L’arte è sempre in misura maggiore o minore una «preghiera improvvisata»[2], vive sempre di un’ispirazione che viene dall’alto, al punto che si potrebbe persino dire che tanto più un’arte è religiosa tanto più evidentemente porta impresso il sigillo dell’estetica. Questa certezza, che veniva riformulata anche in anni recenti da un critico letterario come Andrej Sinjavskij, risulta tanto più comprensibile in un mondo culturale come quello russo, nel quale l’incontro con il cristianesimo è percepito come l’incontro con un’esperienza, indefinibile concettualmente, quella della comunione dell’uomo con Dio, ma non di meno descrivibile come una realtà assolutamente concreta la cui bellezza è indimenticabile[3]. Siamo in un mondo nel quale il bello è indubitabilmente lo splendore del vero e per il quale il brutto (bezobraznyj) è significativamente ciò che ha perso l’immagine (obraz): in ultima analisi l’immagine divina secondo la quale è creato quell’essere cui è affidato il compito della coltivazione del giardino dell’Eden (il compito della cultura, se si vuole), il compito della creazione a immagine del Creatore, il compito dell’affermazione di una vita piena di significato e della trasmissione di questa vita nella prospettiva della vittoria sulla morte
L’opera letteraria di Michail Bulgakov[4] non sfugge a questa caratteristica, sin da quella che è una delle sue prime realizzazioni, quelle Memorie di un giovane medico, che sono nello stesso tempo una creazione letteraria e un ricordo autobiografico di quando il giovane dottor Bulgakov aveva dovuto mettere la propria inesperienza di neolaureato alla prova delle mille sorprese che poteva presentare la pratica medica in una sperduta condotta della campagna russa: autobiografia in un senso molto profondo, perché, tanto per il medico come per il letterato, il compito è uno solo, quello di salvaguardare la vita. Le Memorie sono infatti il tassello iniziale di un’opera artistica che, esattamente come quella del medico, sarà tutta dedicata alla conservazione della vita e della sua memoria, compito particolarmente arduo in un momento in cui esse sono minacciate dal progetto rivoluzionario, che, ben al di là delle pur radicali trasformazioni politiche, consiste esattamente nella pretesa di sostituire la realtà con la sua reinterpretazione e rappresentazione ideologica.
È centrale questo tema nelle Memorie, dove la conservazione della vita è possibile grazie ad un’azione in cui l’opera umana ha ancora un rilievo plenario; e resta ancora centrale, la stessa impresa, ne La guardia bianca, dove diventa però l’esito di un miracolo reso tuttavia possibile da un’opera che è ancora pienamente umana come l’invocazione o la preghiera[5]; nei testi successivi, invece, questa stessa impresa, pur restando centrale, sfugge sempre più alla portata dell’uomo, sino a diventare il frutto puramente estetico-mistico (giocato sul piano non della realtà quotidiana o della sua memoria, ma della sola arte) di un’opera, Il Maestro e Margherita, in cui l’uomo ha ancora un suo ruolo, ma il cui collaboratore principale si presenta apocalitticamente con le fattezze del diavolo (che per altro compie l’opera di Dio)[6].
La salvaguardia della realtà e la conservazione, almeno, della sua memoria (là dove questa realtà viene eliminata dalla surrealtà ideologica) sono dunque elementi essenziali dell’opera di Bulgakov; ma già a partire dalle Memorie va sottolineato che questa azione di protezione del reale ha un altro aspetto caratteristico: essa non si presenta mai come il frutto di un gesto eroico solitario o come il portato di una virtù onnipotente dell’uomo solo; è piuttosto la risposta a un altro, la cui presenza è essenziale non solo perché nasca l’esigenza di una risposta, ma perché la stessa risposta possa essere data.
Ora, questa presenza ha un carattere indiscutibilmente religioso; essa rimanda infatti a qualcosa che è assolutamente irriducibile a una semplice produzione, invenzione o proiezione dell’uomo: l’altro che guida le azioni del giovane medico e di fronte al quale egli si sente responsabile è una totale sorpresa, una totale novità rispetto a qualsiasi valore civico o professionale, tant’è vero che questa presenza si manifesta attraverso una serie di atti che il medico compie per una strana «ispirazione»[7], non più padrone di sé e della propria immagine, ma sotto l’impulso di una «forza ignota»[8] che dà alla sua stessa voce un inusuale tono rauco, come se fosse appunto la voce di un altro.
La vera responsabilità si situa esattamente a questo livello, là dove si è abbandonata la propria aseità orgogliosa ed esclusiva e si agisce non per affermare un’immagine di sé, ma per rispondere del reale e per risponderne a qualcuno che noi non possiamo dominare con le nostre false parvenze o con la nostra ragione; questo altro, infatti, pur essendo così vicino a noi da poterci motivare all’azione, ci resta fondamentalmente ignoto. La vera responsabilità, dunque, è innanzitutto rapporto con un che di misterioso; è così radicalmente rapporto con il mistero che, una volta che la si è assunta non si sa ancora veramente che cosa fare: tutto ciò che si presenta all’uomo −come Bulgakov sottolinea con particolare insistenza descrivendo il proprio medico− supera le sue «aspettative»[9], è «assolutamente incomprensibile», così che egli non può che agire a «casaccio», «meccanicamente e incoerentemente», «senza ragionare»[10], «senza saper nulla»[11]. Essere responsabile, dunque, per il giovane medico di Bulgakov non è una questione di eroismo o di virtù, e non corrisponde all’instaurazione di un suo dominio sulla realtà; la responsabilità è piuttosto la disponibilità ad accogliere la misteriosa azione d’altri che agisce in lui e che, agendo, gli restituisce il reale nella forma non del dominio e del possesso, ma in quella dello stupore.
Tra i numerosissimi simboli dei quali Bulgakov si serve per suggerire il carattere misterioso e irriducibile della realtà si può qui ricordare quello del libro.
