La ricerca dell’Assoluto nella letteratura: Giuseppe Ungaretti

Tematiche: Letteratura

Vorrei cominciare dato l’argomento, che è la ricerca dell’assoluto, proprio su Ungaretti religioso, su Ungaretti ricercatore dell’oltre, su questa poesia protesa continuamente protesa verso un superamento, verso qualche cosa che sia oltre le cose stesse. Una parte della critica considera Ungaretti come un puro technicos, la sua poesia come ricerca tecnica: per essa la sua ricerca di assoluto si esaurisce nell’assoluto della parola. Il che è certamente vero ma solo in parte. Pertanto che va bene è soltanto l’Ungaretti dell’Allegria che, in un certo senso, si lega a una situazione realistica. L’Allegria è un libro splendido, un libro che inizia veramente una poesia nuova nel Novecento, ma viene considerato come legato all’esperienza della guerra, quindi storicamente individuato; il resto sarebbe soltanto un esercizio, più o meno riuscito, di tecnica, di retorica

Contro questa interpretazione ho voluto combattere, perché la poesia di Ungaretti vuole essere una sorta di icona, di vita totale, e questa aspirazione alla totalità della vita è propria di tutti i grandi poeti che hanno veramente respiro. La sua poesia è una continua scoperta, è un continuo avanzare le cui diverse fasi sono anche un po’ le fasi della vita.

Il primo modello insuperato e probabilmente insuperabile è quello di Dante, la cui opera è proprio una grande icona della vita intera. A partire dal primo incipit della Vita nova, dalla prima apparizione di Beatrice, sino “all’amor che move il sole e l’altre stelle”. Vedete ogni tappa ha un suo senso ed è una tappa della nostra vita, non soltanto della sua E questa idea si ritrova anche in Ungaretti, uomo tra uomini come fu effettivamente con grande umiltà nella prima guerra mondiale, quando si trova ad essere uomo nella nudità del destino di guerra.

Leggerò ora un passo che mi sembra molto importante anche su un piano polemico.

“Non dimentichiamo – dice Ungaretti – che nell’opera d’arte riuscita ciò che ci colpisce è l’alone di mistero e la vita che essa emana e il fiato divino che l’uomo le ha trasfuso. Questo sarebbe il punto principale sul quale dovrebbero fermarsi i critici, il rimanente è più o meno fondata pedanteria”.

Il senso del sacro è certamente molto presente in Ungaretti, e il poeta ha cercato sempre di sottolinearlo; naturalmente chi ha contestato questo suo atteggiamento, questo suo auto giudizio, ha contestato la sua capacità di auto-giudicare la propria opera. Certo non sempre i poeti si valutano correttamente, anzi c’è addirittura chi ha detto, come Alfredo Giuliani, che l’autore è quello che del testo ne sa meno di tutti. Forse non è proprio così, ma certo non sa tutto, altrimenti noi critici che ci staremmo a fare? E invece noi siamo un po’ i maieutici che dai testi riusciamo a trarre qualcosa di più ricco che però sia pertinente al testo, che nasca dal testo, che irradi dal testo, non qualcosa che nel testo non c’è.

Dicevo appunto, c’è questo pregiudizio che va evidentemente eliminato, per il quale Ungaretti non sappia giudicare la propria poesia. Secondo critici importanti, come Giuseppe De Robertis, Ungaretti è invece uno dei più consapevoli tra i vari scrittori e poeti del Novecento, uno di quelli che ha una maggiore autocoscienza. Ungaretti ha una coscienza letteraria sottilissima, non è detto che sempre veda giusto su se stesso, però quello che ci dice, con la straordinaria passione che lo caratterizza, non è da prendere sottogamba. Quindi dobbiamo credergli anche per quello che afferma sulla sua attenzione religiosa.

