per Didone. Dunque nella poesia di Virgilio a fianco dell’Amore siedono la morte e il silenzio, non la felicità.
Didone, proprio colei che più di tutti nella poesia virgiliana ha amato, viene connotata, al suo primo apparire nel poema – prima, dunque, del suo innamoramento per Enea – come laeta in mezzo ai suoi sudditi (I 503), anzi laetissima, nelle parole di Venere, che tesse l’inganno della sostituzione del fanciullo Iulo, figlio di Enea, con Amore (I 685) ma dal momento in cui è ferita (saucia: IV 1) dal fuoco d’amore, ella è praecipue infelix, pesti devota futurae (I 712): ella, infelix Dido, durante il banchetto che offre all’ospite, longum bibebat amorem (I 749); nel quarto libro, poi, sempre ci appare infelix: uritur infelix Dido (IV 68).
Eppure nei novissima verba (IV 650), prima di trafiggersi con la spada, contemplando la sua vita anteriore all’incontro con Enea, Didone confessa che sarebbe stata felice, anche troppo felice, se le navi troiane non fossero mai approdate a Cartagine:
“felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae” (IV 657-658).
Ecco qui il modo tipicamente virgiliano di entrare in contatto con la realtà e di prendere coscienza di essa: non già la presentazione in positivo della realtà quale è o appare al Poeta, ma la constatazione dolorosa che, non essendosi verificate certe condizioni dal Poeta ritenute necessarie, l’uomo è preda del dolore e dell’infelicità, dominato com’è da forze a lui superiori che lo bruciano e lo annientano (le passioni) ovvero da potenze (il fato) che lo conducono a mete da lui non scelte (come dice Enea a Didone: Italiam non sponte sequor, IV 361; e ripete nell’incontro agli inferi: invitus, regina, tuo de litore cessi (VI 460).
Questo modo virgiliano di presentare la realtà già nelle Bucoliche, dove lo vediamo applicato a Pasifae della quale si dice non già che fu infelice perché si innamorò di un toro (così come Didone è detta infelice non già perché si innamorò di Enea), bensì che sarebbe stata fortunata se sulla terra non fossero esistiti tori (e Didone, se le navi troiane non fossero mai giunte a Cartagine):
“et fortunatam, si numquam armenta fuissent,
Pasiphaen nivei solatur amore iuvenci” (Ecl. VI 45-46).
Già Macrobio, Sat. VI 1, 42, aveva notato che i due versi del lamento di Didone sono “tratti” dal lamento catulliano di Arianna abbandonata in Nasso da Teseo:
“Iuppiter omnipotens, utinam ne tempore primo
Gnosia Cecropiae tetigissent litora puppes” (LXIV 171-172).
E anche il famoso prologo della Medea di Euripide, affidato alla nutrice di Medea, è stato dagli interpreti richiamato a confronto del lamento della virgiliana Didone.
Non intendiamo certamente negare che Virgilio avesse presenti Catullo ed Euripide per Didone (come C. Licinio Calvo per la sua Pasifae), bensì rivolgere l’attenzione al dato più importante, vale a dire che proprio tali confronti mettono meglio in evidenza il modo propriamente virgiliano di rivivere una situazione dolorosa in cui è in gioco la felicità/infelicità di una creatura, nettamente riconoscibile negli “attacchi”: felix, heu nimium felix, si…numquam…; et fortunatam, si numquam… Né questo modo può essere ritenuto casuale, perché, come Pasifae nelle Bucoliche, come Didone nell’Eneide, così i contadini delle Georgiche sarebbero anche troppo (nimium) fortunati sua si bona norint (Georg. II 458); così gli abitanti del Lazio, Saturnia regna, sarebbero davvero fortunatae gentes (Aen. XI 252) se non si lasciassero trascinare in guerra. E fra i tanti giovani uccisi nei combattimenti nella seconda parte dell’Eneide c’è anche Serrano, vittima di Niso: egli sarebbe stato felice (commenta il Poeta): felix si protinus illum / aequasset nocti ludum in lucemque tulisset (Aen. IX 337-338).