Abbandonato nella sua solitudine, di fronte a prove difficili per le quali si sente inadeguato, il giovane medico trova soccorso e sostegno nei libri di medicina, uno degli elementi che compongono la sua storia, formando il mondo, la patria e la casa dalla quale proviene e di cui vuole conservare la memoria. È esattamente il contatto col libro, nella pace della casa, che dà respiro e tregua al giovane medico del tutto insicuro della propria capacità di rispondere al bisogno di salvezza del vecchio mondo[12], così come è a causa di questa virtù riconosciuta al libro che il giovane medico si assume le proprie responsabilità[13]. Il libro è l’aiuto cui costantemente si fa ricorso[14]; è addirittura ciò che permette di distinguere con maggior sicurezza tra la realtà e i sogni o le fantasie che il giovane medico si può fare. Quella del libro è una virtù così grande e indiscutibile che il giovane medico non può fare a meno di considerare il libro stesso come qualcosa di sacro, cui rivolgersi in un atteggiamento quasi di preghiera: «non staccavo gli occhi imploranti dai sacri libri di chirurgia operatoria»[15].
È questa stessa sacralità a impedire che il rapporto di Bulgakov con il libro subisca il destino che spesso caratterizza la vita intellettuale, trasformandola da vita concreta in un astratto e presuntuoso gioco intellettualistico. È sì vero, infatti, che il giovane medico ricorre ripetutamente al libro per trarne forza e guida; e però è anche vero che questo ricorso non approda mai ad un possesso, ad un sapere indiscutibile e definitivo, che razionalisticamente e scientisticamente annullerebbe il mistero del reale: alla fine resta sempre uno spazio per quell’alterità che nel giovane medico traspare come voce altrui, ignota e indominabile, e si pone come un’evidente dimostrazione della sua inadeguatezza e sproporzione. Come nell’azione il medico conserva la coscienza di non essere lui il padrone e l’autore ultimo dell’agire e del suo esito felice, così anche nel ricorso al libro, che pur è cercato e ritenuto indispensabile, egli si rende conto che il libro, pur con tutta la sua potenza, non lo colloca in una posizione di dominio assoluto, ma lo spinge anzi a riconoscere il proprio limite[16].
Liberato dal potere magico della scienza e del sapere, il libro è in tal modo esplicitamente liberato anche dalla pretesa di poter costituire un sostituto della realtà: «la mia ferita non assomigliava a nessun disegno»[17], deve constatare sconsolato il giovane medico, così come altrove deve ammettere che, nella realtà e dalla realtà, si impara che c’è qualcosa che nessun libro può insegnare: «Dalle parole staccate [dell’assistente], dalle frasi lasciate in tronco, dai brevi cenni buttati là di sfuggita imparai la cosa più indispensabile, che non c’è in nessun libro»[18].
La realtà è dunque qualcosa di inesauribile e di irriducibile, che si oppone continuamente alla pretesa di assolutezza del libro; e però il contesto in cui è collocata l’ultima citazione ci suggerisce un altro elemento di opposizione a questa pretesa: l’irriducibilità della realtà diventa chiara al giovane grazie alla comunicazione che gli fa una sua assistente; è il contatto con l’esperienza concreta di un altro, cioè con l’esperienza della realtà fatta da un altro essere, a mettere in crisi le possibili pretese del libro. Non è un caso, in questo senso, che la stima che circonda il misterioso medico predecessore del protagonista delle Memorie non dipenda semplicemente dal fatto che egli aveva organizzato una stupenda biblioteca medica; Leopol’d Leopol’dovič (così si chiamava anche nella realtà il predecessore del giovane dottor Bulgakov) è stimato soprattutto perché, avendo raccolto i suoi libri, è stato capace di farne uno strumento per agire nella realtà e poi ha insegnato ad altri come si agisce, ad altri che a loro volta insegnano al giovane medico e con lui costituiscono una sorta di comunità[19]. E questa comunità, che è fatta di umanissime cose come il bere insieme[20], significativamente è unita da un identico senso di responsabilità, nella quale l’esperienza del reale e della sua difesa diventa opera comune[21], propriamente ecclesiale.
La coscienza della presenza di un altro, questa religiosità che attraversa l’opera di Bulgakov, non è dunque riducibile a un vago spiritualismo ma si presenta con delle caratteristiche esplicitamente ecclesiali, la cui origine va rinvenuta nella biografia stessa di Bulgakov e le cui manifestazioni, come vedremo, sono chiaramente rinvenibili anche nella sua opera letteraria.
È sì vero, in questo senso, che le evocazioni dirette della Chiesa in Bulgakov sono estremamente rare, ma crediamo si debba riconoscere che, quando vi sono, esse sono anche estremamente sentite: il frutto di un’esperienza concreta e diretta, che viene percepita e giudicata con tutto il dolore e la partecipazione di chi la vive e la soffre dall’interno, come un figlio, e non la giudica dall’esterno; è quanto ci pare si possa dire leggendo le righe del passo in cui Bulgakov descrive la dolorosa divisione che la Chiesa ortodossa si trova a vivere in Ucraina dopo la rivoluzione: «È un tratto ancor più turistico delle insegne. Tre chiese sono troppe per Kiev: la vecchia, la vivente e la autocefala o chiesa ucraina. Ai rappresentanti della seconda i burloni di Kiev hanno appioppato il nomignolo di ‘popi viventi’. Non mi è capitato mai di sentire un nomignolo più azzeccato. Definisce in pieno i succitati rappresentanti: non solo in funzione della loro appartenenza, ma anche delle caratteristiche del loro carattere. In vitalità e destrezza essi soccombono a una sola organizzazione: quella dei popi ucraini. E stanno in assoluto contrasto con i rappresentanti della vecchia chiesa, i quali non solo non dimostrano alcuna vitalità, ma anzi sono indolenti, distratti e tenebrosissimi. La situazione è così fatta: la vecchia chiesa odia la chiesa vivente e l’autocefala, la chiesa vivente odia la vecchia e l’autocefala, l’autocefala odia la vecchia e la vivente. Come finirà questa proficua attività delle tre chiese, i cui sacerdoti sono nutriti di rancore, posso dirlo con la più completa convinzione: col distacco in massa dei fedeli da tutte e tre le chiese e col loro ritorno nel baratro del più totale ateismo. E di ciò saranno colpevoli quegli stessi popi, che hanno screditato non solo le proprie persone, ma l’idea stessa della fede»[22].