Il suo tormento religioso trova un momento “forte” in quella famosa settimana santa del ’28, in cui andò all’abbazia di Montecassino, insieme con padre Vignanelli, dove ebbe la così detta conversione. Sì, è un momento di grande adesione al cristianesimo, di grande partecipazione, però non di soluzione definitiva. Quindi questo tormento continua, ed è documentato dal carteggio soprattutto con Jean Polan, un carteggio che dura un enorme numero di anni sino alla morte dell’amico.

Dichiarazioni in questo senso ce ne sono parecchie, sono frasi brevi, pregnanti. Come esprimere l’inesprimibile, uno che non si reputi Dio, che non accetti il dogma, che si consideri uomo, semplicemente una creatura (“sono una creatura”, vi ricordate le parole famose dell’Allegria). Di fronte a questo gran vuoto della sua anima, a questa sua consapevolezza di essere stato abbandonato a sé, a questa tremenda sua solitudine, quale valore avranno più le parole? Ecco un dramma moderno: le parole hanno perduto il loro valore religioso. E Ungaretti con la sua poesia, vuole ridare valore religioso alle parole, nel senso più ampio ovviamente: “La mia poesia interamente, sino da principio- scrive il poeta – è poesia di fondo religioso, avevo sempre meditato sui problemi dell’uomo e del suo rapporto con l’eterno, sui problemi dell’effimero e sui problemi della storia”. Quindi, dietro la poesia di Ungaretti, c’è una riflessione profonda sui grandi temi della vita: il suo non è un pensiero debole, ma un pensiero straordinariamente forte.

Come la riflessione filosofica, secondo il grande filosofo francese Henry Bergson, deve proporsi i grandi problemi, così la vera poesia non può metterli da parte. Ungaretti è un poeta che si impegna attraverso l’arco di tutta una vita, che non si limita a scrivere un canzoniere sulle mani della propria donna, come pure è stato fatto nel Cinquecento, ma vuole veramente cogliere il senso della vita nei suoi vari momenti. In un’altra affermazione molto forte, forse troppo, dice: “Non c’è momento in cui la mia poesia non si muova da una ispirazione in qualche modo religiosa”.

Così, come vedete, Ungaretti stesso ci offre un punto di partenza per confortarci in questa ricerca. E lo dice fin da principio, e fin dall’Allegria, in cui troviamo tanti elementi di tipo esistenziale, di riflessione intensa sull’uomo immerso nel dramma della guerra, alle prese col proprio destino. Ma troviamo anche dei momenti di contemplazione, che sono come degli spiragli in mezzo a questa specie di prigione di pietra carsica che lo avvolge. Uno di questi, intitolato Dannazione, fu preso come punto di partenza da Pier Paolo Pasolini in un articolo intitolato Il poeta ed io, quasi totalmente dimenticato ed inserito in un suo libro molto bello, Passione ed ideologia, una raccolta di saggi intensissimi che giustamente parte da questa poesia brevissima: “Chiuso tra cose mortali / (Anche il cielo stellato finirà) / Perché bramo Dio?”. Il punto interrogativo è stato più volte tolto e rimesso e su questo indaga Pasolini.

Vi è un’altra poesia molto nota intitolata Peso, in cui si parla di un contadino che si affida alla medaglia di sant’Antonio e va leggero; quindi c’è uno stacco tra le due parti, tra le due ministrofe della composizione, che è veramente una separazione fra due mondi, per poi continuare spostando l’attenzione sul poeta che invece porta su di sé il peso della propria anima. Forse è la prima volta che si parla dell’anima, si questa entità ordinariamente leggera, come d’un peso. Leggiamola: “Quel contadino / si affida alla medaglia / di Sant’Antonio / e va leggero // Ma ben sola e ben nuda / senza miraggio / porto la mia anima”. Ecco, da un lato vi è questa leggerezza del contadino, che nella prima edizione è un contadino soldato, poi Ungaretti ha tolto il termine “soldato”, forse per dare maggiore universalità al suo testo, che si affida la medaglia di sant’Antonio. Però la poesia si intitola Peso, quindi il peso è quello di chi porta su di sé la propria anima senza avere la via d’uscita di una religiosità popolare alla quale aggrapparsi nel dramma della guerra.