Nel terzo libro dell’Eneide tre volte compare il termine felix, nell’ampio ed elaborato episodio dell’incontro di Enea con Eleno e Andromaca. La vedova di Ettore era diventata sposa di Pirro, figlio di Achille, poi, ucciso Pirro da Oreste, era passata a nuove nozze con Eleno, uno dei figli di Priamo, che regnava su una parte dell’Epiro; lì i due sposi troiani avevano costruito una piccola Troia. Il termine felix è usato una volta per uno da ciascuno dei tre protagonisti dell’episodio: una prima volta da Andromaca per Polissena, la figlia di Priamo che fu sacrificata sulla tomba di Achille e così non conobbe la schiavitù: O felix una ante alias Priameia virgo (III 321). Una seconda volta è usato da Eleno per Anchise, il quale viene detto felice per l’amore filiale (pietas) di cui Enea lo circonda (III 480). Una terza volta, infine, lo troviamo nelle parole di Enea stesso, quando si congeda dai compatrioti, per riprendere il viaggio:
“Vivite felices, quibus est fortuna peracta
iam sua: nos alia ex aliis in fata vocamur.
Vobis parta quies, nullum maris aequor arandum
arva nec Ausoniae semper cedentia retro
quaerenda.” (III 493-497).
Apriamo una piccola parentesi. Mette conto ricordare che Andromaca in Epiro non apparve invece affatto felice a Charles Baudelaire, che nell’attacco della lirica “Il cigno”, dedicata a Victor Hugo, a lei si rivolse vedendola immersa in un pianto senza fine:
Andromaca, a voi penso! quell’esiguo torrente,
misero specchio dove rifulse un dì l’incanto
del vostro altero volto di vedova dolente,
il falso Simoenta gonfio del vostro pianto… (traduz. di Tullio Furlan).
Questa sconfessione baudleriana di Virgilio prelude alla condanna severa e sprezzante che il decadente Huysmans pronuncia sul poeta mantovano: ma verrà poi, com’è noto, Th. St. Eliot a ricuperare Virgilio come il classico dei classici, e a proclamare: “Oh, come in questo momento andrebbe bene per noi il genio o almeno il temperamento virgiliano!”.
Ma torniamo a Virgilio e consideriamo un’altra particolarità del suo modo di accostarsi alla felicità. Nella sua poesia la felicità o non viene rappresentata in atto o, se viene raffigurata, mai viene riconosciuta, tra i viventi, da chi la possiede nel momento in cui la possiede. Nelle Bucoliche un vecchio, Titiro, e un fanciullo, Mopso, vengono riconosciuti come fortunati (Ecl. I 46 e 51; V 49) da altri, da chi la felicità – quella felicità – non possiede: da Melibeo,, il vecchio, da Menalca, il fanciullo. Nessun vivente riconosce sé in possesso della felicità, si rende conto della sua felicità, neppure se o quando (a giudizio del Poeta) è, o potrebbe essere, felice. Solo i morti, Virgilio riconosce felici: cosi Polissena, come abbiamo visto, per bocca di Andromaca (III 321) e la madre di Pallante per bocca di Evandro (XI 159), i Troiani caduti insieme alla loro città e i Rutuli morti in combattimento, per bocca rispettivamente di Enea (I 94) e di Turno (XI 416-418) e, in generale, le anime dell’Oltretomba, a cui Enea si rivolge chiamandole felices animae (VI 669), di cui beatae vengono definite le sedes (VI 639). Il re Latino stesso dalla volontà di guerra di Turno si dichiara privato persino di una morte felice (funere felici spolior: VII 599).
Accanto alla morte come dispensiera di felicità si colloca il canto del Poeta, che da questa meditazione sull’infelicità, destino dell’uomo, sembra trarre una nuova chiaroveggenza. L’infelicità, che è il tratto distintivo degli esseri mortali in quanto mortali (optima quaeque dies miseris mortalibus aevi / prima fugit – “i giorni più belli della vita per i miseri mortali sono i primi a fuggire”: Georg. III 66-67), suscita la pietà del Poeta, particolarmente viva per i giovani che un destino di morte immatura strappa all’affetto dei viventi: con il medesimo vocativo, miserande puer, il Poeta si rivolge a Marcello (il nipote di Augusto morto a 19 anni) e a Pallante, per bocca di Anchise per il primo (VI 882), di Enea (X 825) e di Evandro (XI 42) per il secondo.