Ma, a parte questa dolorosa evocazione, la Chiesa è presente in ben altra maniera attraverso i suoi testimoni, come quel padre Aleksandr, che celebra i funerali all’inizio della Guardia bianca e che, giusto per dimostrare una percezione della realtà ben diversa da quella di tanti altri suoi confratelli, cita con partecipazione l’Apocalisse[23]: ora questo padre Aleksandr non è affatto il frutto della sola fantasia artistica di Bulgakov, è un personaggio reale che egli aveva conosciuto attraverso il padre.
Il padre dello scrittore, Afanasij Ivanovič (1859-1907), era stato infatti professore presso l’accademia teologica di Kiev, dove si era distinto, oltre che per la fede profonda e solida, come un docente di grande talento e dalle notevoli capacità lavorative. Proveniva da una famiglia del ceto ecclesiastico e, nel 1890, si era sposato con Varvara Michajlovna Pokrovskaja (1869-1922), anch’essa figlia di un sacerdote e allora insegnante ginnasiale, una giovane con un’istruzione e una cultura particolarmente profonde, specie se si considerano le abitudini di quegli anni e del suo ambiente. I Bulgakov avrebbero avuto sette figli, Michail era stato il primo nel 1891 mentre l’ultima sarà Elena nel 1902. Ovviamente una famiglia così numerosa non era di facile mantenimento: lo stipendio del padre non era sufficiente e così egli si trovò sempre costretto ad un secondo lavoro, prima docente di storia in un istituto femminile e poi, dal 1893, collaboratore della censura cittadina. È a questo aspetto, serio e laborioso, della vita paterna che è legato uno dei simboli più ricorrenti della scrittura bulgakoviana, quello della lampada con un abat-jour verde; come ebbe a dire lo stesso Bulgakov, «esso risale alle impressioni dell’infanzia: è l’immagine di mio padre che scrive al suo tavolo di lavoro»[24]. Nel complesso l’atmosfera della vita familiare era gioiosa e quasi festosa: era una casa nella quale era piacevole vivere, essere accolti ed ospitati. Questa atmosfera era dovuta in gran parte alla mamma, una «luminosa regina» che reggeva il suo piccolo regno con un dolce sorriso ma anche, quando era necessario, con piglio deciso e persino autoritario. Era una casa governata dalla musica: la mamma suonava il piano e il padre il violino; vi era amata in particolare l’opera, soprattutto il Faust; e poi vi erano amati i libri: tutto nelle descrizioni della vita famigliare di casa Bulgakov dà l’idea di una vita che si ripete immutabile, di un focolare domestico, eterno come la vita stessa, ricordato come simbolo di un periodo senza sofferenze e senza disordini, in un tempo che sofferenze e disordini ne aveva a profusione. E questo rifugio era appunto immortale, sempre disponibile, sempre presente nei suoi punti di riferimento (l’orologio, la stufa di maiolica, ecc.), nonostante il passare del tempo e l’apparente finire dei tempi andati; era la permanenza di una realtà buona in cui trovare stabilità e possibilità di vita per sé: l’orologio «l’aveva comprato il babbo molto tempo prima, quando le donne portavano ancora quelle ridicole maniche a rigonfi vicino alle spalle. Queste maniche erano sparite, il tempo era fuggito via come un baleno, era morto il padre professore, tutti erano cresciuti, ma l’orologio era rimasto quello di prima e suonava con la suoneria a torre. Vi erano ormai tanto abituati tutti, che se esso per un miracolo fosse scomparso dal muro, li avrebbe presi la malinconia, come se si fosse spenta una voce cara; e nulla avrebbe potuto riempire il posto vuoto. Ma l’orologio per fortuna era immortale ed immortale era anche Il carpentiere di Zaandam, e la maiolica olandese, come una saggia roccia era piena di vita e di calore proprio nel tempo più penoso»[25].
Luce, musica, tempo che sconfina nell’eternità, la presenza di una luminosa regina e di un padre lavoratore, l’accoglienza offerta a chiunque capiti in questa casa, tutto dà l’idea di quella che oggi chiameremmo una casa che diventa Chiesa domestica.
Questo valore della casa rimase immutabile anche se i Bulgakov di fatto non ebbero mai una casa loro e vissero sempre in case di affitto; una di queste apparteneva a Vera Nikolaevna Petrova, figlia di Nikolaj Ivanovič Petrov, docente di filologia e di storia della letteratura russa e straniera all’accademia teologica e padrino di Bulgakov.
Non abbiamo ricordato a caso questo altrimenti sconosciuto Petrov, il fatto è che attraverso di lui, oltre a confermare un’atmosfera di amicizia e di fraternità reali, torniamo all’evocazione dell’accademia teologica e questa ci rimanda a uno dei personaggi più in vista del corpo accademico, quel padre Aleksandr che abbiamo già citato a proposito della Guardia bianca e che, come abbiamo detto, è un personaggio assolutamente reale.
Si tratta di padre Aleksandr Glagolev[26] (1872-1937), ebraista e biblista all’accademia teologica di Kiev, parroco della chiesa di San Nicola il Misericordioso a Kiev, nonché padre spirituale di Michail Bulgakov (sarebbe stato lui a celebrarne il primo matrimonio). Dopo aver contribuito a smontare l’idea di un omicidio rituale sulla quale era stato costruito il caso Bejlis (1911-1913), cadrà vittima delle persecuzioni antireligiose del regime sovietico, e morirà nel 1937, probabilmente durante un interrogatorio, nella prigione di Luk’janovka (a Kiev e non alle Solovki come spesso si dice); in compenso la sua opera di coraggiosa difesa degli ebrei verrà continuata dal figlio Aleksej (1900-1972), anche lui sacerdote, il quale durante l’invasione nazista si distinguerà a tal punto da meritarsi poi il titolo di «Giusto delle Nazioni». Non possiamo soffermarci più a lungo sulla figura di padre Aleksandr, ma quello che se ne è detto può essere sufficiente per dare l’idea di una ecclesialità viva e ben conosciuta da Bulgakov; per chiarire meglio quanto questa ecclesialità fosse una presenza reale e lasciasse il segno sulle persone che la incontravano potremmo forse solo aggiungere che la figura di padre Glagolev fu decisiva nella formazione di un altro dei grandi martiri e testimoni della Chiesa ortodossa russa, quel padre Anatolij Žurakovskij[27] che sarebbe caduto vittima a sua volta dell’ondata terroristica del 1937.