L’Allegria si conclude con una poesia che si intitola Preghiera che è importante, in quanto nella strutturazione dell’opera il testo finale è certamente un punto forte, un punto di significato pregnante e in questa preghiera il tema leggerezza/peso ritorna in una chiave chiaramente spirituale. C’è anche da dire che Ungaretti è un correttore instancabile dei propri testi, e nella strutturazione dell’ultima poesia dell’Allegria ha ricostruito versi più tradizionali, e si avvia verso una seconda fase in cui l’endecasillabo, verso tipico di tutta la poesia italiana illustre, diventa un punto di riferimento. Il poeta si collega così, in un certo senso, con la storia letteraria; non è più il primo mattino del mondo, come può sembrare in certe poesie dell’Allegria o nel famosissimo “M’illumino d’immenso”.

Dunque ecco il testo di Preghiera:

“Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera // Quando il mio peso mi sarà leggero // Il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido”.

Il primo grido del giorno, una delle sinestesie tipiche di Ungaretti, è naturalmente l’irrompere della luce, di questa luce che è uno degli elementi anche connotati metafisicamente di cui è impregnata la sua poesia. Il titolo di un libro scritto su di lui dal critico Gaetano Mariani è intitolato appunto Lungo viaggio verso la luce. Con la strofa ”Quando il mio peso mi sarà leggero” entriamo già in un’atmosfera se vogliamo metafisica, la contingenza della guerra sembra come superata, e c’è la presenza dominante del futuro. Un futuro verbale, un’apertura verso la speranza ripresa nel verso “Quando il mio peso mi sarà leggero”.

La seconda raccolta di Ungaretti è il Sentimento del tempo nel quale è centrale il rapporto con Roma, città di rovine, di antica gloria, di antiche memorie, ma anche la città cristiana per eccellenza. Virgilio e Pietro sono in un certo senso tutti e due tibertini, c’è un Tevere Virgiliano e un Tevere Pietrino. Virgilio è un grande punto di riferimento anche per Ungaretti perché è il poeta della terra promessa che si identifica con la ricerca fatta da Enea. E questa ricerca continua della terra promessa, che appare sempre lontana ma non si raggiunge mai, compare fin dall’inizio dell’itinerario di Ungaretti. Appunto Roma ha questo carattere duplice, una parte che possiamo considerare pagana e una parte più intensamente religiosa, che si concentra soprattutto nel centro strutturale del libro che è costituito dagli Inni. Gli Inni sono sette e sono il momento religioso più intenso della poesia di Ungaretti, ma anche quello che parte della critica rifiuta e disconosce, respingendo come retorica questi testi. Come in L’Allegria vi è la poesia Preghiera, qui abbiamo La preghiera: vi sono continui raccordi di straordinario interesse, che non sempre si scorgono a prima vista e sono come ritrovati dal lettore in un secondo momento, i quali danno la garanzia di una unità più sottile dell’opera che non appare immediatamente ma che esiste ed è appunto il tessuto stesso di una vita. Ora, ecco il testo di Dannazione, che è del 1931:

“Come il sasso aspro del vulcano, / Come il logoro sasso del torrente, / Come la notte sola e nuda, / Anima da fionda e da terrori / Perché non ti raccatta / La mano ferma del Signore? // Quest’anima / che sa le vanità del cuore / E perfide ne sa le tentazioni / E del mondo conosce la misura / E i piani della nostra mente / Giudica tracotanza, // Perché non può soffrire / Se non rapimenti terreni? // Tu non mi guardi più, Signore… // E non cerco se non oblio / Nella cecità della carne”.