A che cosa tende, allora, l’uomo del poema epico virgiliano, se non è suo punto d’arrivo la felicità, ma, anzi, l’infelicità lo circonda e lo minaccia da ogni parte, gli si impone e lo preme ed egli deve realizzare se stesso nonostante l’infelicità che lo attende?
Chi si propone di individuare la risposta di Virgilio a questa domanda e a questo scopo ne esplora e riesplora l’opera poetica, viene dalla lettura stessa condotto a riconoscere che nella poesia virgiliana convivono a fianco a fianco progetti di vita diversi e che tali progetti non sono conciliabili tra di loro. Davanti agli occhi del lettore del poema epico appare prima di tutto il significato politico dell’opera: la celebrazione della maxima rerum (Aen. VII 603), della rerum pulcherrima (Georg. II 534): Roma, con il suo destino di potenza e di gloria universale, e l’esaltazione della stirpe divina di Augusto. Questo veniamo ad apprendere subito nel primo libro del poema: le parole addolorate e corrucciate di Venere, quando Enea e i suoi sono afflitti dalla tempesta, ricordano a Giove la promessa che i Romani avrebbero un giorno tenuto sotto il loro potere il mare e tutte le terre (I 234-236) e Giove risponde rassicurando la dea con la profezia della potenza di Roma, destinata ad estendersi
his ego nec metas rerum nec tempora pono,
imperium sine fine dedi (I 278-279)
e con l’esaltazione di Cesare Augusto che, tornando carico delle spoglie dell’Oriente, porrà termine alle guerre e ridonerà la pace al mondo (I 286‑296). E quando Enea per l’amore di Didone sembra essersi dimenticato del compito che gli è stato assegnato, Giove rammemora che è destino della gente dell’eroe reggere totum orbem (IV 231). Nel sesto libro, poi, per bocca di Anchise ascoltiamo l’esaltazione più solenne della stirpe di Enea, della gloria di Roma e dei suoi eroi e la definizione della “missione” universale di Roma (VI 847‑852).
Ma accanto a questo significato politico sta anche, nel poema, su un piano più propriamente privato, la vicenda dell’uomo Enea che, attraverso la rinuncia e la spoliazione di sé e mediante l’accettazione della legge degli dei (quella legge che già Orfeo aveva conosciuto nelle Georgiche, per riavere la sposa ‑ deum praecepta secuti / venimus: IV 448-449 – ma che non aveva saputo rispettare fino alla fine e perciò aveva perduto tutto, e la donna e se stesso), aspira a realizzare se stesso e a giungere alla conoscenza. Enea accetta, con pena, di rinunciare alla patria distrutta, alla moglie Creusa, al padre Anchise, alla donna che lo ama, Didone, e poi via via a Palinuro, il suo nocchiero, a Miseno, il suo trombettiere, a Caieta, la sua nutrice, e a tanti e tanti compagni. Ma quando finalmente si è così meritato di giungere, – scendendo agli Inferi, ad ascoltare la rivelazione del mistero, questa non gli si palesa soddisfacente, perché, risolvendo interamente l’uomo nel suo impegno nella storia (nella “storia sacra” di Roma), non offre spiegazione per la realtà – sempre presente nel mondo della storia – del dolore, in particolare del dolore degli innocenti, del dolore delle madri, del dolore per la morte dei giovani e dell’una e dell’altra parte in lotta, Pallante, Lauso, Camilla, Eurialo, Serrano e tanti e tanti altri, ai quali possiamo aggiungere il puer Marcello del finale del sesto libro.
Infine, nella poesia virgiliana, il lettore s’imbatte, terzo itinerario, nell’aspirazione, per l’uomo che si spende nella costruzione di nuove realtà, alla quies come tensione verso l’uscita dalla storia, per sottrarsi alla legge del tempo (alla fortuna, alla vicissitudine), per ricuperare, intatto, se stesso.