Questa religiosità caratterizzata da un’esperienza fondamentalmente ecclesiale è del resto rinvenibile anche in uno dei passi più famosi di tutta la creazione bulgakoviana, quel primo capitolo del Maestro e Margherita nel quale si trovano a discutere dell’esistenza di Dio il diavolo e due intellettuali atei, tipici rappresentanti del regime e della sua mentalità. È un passo famoso e, a nostro avviso, centrale proprio perché il suo nucleo è quel realismo che costituisce una delle caratteristiche forti e distintive dell’ecclesialità e della mistica di Bulgakov, così attento alla presenza nel reale di tutta una serie di segni irriducibili a quanto l’uomo può creare e riprodurre da sé.
Ai due rappresentanti del potere sovietico, che non si limitano a parlar male di Dio e di Gesù Cristo ma ne negano l’esistenza, e soprattutto si applicano a negare l’esistenza storica di Cristo, si contrappone infatti il diavolo che, ovviamente, non può parlare bene di Dio, ma ne conosce perfettamente l’esistenza, e la conosce non in base a una qualche argomentazione razionale, filosofica o teologica, ma in base al puro fatto dell’esperienza. Ai due scrittori sovietici che contestano le affermazioni del diavolo circa l’esistenza di Dio, dicendogli: «Vede, professore, noi rispettiamo il suo vasto sapere, ma al proposito ci atteniamo a un punto di vista diverso»[28], il diavolo stesso ribatte: «Non c’è bisogno di nessun punto di vista, è esistito e basta!”. E all’insistenza di uno dei due, Berlioz, che vorrebbe delle prove («Ma ci vuole qualche prova»), il diavolo ribatte ancora una volta: «Neppure di prove c’è bisogno.[…] È tutto molto semplice: avvolto in un mantello bianco […] », e dà inizio al racconto della Passione di Cristo (che poi nella ricreazione bulgakoviana si trasformerà nel romanzo di Pilato), narrata da una voce che si pone come quella di un testimone oculare e che quindi sostituisce alla disquisizione intellettuale l’evidenza stessa dei fatti.
Non è che Bulgakov ignori o prenda alla leggera le prove dell’esistenza di Dio; come è dimostrato dal contenuto e dalla storia della composizione di questo capitolo, le conosce benissimo e si è attentamente documentato; si pensi a questo proposito al discorso che viene fatto in questo capitolo sulle cinque prove dell’esistenza di Dio.
Innanzitutto, e contrariamente a quanto si potrebbe credere, le cinque prove dell’esistenza di Dio qui citate (e poi contestate richiamandosi a una sesta prova attribuita a Kant) non sono quelle di san Tommaso, e la questione cela una complessità che vale la pena di richiamare. Nella redazione del romanzo del 1929-1930 (la prima), la prova di Woland, quella che nella redazione finale è indicata come settima (nel titolo del capitolo III)[29] e a ben vedere non è una prova ma la verifica della realtà[30], era indicata come sesta[31], di modo che la cosiddetta prova morale di Kant (che nell’attuale Maestro e Margherita viene indicata come sesta)[32] sarebbe stata la quinta. Evidentemente Bulgakov aveva attinto a una fonte secondo la quale le prove tradizionali dell’esistenza di Dio non erano le cinque vie tomiste; ora questa fonte è sicuramente la voce «Dio» redatta da P. Vasil’ev per il Dizionario enciclopedico Brockhaus-Efron[33]. Di questa identificazione si può essere certi, perché in questo articolo, a commento dell’argomento morale kantiano, vengono citati i giudizi di Schiller e Strauss in termini quasi letteralmente identici a quelli che Bulgakov utilizza nel romanzo[34]; ora, sempre in questo articolo, si parla sì di cinque prove dell’esistenza di Dio, ma queste non sono affatto quelle tomiste tradizionali bensì delle altre, che vengono definite: cosmologica, teleologica, ontologica, storica e morale, dove l’ultima è appunto quella kantiana (quinta, lo ripetiamo, nella precedente redazione del romanzo). Il fatto che poi questa prova nell’ultima redazione sia diventata la sesta può essere spiegato ipotizzando che Bulgakov, nel suo meticolosissimo lavoro di documentazione, abbia scoperto che lo stesso Kant, prima dell’argomento morale, nel periodo antecedente alla stesura delle tre Critiche, aveva proposto (con L’unico argomento per la dimostrazione dell’esistenza di Dio, 1763) un’altra prova dell’esistenza di Dio; questa prova si può definire logica e può dunque essere accostata alle altre quattro tradizionali (cosmologica, teleologica, ontologica e storica): si verrebbe così a costituire l’insieme delle cinque prove la cui critica viene attribuita a Kant, e alla sua prova morale, nell’ultima redazione del Maestro e Margherita.
Un lavoro meticolosissimo dunque, quello preparatorio di Bulgakov, eppure è come se tutta questa ricchezza intellettuale non lo interessasse, o meglio, lo interessa maggiormente il fatto, costantemente ribadito dall’insegnamento dei Padri orientali, secondo cui «ogni parola può essere contestata da un’altra parola, mentre nessuna parola può contestare la vita». Così, se ad ogni prova si può controbattere con la sua contestazione o con una sua interpretazione riduttiva o, più sbrigativamente, con la violenza (come fa uno dei due intellettuali sovietici che, per far fronte alle prove di Kant non sa escogitare niente di meglio che minacciare di spedirlo alle Solovki)[35], non si potrà più ribattere niente alla prova della realtà: là dove tutte le prove tradizionali vengono messe in ridicolo è questa prova che rende folli i sapienti umani e alla fine li riduce addirittura al non essere: Berlioz che non aveva creduto in Dio e alle premonizioni che il diavolo gli aveva fatto finirà sotto un tram che gli mozzerà la testa[36]: settima prova dell’esistenza di un Dio che regge il destino dell’universo e la cui esistenza si manifesta attraverso questa presenza, prima di dimostrarsi con un qualsiasi discorso.