Lo studio delle varianti è riservato di solito agli specialisti ma è sempre molto interessante. Il titolo previsto e poi cancellato non era Dannazione, ma Tremendo assente, naturalmente riferito a Dio.

Alcune di queste immagini si ritrovano nelle opere successive, circolano come rigenerate con senso nuovo a distanza di anni, come se fossero rimaste in una specie di crogiuolo o di grande deposito. In un testo scritto in francese nel 1919 (Ungaretti era un poeta totalmente bilingue) dedicato ad André Breton, il fondatore del surrealismo poetico, intitolato Perfection du noir (“Perfezione del nero”), scriveva: “il est nu / comme la nuit / comme une pierre / au lit d’un fleuve / polie / comme une pierre / del volcan / rongée / quelqu’un l’a cueille / dans sa fronde”. Nudo come la notte , come il logoro sasso del torrente, come il sasso aspro del vulcano gettato. Si è parlato nelle filosofia esistenzialista di “gettatezza”, dell’uomo come essere gettato nel mondo Però vedete come un testo de ’19 ricompaia, venga riutilizzato, ripreso, riciclato dal poeta che si rinnova continuamente.

Il terzo libro di poesie intitolato Il dolore è quello prediletto da Ungaretti, perché legato strettamente alla sua vita. Comunque è interessante che si chiami Il dolore, come il primo si chiamava L’allegria, anche se era originariamente doveva chiamarsi L’allegria di naufragi, cioè una sorta di vitalità, la ripresa del viaggio dopo un naufragio, come un superstite lupo di mare.

Il dolore è il libro della metà della vita, in cui si prende atto dell’esistenza del tempo, della temporalità e quindi del limite. Nell’ultimo degli Inni intitolato Sentimento del tempo il poeta parla di ” luce giusta”, a mezzo del cielo, cioè “midi le juste” come dice Valeri, che corrisponde appunto al momento della piena maturità.

Ora Il dolore si collega alla coscienza che con la seconda guerra mondiale è minacciata la sopravvivenza della stessa civiltà, e si teme l’offesa dei “tanti segni giunti, quasi divine forme, a splendere per l’ascensione di millenni umani””, che sono nati e si sono formati attraverso la lunga opera della cultura. Si legga a questo riguardo Mio fiume anche tu, una delle più belle poesie di Ungaretti, che si ricollega esplicitamente a I fiumi: all’Isonzo, al Serchio, al Nilo e alla Senna si aggiunge il Tevere “fatale”, “Ora che pecorelle cogli agnelli / Si sbandano stupite e, per le strade, / Che già furono urbane, si desolano; / Ora che prova un popolo / Dopo gli strappi dell’emigrazione, / La stolta iniquità / Delle deportazioni; / Ora che nelle fosse / con fantasia ritorta / E mani spudorate / Dalle fattezze umane l’uomo lacera / L’immagine divina / E pietà in grido si contrae di pietra; / Ora che l’innocenza / Reclama almeno un’eco, / E geme anche nel cuore più indurito; Ora che sono vani gli altri gridi; Vedo ora chiaro nella notte triste./ Vedo ora nella notte triste, imparo, / So che l’inferno s’apre sulla terra / Su misura di quanto / L’uomo si sottrae, folle, / Alla purezza della Tua passione”.

Vi è inoltre la partecipazione del suo dolore personale, per la morte del fratello e soprattutto per quella del figlio a San Paolo in Brasile, che lo ha fortemente traumatizzato. Di questo ho avuto testimonianza da una persona che lo aveva visto in quegli anni, il grande scrittore cattolico Italo Alighiero Chiusano, figlio del console italiano a San Paolo, che ricorda Ungaretti sconvolto per la morte di questo figlio. Il poeta collega il suo personalissimo dolore al dolore universale per la guerra. In un bellissimo filmato Ungaretti dice ad un certo punto “il dolore personale, il dolore universale”, ma poi scatta, grida come faceva lui: “tutti e due sono universali”.