Sul piano propriamente politico l’uomo che vuole operare nella storia ha davanti a sé un progetto di vita che esige, come proclama solennemente Enea al figlio Ascanio mentre sta per affrontare il combattimento decisivo con Turno, nell’ultimo libro, virtus e verus labor e non gode invece del favore della fortuna: una virtus che, procedendo di pari passo con il verus labor, con travagli autentici, ha come suo compagno di strada il dolore (della felicità, come si vede, anche in questo contesto non si fa parola). Siamo ben lontani dalla tradizione romana della gloria umbra virtutis ciceroniana: qui è il labor (il verus labor) che è umbra virtutis. Enea dice precisamente così al puer Ascanio:
Disce, puer, virtutem ex me verumque laborem
fortunam ex aliis (XII 435‑436).
Con quest’insistenza sulla virtus e sul verus labor il Poeta rinvia implicitamente al solenne, sacro impegno dell’eroe prima dello scontro decisivo con i Rutuli: un impegno di pace e di concordia – se l’esito del combattimento gli sarà favorevole – delle quali godranno insieme vincitori e vinti. Proprio per arrivare a questo, afferma l’eroe, tantos potui perferre labores (XII 177). In quest’impegno vediamo la prima proiezione del messaggio di Anchise ai Romani, nel sesto libro, ai quali è affidato il compito, non già di raggiungere la perfezione nelle arti e nelle scienze, da cui si ricaverebbero piacere e felicità (risentiamo dentro di noi l’eco del riconoscimento georgico a Lucrezio: felix qui potuit rerum cognoscere causas), bensì di reggere i popoli della terra fissando per tutti la norma della pace, guidando tutti gli uomini alla virtù (infatti questo è il significato ultimo del verso: parcere subiectis et debellare superbos: VI 853). E in questa prospettiva che la virtus ha come sua umbra il (verus) labor: e si qualifica, la virtus, per chi la esercita nella società civile, come servitus, sia pure nobilis servitus. .E tuttavia l’ultima meta a cui infine, e definitivamente, tende l’uomo virgiliano è il raggiungimento della quies come cessazione dei labores.
Dei labores di Enea è pieno il poema (I 373; II 619; III 145; XI 126; XII 177); dei labores di Enea e dei suoi, dopo la caduta di Troia, molte sono le attestazioni (I 241 e VII 117; I 350; II 385).
Nel poema si susseguono i labores delle donne troiane esuli (V 617), degli uomini in generale (V 688; IX 225); anche le anime degli inferi vorrebbero tornare sulla terra accettando i labores di questa vita (VI 437); Niso vede l’eroica, e sfortunata, impresa sua e di Eurialo come un labor (IX 404); secondo Sinone la sua vicenda si può definire come labores tanti (III 43); anche gli dei quando si mescolano alle vicende degli uomini cadono sotto la legge dei labores: ciò è detto di Giunone ripetutamente (IV 115; VII 331; VII 559; cfr. I 76-77) e di Giuturna, nelle parole del fratello Turno (XII 635). Nel poema abbiamo anche i labores di Ercole (VIII 291; X 321).
In particolare nel terzo libro dell‘Eneide le peregrinazioni di Enea e dei suoi sono dette labores (vv. 145 e 393), tantos labores (vv. 368), labor (vv. 459 e 714; anche VI 892): più precisamente il loro incessante errare è un fugae labor (III 60; V 769). E nella discesa agli Inferi Enea si imbatte nel Labos personificato che, insieme alla Morte e ad altri mostri orrendi nati dall’Erebo e dalla Notte, sta vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci (VI 273). Per Enea e per i suoi saranno proprio il raggiungimento della sede indicata dagli dei e la costruzione della città che porranno fine ai labores (cfr. I 241), donando loro la requies (III 393).
Con la sua visione della quies, dunque, Virgilio si colloca fuori degli schemi propri della politica romana; la sua quies non è sinonimo né di pax, né di otium (non si contrappone, cioè, né al bellum né al negotium): la quies designa – nei contesti che ora citeremo – la volontà e lo stato di cessazione totale e irreversibile dell’attività, dell’impegno nella storia. (Si può sempre, di fatto, rinunciare, tuttavia, alla quies, come nei casi di Didone – che cede alla passione amorosa – e di Latino – che invano tenta di resistere alla volontà di guerra, non sua propria, tuttavia, ma di altri -: ma nella sua prospettiva logica la quies non prevede l’alternanza né con il bellum né con il negotium. La quies è in sé qualcosa di definitivo, di irrevocabile). Anche Enea, secondo la profezia di Eleno, troverà un giorno la sede per la città che deve fondare e, così, la requies laborum: la. fine dei travagli, l’uscita dalla storia, il silenzio: is locus urbis erit, requies ea certa laborum – “quella sarà la sede della città, quella la quiete sicura dopo le fatiche” (III 393).