Il Cristo della ricreazione poetica tentata nel Maestro e Margherita è un esempio di questo approccio al divino come presenza reale, irriducibile alle fantasie, alle interpretazioni o alle progettazioni umane.
Anche qui può essere molto utile ripercorrere la storia della composizione del testo e in particolare la storia della sua preparazione, sulla base dei quaderni manoscritti, con gli appunti e gli abbozzi iniziali[37]: alla fine del primo quaderno con la primissima versione del romanzo abbiamo infatti una quindicina di fogli che portano l’intestazione generale di «Materiali» ed hanno poi dei titoletti singoli: «Su Dio», «Sul diavolo», «Gesù Cristo»; sono, né più né meno, quelle che potremmo chiamare delle schede nelle quali Bulgakov riportava gli appunti che via via raccoglieva nel suo lavoro preparatorio per la stesura del romanzo. Significativamente sotto il titolo «su Dio» non abbiamo niente, perché in effetti, nel romanzo, Dio, pur essendo così massicciamente presente sin dalle prime pagine dove si discute della sua esistenza, non appare sotto forma di un personaggio; nelle altre due schede abbiamo invece una serie di annotazioni e riferimenti estremamente interessanti. Nella scheda dedicata al diavolo abbiamo delle citazioni prese da alcuni articoli del dizionario enciclopedico Brockhaus-Efron; tra questi articoli, quelli principali sono quelli dedicati al «Diavolo», al «Demone», alla «Demonologia», alla «Demonomania» e al «Sabba delle streghe»[38]; oltre a questi riferimenti, abbiamo poi l’indicazione di un testo di divulgazione scientifica pubblicato nel 1904 a San Pietroburgo da M. A. Orlov e intitolato Storia dei rapporti dell’uomo con il diavolo[39]: in questo testo c’è la descrizione delle raffigurazioni popolari del diavolo e dei vari particolari rituali legati alle varie credenze nel diavolo, nelle streghe e nella magia; come è stato dimostrato (in particolare dalla Čudakova proprio per quel che concerne il libro di Orlov) Bulgakov attinse ampiamente a tutti questi testi. La scheda dedicata a Gesù Cristo si presenta invece in maniera diversa ed è estremamente interessante; è divisa in tre colonne che portano i seguenti sottotitoli: «Secondo Ernest Renan»[40], «Secondo F.W.Farrar»[41] e, da ultimo, «Secondo altre fonti», ma la cosa significativa è che, mentre le due prime colonne hanno tutta una serie di appunti, la terza colonna resta perfettamente vuota: il che significa che nei primi anni del suo lavoro Bulgakov utilizzò in maniera considerevole solo Renan e Farrar, due fonti ideologicamente contrapposte, quasi appunto a voler controbilanciare una opzione con l’altra; e su queste fonti egli ritornò ripetutamente anche in seguito. Infatti, un altro blocco significativo di fogli con l’indicazione «Materiali» appartiene ad un quaderno di appunti del 1936, ed anche qui, accanto ad esempio ad annotazioni molto meticolose sulla flora della Palestina e accanto alla menzione esplicita del Vangelo di Nicodemo, abbiamo la citazione di Farrar, citazione che si ripete ancora in appunti del 1938-1939 e che, col passare degli anni, viene affiancata dalle citazioni di altri autori che si erano occupati della figura di Cristo o del racconto evangelico del suo processo e della sua crocifissione; appaiono così, ad esempio, i nomi di autori russi come N. K. Makkavejskij[42] e di autori occidentali, più o meno famosi, come Strauss, A. Drews[43], H. Grätz[44], o H. Barbusse[45], ma ciò che è importante sottolineare è che, appunto, questi nomi appaiono solo in seconda battuta e in un secondo tempo rispetto a quelli più originari e dominanti di Renan e di Farrar.
Detto questo sulle principali fonti attestate negli appunti di Bulgakov, vale la pena di dire qualcosa circa la loro utilizzazione; leggendo le citazioni prese dalle varie fonti e considerando le sottolineature, la prima impressione che si ha è che a Bulgakov interessassero non tanto le tendenze e le ipotesi interpretative delle varie scuole cui appartenevano gli autori citati quanto piuttosto i dati reali che egli poteva trovare in questi testi e che poi rielaborava con la propria fantasia creativa; a questo proposito, la Janovskaja dice esplicitamente: «a Bulgakov interessano i realia, i particolari fattuali e, innanzitutto ciò che corrisponde all’immagine che si è formata nella sua immaginazione»[46]. Così, ad esempio, in una frase, egli sottolinea parole o espressioni del tipo «scala» o «salì verso il palazzo», che gli servono evidentemente per ricostruire un ambiente reale; questa attenzione e preoccupazione primaria per la realtà è altrettanto evidente là dove, in un’altra citazione, egli sottolinea proprio l’espressione «qualcosa avvenne realmente». Questa attenzione alla realtà ci pare essere appunto l’elemento decisivo: è caratteristica di tutta l’opera precedente di Bulgakov intesa come desiderio di conservazione della vita reale e della sua memoria e la vediamo ora riapparire qui nella questione dell’uso delle fonti, persino di fonti come Renan che, per quello che sono (un’esplicita negazione della realtà della divinità di Cristo e quindi una sua riduzione a puro mito), a prima vista sembrerebbero stranamente contrastare con questo primato della realtà. Ora, proprio a proposito dell’uso di Renan, e a prima confutazione di questa impressione, vale la pena di ricordare innanzitutto che Renan è significativamente controbilanciato dall’uso di una fonte contraria come Farrar e poi, soprattutto, vale la pena di aggiungere che il suo uso ha delle caratteristiche che lo riconnettono all’uso di tutte le altre fonti: a Bulgakov non interessano i punti di vista delle varie scuole teologiche, ma i dati che le varie ricostruzioni gli consentono di recuperare; così Renan gli interessa perché, a prescindere dalle sue convinzioni, aveva visitato i luoghi storici della vicenda di Cristo e di questi luoghi storici aveva dato una descrizione viva (fin troppo viva, gli era stato rimproverato da alcuni suoi critici); allo stesso modo e per lo stesso motivo gli interessa Farrar; anzi, se si deve giudicare dagli