C’è un motivo ben preciso per ricordarsi di Bergson come cultore della scienza e non soltanto della filosofia. Scienza e filosofia non furono mai separati per lui, da quando si mise a studiare a fondo il positivismo, che lo aveva conquistato nella versione evoluzionistica di Spencer. Un importante positivista italiano, Ardigò, giunse a dire che tutti i fatti sono divini, perché sono il dato sicuro a cui dobbiamo rifarci. Bergson voleva essere fedele al positivismo di Spencer, ma si accorse che in realtà il positivismo non prendeva in considerazione una grande quantità di fatti, di dati immediati, che non possono essere tolti dalla realtà. O si prende la realtà tutta, in tutte le sue dimensioni, o la travisiamo. Il positivismo di Spencer arriva a sembrare agli occhi di Bergson un tradimento nei confronti dell’esperienza, che lui non rinnegò mai. Un suo scolaro giunse a dire che la filosofia di Bergson è un nuovo positivismo. Certamente la fedeltà ai fatti fu sempre fondamentale per il filosofo francese.
Ogni volta che scriveva un libro, Bergson si concentrava su uno specifico problema scientifico. Il primo problema su cui si concentra è il tempo. È una delle variabili fondamentali della meccanica, della dinamica e di tutte le scienze in cui si sviluppa la ricerca. Anche il tempo, però, è tradito dalla concezione positivista, perché è concepito su una dimensione spaziale. Il tempo della meccanica è un tempo spazializzato, come il tempo dell’orologio, che è un insieme di “posizioni” delle lancette sul quadrante; ed è un tempo reversibile, perché in un fenomeno meccanico tutto potrebbe tornare come prima. Nel 1889 non c’era la relatività, non c’era l’interpretazione del tempo come quarta dimensione. In qualche modo, Bergson precorse questa concezione, ma la criticò oltre che precorrerla. La scienza non vede nel tempo che i rapporti, i quali si possono ridurre ad una forma matematica in cui il tempo reale scompare. Già nel ‘700 un matematico aveva osservato la stessa cosa nello spazio. I rapporti spaziali rimangono tali qualunque sia la dimensione reale delle cose: tutto l’universo potrebbe essere raccolto in un guscio di noce. In realtà con le geometrie non eculidee, questo concetto verrà meno. Fermiamoci sulla possibilità che il tempo nella meccanica razionale si annulli, rimanendo perfettamente identici tutti i rapporti. Per Bergson questa concezione non si può ammettere perché le cose temporali durano, non arrivano al capolinea immediatamente. Se noi arrivassimo con questa immagine al capolinea, saremmo già morti. L’esperienza concreta dura, è durata vissuta, irreversibile, nuova a ogni istante, capace di abbreviasi o di prolungarsi senza mutare di qualità. Dobbiamo aspettare per ogni cosa, proprio perché il tempo è una cosa reale.
Nella sua prima opera, Saggio sui dati immediati della coscienza, Bergson dimostra il nesso profondo tra libertà e tempo. La scienza non potrà mai negare che siamo liberi, perché la libertà non è oggetto di una costruzione scientifica. Se cerchiamo di costruire la realtà secondo gli schemi della scienza saremmo costretti a dire che la causa tale determina l’effetto tale. Questo va bene solo nella realtà esteriore, fatta di stati esterni l’uno all’altro, e in cui l’uno, distinguendosi dall’altro, può esserne “causa”. Nella durata reale, al contrario, non c’è esteriorità reciproca di momento e momento, in quanto l’essere profondo della coscienza non è divisibile: è un flusso unitario in cui uno “stato” non si lascia isolare dall’altro e in cui, quindi, non ha senso dire che l’uno determini l’altro. Nell’io che dura c’è un passato, un presente e un futuro, ma nel presente c’è sia il passato, sia in qualche modo anche il futuro, come aveva già detto anche Leibniz. Il presente del tempo vissuto James lo chiamava “specioso”, nel senso che esso compare alla nostra coscienza, come un legame che unisce una parte del passato e presagisce in qualche modo un qualche momento del futuro. Nell’Introduzione alla metafisica, Bergson giungerà ad individuare più livelli di durata, alcuni dei quali sono vicini allo spazio, mentre in una maggiore concentrazione si trova una convergenza verso un limite in cui c’è la coincidenza del passato e del futuro con il presente. Diventa presente quando Bergson affronta un altro tema scientifico su cui il positivismo non rendeva la realtà, cioè la memoria.
Nell’800 si scoprirono le funzioni delle diverse zone del cervello. Adesso si sa che una parte del cervello può sostituire l’altra nei compiti. A quel tempo pensavano che ogni funzione avesse una localizzazione ben precisa. Si credeva, per esempio, che un’afasia fosse dovuta essenzialmente ad una lesione fisica di una parte del cervello addetta alla parola. Bergson, però, fa notare delle incongruenze: in certi feriti di guerra si assiste a manifestazioni strane. Nei casi in cui essi conoscessero due lingue, li si vedeva parlare per una settimana francese e per l’altra inglese, alternativamente. Bergson col suo stile può dare talora l’impressione di essere un artista e un romantico, ma in realtà egli si basa sempre su fatti rigorosamente accertati.