L’attenzione rivolta alla quies è il punto di avvio della riflessione di Virgilio sull’uomo. Virgilio fa che le creature del suo poema epico aspirino, quali che siano le loro provenienze, alla quiete come punto d’arrivo delle loro vicissitudini. Si tratta di troiani come il profugo Antenore, che dopo lungo peregrinare nella regione illirica e oltre la fonte del Timavo ha trovato la sua sede fondando la città di Padova e, avendo rinunziato all’uso delle armi , nunc placida compostus pace quiescit (I 249), secondo le parole di Venere. Altri troiani, Eleno e Andromaca, nella terra d’Epiro hanno fondato una nuova piccola Troia, hanno individuato un “falso” Xanto. eretto una rocca che simula quella di Pergamo: perciò ad essi, che hanno conseguito la quies, Enea può rivolgere l’invito a vivere felici (“vivite felices” III 493).
La quies è stata raggiunta da Fenici come Didone, la quale, anche lei profuga dalla patria Tiro, ha fondato in terra d’Africa la sua città, ne ha visto sorgere le mura, e lì aveva trovato la felicità e avrebbe continuato ad essere felice, come abbiamo visto, anche troppo felice (felix, heu nimium fe1ix), se solo le navi troiane non fossero mai approdate al suoi lidi (IV 653-658).
Quiete ha trovato un Greco come Diomede, il grande Diomede (VIII 9) che, esule nella terra del Gargano, vi fonda la città di Argiripa e si rifiuta di riprendere le armi per inserirsi nel conflitto che oppone Rutuli e Latini ad Enea e ai suoi compagni: anzi, egli dice, “non mi ricordo più, né me n’allieto, degli antichi mali” (nec veterum memini laetorve malorum: XI 280): egli è ormai fuori della storia né intende rientrarvi.
Infine della quiete godono le genti italiche, i Latini retti dal re Latino, che si rifiuta di riprendere le armi per combattere contro i Troiani:
nam mihi parta quies, omnisque in limine portus
funere felici spolior (VII 598‑599).
egli, non potendo piegare alla ragione il furente e bellicoso Turno, saepsit se tectis rerumque reliquit habenas (VII 600).
Il poema è tutto popolato di profughi e sradicati, cacciati dalle loro terre, perseguitati da divinità, che vanno errando finché trovano la loro sede, lì fondano le loro nuove città e, fondate le città e dato ad esse il nome, per essi sono finiti i labores, i veri labores. Così dovrà essere anche per Enea, come abbiamo visto nella predizione del vate Eleno.
A questo punto noi ci domandiamo se, sul piano della coerenza compositiva, sia possibile che nel poema siano compresenti queste tre prospettive: quella pubblica (ufficiale), celebrativa di Roma; quella privata, dell’uomo che attua i precetti degli dei per arrivare con la rinuncia e la negazione di sé alla conoscenza e alla comprensione del mistero della realtà; e infine quella dell’accettazione dei labores (dei veri labores), per approdare in ultimo alla quies, all’uscita dal mondo della storia, al silenzio.
Certo esse non si accordano, non sono tutte compatibili tra di loro. Questo è vero: ma è altrettanto vero che nel poema esse sono presenti. Nel poema troviamo proclamate solennemente le artes dei Romani, sottolineato più volte l’imperativo del deum praecepta sequi, esaltata ripetutamente la quies come meta ultima dei costruttori di città. L’insistenza sulla quies significa che la felicità è presente – le pochissime volte che essa è presente, e tuttavia mai è descritta dal Poeta – solo là dove sta la quies, la requies laborum, il riposo legato alla cessazione dei travagli e conseguente ad essa. Ora noi comprendiamo perché nel poema sono detti terque quaterque beati coloro che sono periti insieme a Troia e in generale sono detti felices coloro che, mentre gli eroi sulla terra affrontano i labores, sono già morti, come Polissena e la madre di Pallante, e felices sono le anime dell’Oltretomba, beatae sono le loro sedes.