elementi di Farrar che rientrano nelle descrizioni romanzesche e che sono molto più numerosi di quelli desumibili da Renan, Farrar lo interessa ancora di più perché ancor più colorite e ricche di particolari concreti e reali erano state le sue descrizioni. Da ultimo, a proposito dell’uso di Renan e del rapporto con la realtà, vale la pena di ricordare ancora che, mentre una simile fonte lascerebbe presagire una riduzione mitologica e una negazione della divinità di Cristo a favore di una sua interpretazione tutta morale, il romanzo di Bulgakov va invece verso una conclusione completamente diversa, molto diversa anche da quella che potrebbe essere la prima impressione; se a una prima impressione, infatti, può sembrare che il Cristo del romanzo sia tutto fuor che Dio, e se questa prima impressione pare anche essere convalidata da certe espressioni letterali, nelle quali Jeshua Ha-Nozri addirittura sembra esplicitamente negare la propria divinità e ridurre il cristianesimo ad una scuola di moralità, una lettura più profonda ci mostrerà esattamente il contrario, ci mostrerà cioè, come osservava Bazzarelli, che se anche è vero che «dietro il Cristo di Bulgakov c’è il Cristo di Tolstoj» e «dietro il cristianesimo di Bulgakov c’è il cristianesimo di Tolstoj […] tuttavia non c’è soltanto questo: Tolstoj è, per così dire, “senza mistero” (almeno apparentemente). In Bulgakov c’è il senso del “mistero”»[47], e c’è in una maniera e con una potenza che non possono essere contestate da nessun’altra impressione; ma a conferma di quello che stiamo dicendo, e cioè a conferma del fatto che il romanzo di Bulgakov è tutto fuor che una riduzione del cristianesimo ad una dottrina morale e tutto fuor che una riduzione della realtà divinoumana di Cristo ad una pura figura mitologica, va osservato che proprio questo senso del mistero è quello che fondamentalmente e più di ogni altra cosa dovrebbe invece essere negato in una concezione del cristianesimo che negasse la divinità di Cristo e che riducesse il cristianesimo a pura dottrina morale.
Tutto quello che riguarda Jeshua, in effetti, nel romanzo è circondato dal mistero e genera paradossi che sembrano contrastare con il buon senso o con una ragione che crede di poter dominare senza limiti e senza residui la realtà. Jeshua, a ben vedere, non sa neppure chi è; non solo non sa se è un uomo o un Dio, ma non sembra sapere neppure chi siano i suoi genitori, al punto che a Pilato, che gli chiede di che sangue sia, risponde: «non lo so di preciso […] non ricordo i miei genitori. Mi dicevano che mio padre era siriano»[48] Insomma è un vagabondo, un eterno pellegrino, senza patria e senza famiglia, che non possiede niente, «nemmeno un asino»[49].
Tuttavia, accanto a questi caratteri che ne fanno quasi un moderno disadattato, un emarginato privo di un volto e di un’identità, Jeshua ne ha degli altri che lo rendono un tipo decisamente fuori del comune e che destano l’attenzione di una ragione ancora attenta ai segnali misteriosi del reale: la sua umanità, per certi versi così misera, per altri versi è assolutamente eccezionale. Innanzitutto, parla tre lingue, può rispondere tranquillamente in greco e in latino, e Pilato, che ha una formazione classica, riconosce che le sue idee, nonostante tutta la loro paradossalità, sono degne di un filosofo: di un filosofo che può sembrare pazzo (dal punto di vista del buon senso), ma pur sempre di un filosofo, la cui pazzia è, in realtà, solo lo schermo di qualcosa d’altro, di un mistero stupefacente che fa quasi paura. Questo Jeshua Ha-Nozri, in effetti, possiede delle qualità sovrumane che, paradossalmente, vengono alla luce attraverso la sua risposta alla domanda di Pilato circa la verità; siamo qui nel campo dell’assoluto paradosso, perché questa domanda, tradizionalmente considerata scettica e rimasta senza risposta, diventa ora la via attraverso la quale si fa strada la coscienza di un mistero sorprendente, tanto più sorprendente perché la verità non viene definita da questo strano filosofo attraverso dei concetti astratti, bensì attraverso una serie di dati reali e concreti, che nessuno conosce ma che per lui, essere misterioso, non hanno alcun mistero: «la verità innanzi tutto è che ti fa male la testa, ti fa così male che pavidamente pensi alla morte. Non solo non sei in grado di parlare con me, ma ti è perfino difficile guardarmi. E adesso io sono senza volerlo il tuo torturatore, il che mi amareggia. Non riesci neppure a pensare, e sogni solo che venga il tuo cane, l’unico essere, evidentemente, al quale sei affezionato. Ma il tuo tormento cesserà subito, la testa non ti farà più male»[50]. È proprio questa evocazione incredibile di fatti reali, ma che dovrebbero essere segreti, a destare lo stupore, la curiosità e persino il terrore del procuratore; il filosofo vagabondo può leggere nel pensiero e guarire: tutta una serie di cose che resta totalmente inspiegabile dal punto di vista naturale. E allora, per cercare di capire chi sia questo strano Jeshua che gli sta rivelando che cosa sia la sua verità personale, Pilato butta lì un’ipotesi attraverso la quale si fa strada, non una risposta che verrebbe a risolvere ogni problema e a dare un potere sulla verità, ma una nuova domanda: «Confessa […] sei un grande medico?». Ma Jeshua lo nega, e lo fa «sfregandosi con voluttà la mano paonazza, pesta e tumefatta»[51]. È un particolare, questo, apparentemente insignificante ma in realtà di grande importanza, perché sottolinea il nuovo paradosso: che quest’uomo eccezionale, capace di curare gli altri e di indovinarne i pensieri più riposti e inconfessabili, sembra incapace di salvare se stesso; e a questo punto, in mezzo a tante dissimiglianze rispetto al racconto evangelico, non può che venire naturalmente alla memoria il fatto che anche l’evangelico Gesù Figlio di Dio appariva incapace di salvare se stesso e che questa incapacità gli era appunto rimproverata da quei rappresentanti della ragione che pretende di essere misura del reale e che come tale pretende di poter giudicare persino della verità.