La spiegazione della memoria mediante le tracce mestiche è disputa che risale ad Aristotele e anche oggi è aperta. Una traccia, come tale è essenzialmente un presente. Certo, tutto il presente deriva dal passato, ma come avviene che certi presenti siano mnestici, cioè siano strumenti della memoria, e altri no?. Siamo soliti concepire una memoria meccanica. Questa biro ha una molla: se la premo la prima volta, fa uscire la punta e se la premo la seconda fa rientrare la punta; essa ricorda se la mia pressione è di numero pari o di numero dispari, essa ha un bit di memoria. I calcolatori potrebbero essere costruiti, in teoria, tutti con molle. Analogamente la memoria può essere intesa come un fatto meccanico. Anche un nodo al fazzoletto è una traccia mnestica. Ma se non ho una convenzione e non so cosa voglia dire un nodo al fazzoletto, essa non è una traccia mnestica, è solo un fazzoletto. Questa critica ad Aristotele risale già a Plotino. Le tracce mnestiche esistono, ma solo se esiste qualcosa che unisca il presente al passato. Questo collegamento è precisamente la durata. Il tempo non è fatto di istanti che cadono nel nulla, ma è durata che lega nella coscienza di un io il passato al presente. Questa memoria certamente dipende anche da certi meccanismi; nel nostro cervello ci sono meccanismi chimici, che servono a ricordare. Bergson lo esprime con un’immagine che suggerisce bene il concetto: i movimenti che avvengono nel cervello quando ricordiamo sono paragonabili ai movimenti degli attori sulla scena. Uno li vede, sono connessi con il dramma recitato, ma se non ascolta le parole non capisce a cosa si riferiscano, non sono la resa di un passato. Questo è il rapporto che Bergson istituisce tra cervello e ricordo. Egli vede nel cervello una rete di comunicazione. Basti pensare adesso ad internet. Il cervello traduce i ricordi in movimenti. Per esempio, il movimento delle corde vocali o delle dita del pianista o del braccio del tennista. Anche quando non pronunciamo una parola, riprendere il movimento che ci aiuta a dirla è di fatto ricordarla. Questa è la connessione che Bergson instaura tra ricordo puro e ricordo immagine. Il ricordo puro non deriva da un abito, da un’abilità acquisita, ma rimane e riemerge con un proprio dinamismo.
Al matrimonio di Bergson c’era un giovane testimone per la sposa: si chiamava Marcel Proust. Proust scrittore non farà che trascrivere ricordi puri scomparsi nell’inconscio, che ritornano per certi collegamenti dell’esperienza e riemergono alla sua coscienza. Qualcuno sostiene che tutto quello che è passato per la nostra coscienza rimanga e, potenzialmente, possa riemergere. Qualcuno giunge a supporre che in punto di morte si riveda analiticamente tutta la vita, perché non c’è rapporto tra il tempo astronomico ed il tempo psicologico. Bergson dice che il ricordo puro rimane in una specie di eternità. Quasi sperimentalmente si può constatare che noi non siamo dispersi. Ad un certo livello, che noi non controlliamo, vediamo tutto il nostro passato concentrato. In certi caratteri, c’è tutto il loro passato. Il passato della biro fa reagire la molla in un certo modo. Nel nostro passato c’è una quantità di ricordi immensa. Dobbiamo dimenticare la maggior parte degli episodi che abbiamo vissuto, se no saremmo sommersi da ricordi, per poterci concentrare l’attenzione sulla vita. Quando dormiamo allora questi ricordi possono affiorare, per esempio nel sogno. Così, Bergson, attraverso un problema in apparenza particolare come quello della memoria, giunge ad un’interpretazione della realtà come fatta di una specie di eternità distesa. Agostino tanti secoli addietro pensava che il tempo si può spiegare solo come una distensione dell’animo. Come se l’animo concentrato si distendesse sullo spazio, cioè su una molteplicità di dati raccolti in un verso e distesi nell’altro. Questa distensione può essere maggiore o minore. In realtà noi siamo la nostra memoria. E come noi, aggiunge Bergson, è l’intero universo.
Nel corso delle sue indagini, egli riconobbe sempre di più che il tempo non è spazio ma si deve appoggiare sullo spazio. Il nostro tempo è “addossato” allo spazio. L’antica definizione platonica “il tempo è un’immagine mobile dell’eternità” la ritroviamo, dunque, anche in Bergson. In realtà non è mobile. Il nostro tempo è un’immagine nel senso che c’è l’unità e quindi l’eternità, però nella forma di un’immagine che si muove, quindi per forza deve muoversi nello spazio. Il movimento però non è solo spaziale, esso è anche la negazione dello spazio che, attraverso la velocità, in qualche modo annulla le distanze. Se pensassimo alla velocità infinta, l’oggetto si troverebbe dappertutto allo stesso momento. Attraverso il movimento il tempo nega lo spazio. Il tempo, in quanto agganciato all’eternità, è ciò che rende completo lo spazio. Plotino dice che l’anima produce e crea il proprio corpo. Non è un assemblaggio di parti, ma è un distendersi dell’anima, come la durata è un distendersi dell’eternità nel tempo spazializzato. Così quelle negazioni enfatiche che sembravano andare contro la scienza, in realtà ci rivelano per quello che sono: passi verso una concezione più fedele all’esperienza.
In Bergson la metafisica e la fisica si completano. La metafisica è una successione dei differenziazioni e integrazioni qualitative. Come trovare la derivata di una funzione e poi integrarla. Occorre tenere conto che tra quei dati c’è un aspetto qualitativo che nella riduzione scientifica si perde e Bergson è contro il riduzionismo. Il riduzionismo è, infatti, una cattiva metafisica. Anche per questo penso che Bergson abbia ancora una ragione per essere letto dagli scienziati d’oggi. È quanto mai opportuno riportare l’attenzione su Bergson pensatore lucido e originale del rapporto tra scienza e metafisica.
NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 20.2.2003 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.