E’ indubbio che il terzo itinerario dell’eroe, che vede al centro dell’interesse del poema la figura del profugo e dell’esule, dello sradicato e del perseguitato da divinità il quale, ricostruendo in nuova sede la sua città, trova la quies da cui non vuole più distaccarsi perché in essa sta la felicità, non è compatibile con l’altra prospettiva globale che emerge soprattutto dalla presentazione che ne fa l’Anchise del sesto libro (l’immersione totale dell’eroe nella “storia sacra” di Roma, nella quale esclusivamente la sua vita trova il suo senso), ma può, invece, ben conciliarsi con la messa in crisi di questa visione globale quando in essa appare in chiara luce l’ineluttabilità e l’inspiegabilità del dolore e della morte per chi continua ad essere inserito nel fiume della storia.
A ben vedere, né questa prospettiva (il non senso del dolore e della morte, per chi continua ad operare dentro la storia) né la precedente (la progressiva spoliazione di sé in vista della purificazione) s’accordavano con quella della Roma di Augusto: esse riflettevano aspirazioni profonde sia pure non ancora perfettamente conciliate tra di loro) del Poeta, non i desideri di Augusto. Perciò il poema che ci è giunto è veramente incompiuto e per questa pluralità di visioni di fondo in esso compresenti noi capiamo perché Virgilio prima di partire dall’Italia per la Grecia (per quello che sarebbe stato l’ultimo suo viaggio) aveva disposto che l’Eneide venisse data alle fiamme se gli fosse capitato qualcosa e perché, morente, voleva egli stesso dare alle fiamme la sua opera.
Questa lettura globale del poema epico, così problematica, non solo è fondata sul testo pervenutoci ma è anche confortata dalla tradizione biografica di Virgilio.
Sicuramente è incompleta , in conseguenza anche del modo di comporre del Poeta particulatim, cioè episodio per episodio, e prout liberet quidque et nihil in ordinem arripiens (come ci informa la biografia di Donato) senza rispettare l’ordine dei libri, per cui nell’opera si trovano elementi di fatto non bene coordinati tra le varie parti e il collegamento fra le singole parti è spesso approssimativo e poco soddisfacente: ma l’opera è anche incompiuta, perché le diverse prospettive, che abbiamo sommariamente presentate, sono in essa compresenti, affiancate l’una all’altra. Se avesse potuto disporre, come aveva progettato, di altri tre anni di lavoro (che si sarebbero aggiunti agli undici che già aveva spesi per il poema), Virgilio avrebbe eliminato sul piano formale e contenutistico discordanze e tibicines, certo, ma, anche, avrebbe portato a compimento l’opera definendone le prospettive di fondo, approfondendo alia quoque studia ad id opus (cioè per l’Eneide) multoque potiora, di cui parlava ad Augusto in una lettera più o meno dell’anno 25, a proposito del poema epico al quale stava lavorando (presso Macrobio, Sat. I 24, 11). Questi alia studia multoque potiora non potevano non riguardare il senso ultimo dell’opera, non potevano non incentrarsi su una visione dell’uomo per la cui definizione il Poeta si sarebbe appoggiato alla filosofia, alla quale, del resto, intendeva (come sappiamo) dedicare il resto della sua vita, una volta che avesse con dotto a termine e compiuto il poema.
Questa nostra lettura, quand’anche possa essere giudicata meno soddisfacente di altre, che in altre età e anche in questa nostra sono state proposte additando nell’opera complessiva di Virgilio e specialmente nell‘Eneide, questo o quel messaggio, ci pare tuttavia legittima. E se quarant’anni fa nel bimillenario della sua, nascita, in una stagione culturale per l’Europa ben diversa dall’attuale, Virgilio fu salutato “Padre dell’Occidente” (così da Theodor Haecker, in un saggio meritatamente famoso) e dispensatore di certezze, in questo, noi, mettendo in luce la sua problematicità e la sua tormentata ricerca di chiarezza, interrotta bruscamente dalla morte, lo scopriamo per nulla diverso da noi, uomini di oggi: e, nel valore universale della sua riflessione sull’uomo, vicino non solo a noi occidentali, ma a tutti gli uomini.
NOTA: Testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 25.10.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.