Se per tanti aspetti Jeshua è dunque lontano dal Gesù dei Vangeli, per altri elementi lo richiama proprio in quello che faceva di Gesù una novità assoluta rispetto ai profeti, ai maghi o agli altri essere eccezionali che lo avevano preceduto; questo strano uomo, ad esempio, è vestito con «un chitone azzurro logoro e piuttosto vecchio»[52], e noi sappiamo che il colore azzurro è il colore della Sapienza divina: dunque, Jeshua non sa neppure chi sia il suo padre terreno, è vestito di stracci, ma per ironia e paradosso, proprio là dove gli viene fatta indossare questa tunica sbrindellata, se ne suggerisce la dignità divina e gli viene data un’età che getta sulla sua nascita un carattere anch’esso assolutamente divino. Come ha fatto notare un attento studioso della simbologia del Maestro e Margherita, in aperta violazione rispetto alla tradizione universalmente accettata (e da lui ben conosciuta), in questa pagina Bulgakov attribuisce a Jeshua l’età di 27 anni e non quella di 33; non potendosi trattare di un banale errore e secondo una prassi frequente[53] in Bulgakov, questa dissonanza rispetto a quanto è a tutti noto richiama un’intenzione significativa profonda. Se l’autore sembra sbagliare quello che assolutamente non può sbagliare, significa che con quell’errore ci vuole suggerire qualcosa: «il fatto è che nell’antica Giudea e a Roma il 27 era considerato un numero sacro. Come triplo del nove è legato al simbolo cristiano della Trinità divina. Il nove in quanto tale, nell’antica mistica ebraica dei numeri, è il numero sacro della Verità. Nell’antica Roma, invece, il numero 27 possiede la forza del numinoso ed è legato all’idea dei sacrifici umani. Così, nella lingua esoterica dei numeri sacri, Jeshua Ha-Nozri, che predica delle idee strane e dannose per il buon senso, è appunto l’araldo della Verità divina della Trinità che si afferma nel mondo attraverso il sacrificio di sé sulla croce»[54]. Attraverso un errore o una dissonanza rispetto alla tradizione evangelica, l’artista si distacca dalla pura ripetizione o dal puro commento esegetico e però riesce a suggerire artisticamente lo stesso contenuto fondamentale di quella tradizione: che quell’uomo eccezionale, poco importa se di 27 o di 33 anni, è legato in maniera assoluta alla divinità, è addirittura tutto nella Trinità.
Per altre due volte nel romanzo di Pilato, ricorda sempre Krugovoj, Bulgakov insinua l’idea della Trinità in rapporto a Jeshua. Durante il processo, infatti, mentre sta cercando di escogitare la formula giuridica che gli consenta di liberare Jeshua, Pilato vede una rondine volare nel porticato e una luminosa colonna di polvere innalzarsi accanto a Jeshua[55]; i due simboli, apparendo accanto a Jeshua, richiamano appunto la Trinità, in quanto il primo rinvia alla colonna di fuoco che è il simbolo dello Jahve veterotestamentario e cioè del Padre, mentre il secondo (la rondine messaggera della primavera, cioè della risurrezione della natura a nuova vita) rinvia alla colomba e quindi allo Spirito Santo. L’altra evocazione simbolica della Trinità si situa invece dopo l’esecuzione capitale di Jeshua, quando Pilato, rimasto solo, vede davanti a sé due rose bianche, cadute per terra in una pozzanghera di vino rosso[56]; qui abbiamo, commenta Krugovoj, «non solo la simbologia della Trinità divina, suggerita dall’unione del rosso e del bianco, ma anche la simbologia eucaristica del vino e del sangue, unita all’idea della sofferenza dell’innocente nell’immagine delle due rose bianche. La simbologia della Trinità divina è completata dalla simbologia della divinoumanità. E così il mistero di Jeshua viene finalmente decifrato: egli è Dio e Uomo»[57]. O per lo meno, questa è l’ipotesi che noi possiamo avanzare, ma il romanzo ce la suggerisce soltanto e, per essere convincente, ce la suggerisce attraverso uno Jeshua che continua a non dirci niente della propria divinità e quindi a mostrarci innanzitutto un’umanità assolutamente eccentrica, un mistero eccezionale. E in effetti deve essere appunto così: lo Jeshua Ha-Nozri del romanzo non è il Gesù di Nazaret dei Vangeli. Lo Jeshua letterario, come è stato esattamente e finemente notato da Igor’ Vinogradov[58], per essere un personaggio realisticamente convincente, non doveva saper nulla della propria origine divina e suggerircela appunto attraverso un’umanità che rimanda continuamente al di là di quello che gli uomini in quanto tali possono fare o capire: un uomo decisamente fuori dell’ordinario, così eccezionale da non poter essere semplicemente un uomo.
E questo uomo, che non può essere soltanto un uomo, ci si impone nella sua eccezionalità perché, dopo la morte, resta vivo nella memoria di Pilato in maniera completamente diversa da quella che gli uomini che hanno meditato su questa vicenda sono riusciti ad immaginarsi[59]: per Pilato che lo ha condannato a morte, e a una morte che tutti riteniamo ingiusta, Jeshua non è la semplice memoria del male compiuto, davanti al quale vergognarsi ed essere schiacciato per la propria indegnità morale e per la propria miseria umana, così evidenti di fronte alla perfezione di Dio; ma il male compiuto non è neppure cancellato, in una sorta di irresponsabilità morale nella quale l’uomo si detta le proprie leggi e quindi si assolve da solo. Per Pilato, quello che ha compiuto resta, ma non come occasione di condanna o di indifferenza morale, resta, ma al di fuori di quello che sarebbe prevedibile in una vicenda segnata soltanto dall’umanità e dalle sue capacità di ideazione: la condanna del moralismo religioso e del legalismo laico o l’indifferenza del sentimentalismo buonista e dell’immoralismo mondano; consumato ai danni di un essere così eccezionale da non poter essere soltanto un uomo, quel gesto genera una reazione che va al di là del consueto comportamento degli uomini che credono di possedere tutte le risposte, genera la compassione e trova come risposta totalmente inattesa la misericordia. A Margherita che ha interceduto per il procuratore romano Woland, infatti, spiega: «Lei non deve intercedere per lui, Margherita, perché per lui ha già intercesso la persona con la quale egli brama tanto di parlare»[60]. E che si sia ormai fuori da ogni questione di condanna o di indifferentismo morale è proprio testimoniato dal fatto che quello per cui Pilato soffre, quello che egli desidera, e gli verrà concesso dalla misericordia, è appunto la possibilità di riprendere il colloquio con Jeshua.