I temi de Il dolore sono dunque il colloquio col figlio morto, Roma occupata e il pericolo mortale che corre la civiltà e poi la memoria del Brasile disumano, visto nella sua forza ancora barbarica, primigenia, che gli ricorda anche il deserto dove, come dice in una poesia de L’allegria, neanche le tombe resistono molto. Questo paesaggio estremo era visto attraverso la conoscenza e l’approfondimento della poesia barocca, ed in particolare di Gongora che Ungaretti ha tradotto, profondamente amato e che leggeva ai suoi amici pittori della scuola romana, Mafai, Scipione che frequentava nella piccola casa di via Cavour a Roma. L’estrema forza del barocco si congiunge con la natura del Brasile ancora in parte incontaminato e con la grande arte barocca che esiste in America del sud.

C’è una poesia famosa che Giacinto Spagnoletti, uno dei fini conoscitori della poesia moderna, considerata una delle più grandi del ‘900 che si chiama attualmente Tu ti spezzasti (il titolo originario era in realtà Paesaggi). In essa vi è la presenza del figlio del poeta, la cui vita viene stroncata a nove anni e rappresenta proprio la grazia, grazia con la g maiuscola, Grazia con la g minuscola, in quanto i due elementi possono convivere benissimo, l’uno rimanda all’altro. Si parla anche di un albero che si chiama araucaria, che Ungaretti stesso in una sua postilla definisce il pino brasiliano e contrappone in un’altra poesia al pino nostrano, al classico pino mediterraneo che vive in mezzo alle pietre di Roma che parlano di una antica civiltà, di un luogo pieno di memoria. E poi c’è il fiorrancino, un elemento quasi pascoliano, un uccellino nel quale viene identificato il figlio Antonietto. Araucaria quindi, quadrisillabo, parola fonicamente forte, e, dall’altro lato, fiorrancino, parola più leggera e commentata da Ungaretti con questa postilla: “è il più piccolo degli uccelletti italiani, silenzioso, lieve nel volo, i suoi arti da mattina a sera in movimento”.

Leggiamo ora Tu ti spezzasti, con l’avvertenza di sottolineare, oltre che il significato, il significante; la spezzatura del primo verso indica proprio il peso, queste parole cadono come pietre, una dopo l’altra, e vedete che ritorna anche qui l’immagine del sasso del vulcano dopo 21 anni dalla poesia del ’19.

“1 // I molti, immani, sparsi, grigi sassi / Frementi ancora alle segrete fionde / Di originarie fiamme soffocate / Od ai terrori di fiumane vergini / Ruinanti in implacabili carezze, / – Sopra l’abbaglio della sabbia rigidi / In un vuoto orizzonte, non rammenti? // E la recline, che s’apriva all’unico / Raccogliersi dell’ombra nella valle, / Araucaria, anelando ingigantita, / Volta nell’ardua selce d’erme fibre / Più delle altre dannate refrattaria, / Fresca la bocca di farfalle e d’erbe / dove dalle radici si tagliava, / – Non la rammenti delirante muta / Sopra tre palmi d’un rotondo ciottolo / In un perfetto bilico / Magicamente apparsa? // Di ramo in ramo fiorrancino lieve, / Ebbri di meraviglia gli avidi occhi / Ne conquistavi la screziata cima, / Temerario, musico bimbo, / Solo per rivedere all’imo lucido / D’un fondo e quieto baratro di mare / Favolose testuggini / Ridestarsi fra le alghe. / Della natura estrema la tensione / E le subacquee pompe, Funebri moniti. // 2 // Alzavi le braccia come ali / E ridavi nascita al vento / Correndo nel peso dell’aria immota. // Nessuno mai vide posare / Il tuo lieve piede di danza. // 3 // Grazia, felice, // non avresti potuto non spezzarti / In una cecità tanto indurita / Tu semplice soffio e cristallo, // Troppo umano lampo per l’empio, / Selvoso, accanito, ronzante / Ruggito d’un sole ignudo.”

La descrizione del paesaggio è interrotta dalla domanda “non rammenti?”, una domanda senza risposta, come quella “Silvia rimembri ancora”. Parla quindi dell’araucaria, che sta piegata nell’unico punto in cui c’è un po’ di ombra nella valle e che anela ingigantita, come se fosse animata da una specie di forza espansiva, da una forza primitiva, primigenia, “volta nell’ardua selce ed erme fibre “. Quest’ultimo può sembrare addirittura un verso della poesia trobadorica, è un verso petroso, direbbe un lettore di Dante, ed indica proprio la pianta trasformata in pietra, una foresta pietrificata, un giardino di pietra, che ha una specie di bocca, un punto dove è stata tagliata (in una prima redazione, diceva “ferita”, ed era molto bello e faceva capire meglio il senso) ci sono farfalle ed erbe, l’unico punto in cui c’è un residuo di vita. L’araucaria sta come in bilico in una specie di magico equilibrio e poi sull’albero si arrampica questo ragazzo e vede nel fondo, si tratta di una piccola isola, muoversi delle testuggini, delle tartarughe di mare. Questo mondo abissale e il mondo di pietra sono due elementi del tutto estranei alla misura, la dimensione è quella della dismisura. Si ritrova come per magia la parola “refrattaria”, un termine praticamente non utilizzato nella poesia, ma che Ungaretti, già un’altra volta aveva utilizzati in Sono una creatura: “Come questa pietra / del S. Michele / così fredda / così dura / così prosciugata / così refrattaria / così totalmente / disanimata // Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede // La morte / si sconta / vivendo//”. E’ chiaro il collegamento, come il senso della pietra rimandi a quello della pietra del Carso, come veramente tout se tien in questa poesia.

Arriveremo alla fine dell’itinerario di Ungaretti con gli Ultimi cori per la terra promessa, che sono densi, drammatici, distillati a volte faticosamente, proprio per un’esigenza di concentrazione estrema. Vi troviamo momenti di sconforto e una ricerca continua della verità: Itaca viene cercata, ma dove si trova? “Verso meta si fugge: / Chi la conoscerà? // Non d’Itaca si sogna / Smarriti in vario mare, / Ma va la mira al Sinai sopra sabbie / Che novera monotone giornate.”

“Ogni anno, mentre scopro che Febbraio / E’ sensitivo e, per pudore, torbido, / Con minuto fiorire, gialla irrompe / La mimosa. S’inquadra alla finestra / Di quella mia dimora d’una volta, / Di questa dove passo gli anni vecchi. // Mentre arrivo vicino al gran silenzio, / Segno sarà che niuna cosa muore / Se ritorna sempre l’apparenza? // O saprò finalmente che la morte / Regno non ha che sopra l’apparenza?”

Vorrei concludere con una lettera scritta all’inizio del ‘67, cioè non molto tempo prima della morte, a Bruna Bianco, donna che il poeta ha amato e alla quale scrive dalla Terra Santa, uno de i posti più belli del mondo secondo Ungaretti.

“Quando faceva sera, e l’ombra si estendeva sull’azzurro dell’acqua piano piano facendola rabbrividire e fremere come un’anima viva, come l’anima che illumina e abbuia i tuoi occhi, il lago di Tiberiade era la visione più bella del mondo. E’ un paese pieno di miracoli, il paese che Gesù ha reso meraviglioso passeggiando sull’acqua, si sente che al suo passo sulla terra è nata la verità anche se nessuno l’accoglie, nessuno se non a briciole, ed era la verità di un libero sublime. Riusciremo mai, noi povera gente, soltanto malamente umana ad essere per convinzione un po’ più profondi? Un po’ più liberi?”

NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 15.3.2001 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.