È questa amicizia, più profonda di ogni condanna o assoluzione, che Pilato continua ad attendere, al punto di sognarla, come si narra nel XXVI capitolo, nel quale Pilato immagina di poter ritrovare Cristo come se l’esecuzione non fosse avvenuta: «E non appena il procuratore ebbe perso il collegamento con la realtà che lo circondava, si avviò subito lungo la strada splendente e la risalì direttamente verso la luna. Nel sogno scoppiò addirittura a ridere di felicità, tanto ogni cosa si disponeva in modo così splendido e irripetibile su quella diafana strada cilestrina. Era seguito da Banga, e vicino a lui camminava il filosofo errante. Discutevano qualcosa di molto complesso e importante, e nessuno dei due riusciva a prevalere sull’altro. Non si accordavano su nessun punto, e questo rendeva la loro discussione particolarmente interessante e interminabile. S’intende che l’esecuzione di quel giorno era stata un mero equivoco: il filosofo che aveva escogitato una cosa così incredibilmente assurda come la bontà universale degli uomini gli camminava accanto, quindi era vivo. E, naturalmente, sarebbe stato orribile anche il solo pensiero che un uomo simile potesse essere giustiziato. L’esecuzione non era avvenuta! Non era avvenuta! Ecco in che cosa consisteva l’incanto di quel viaggio su per la scala lunare»[61].
Ovviamente l’esecuzione c’era stata e nulla poteva cancellarla, il sogno di Pilato resta un sogno, ma dopo di esso viene una realtà persino più grande di quella che lui poteva immaginarsi e sognare e di quella che qualsiasi uomo, anche un uomo eccezionale, gli avrebbe potuto dare: quell’essere straordinario che aveva perduto e che avrebbe voluto tenere con sé gli viene ora restituito, non per sua decisione, per la decisione del potente procuratore romano, ma per la misericordia, sua, della vittima impotente e attraverso il sacrificio di chi era pronto a intercedere per lui. Anche per questa via si rende evidente come l’eccezionalità di Jeshua rimandi continuamente a qualcosa, a una presenza, che non è più soltanto umana; con il perdono di Pilato che diventa una possibilità di compagnia con Jeshua cioè, propriamente, la possibilità di essere-con qualcuno, Bulgakov ci rinvia a un piano che non è più soltanto etico ma è propriamente ontologico, e ci rende così presente attraverso il suo romanzo la dimensione dell’Essere che, come dice la tradizione della Chiesa, si è fatto «amico degli uomini».
[1] Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.5.2004 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
[2] A. D. SINJAVSKIJ, Una voce dal coro, tr. it. Garzanti, Milano 1975, p. 12.
[3] Cfr. A. DELL’ASTA, La via russa all’esperienza cristiana, in «La Nuova Europa», n. 1, 1998, pp. 25-29.
[4] Le opere di Bulgakov verranno citate sulla base dell’edizione in cinque volumi pubblicata a Mosca nel 1989-1990: M. A. BULGAKOV, Sobranie sočinenij v pjati tomach, Chudožestvennaja Literatura, Moskva 1989-1990 (utilizzeremo semplicemente la sigla SS, cui seguirà l’indicazione del volume in numero romano e delle pagine in numero arabo; per la traduzione, salvo diversa indicazione, ci serviremo della recente edizione nei «Meridiani» di Mondadori: M. A. BULGAKOV, Romanzi e racconti, Mondadori, Milano 2000, indicando fra parentesi la sigla dell’opera citata −GB: La guardia bianca; MGM: Memorie di un giovane medico; MM: Il Maestro e Margherita− e facendola seguire dall’indicazione delle pagine relative).
[5] Si pensi qui in particolare alla preghiera di Elena che chiede alla Vergine la guarigione del fratello maggiore; cfr. SS, I, pp. 411-412 (GB, pp. 329-332).
[6] Non si dimentichi a questo proposito che Il Maestro e Margherita ha come epigrafe i versi del Faust di Goethe in cui Mefistofele si presenta come «Una parte della forza / che vuole sempre il male e opera sempre il bene»; cfr. SS, V, p. 7 (MM, p. 357).
[7] SS, I, p. 81 (MGM, p. 1458).
[8] SS, I, p. 81 (MGM, p. 1458).
[9] SS, I, p. 78 (MGM, p. 1455).
[10] SS, I, p. 97 (MGM, pp. 1479-1481).
[11] SS, I, p. 126 (MGM, p. 1518).
[12] SS, I, p. 92 (MGM, p. 1473).
[13] SS, I, p. 76 (MGM, pp. 1451-1453).
[14] SS, I, p. 86 (MGM, p. 1465).
[15] SS, I, p. 93 (MGM, p. 1474).
[16] Cfr. SS, I, pp. 87-89, 96, ecc. (MGM, pp. 1465-1468, 1478, ecc.).
[17] SS, I, p. 97 (MGM, p. 1480).
[18] SS, I, p. 89 (MGM, p. 1469).
[19] Cfr. SS, I, pp. 74-75 (MGM, pp. 1448-1450).
[20] SS, I, p. 112 (MGM, p. 1500).
[21] SS, I, p. 121 (MGM, p. 1511).
[22] SS, II, pp. 313-314 (tr. it. in Appunti sui polsini, Studio Tesi, Pordenone 1991, pp. 137-138).
[23] SS, I, p. 182 (GB, p. 15).
[24] SS, V, p. 562.
[25] SS, I, p. 180 (GB, pp. 12-13); cfr. anche SS, I, pp. 181 e 199 (GB, pp. 14 e 39).
[26] Sulla figura di padre Aleksandr Glagolev si può vedere A. GLAGOLEV, Kupina neopalimaja (Il roveto ardente), Duch i Litera, Kiev 2002; in italiano, si veda il recente articolo di K. SIGOV, La missione della scuola teologica in padre Aleksandr Glagolev, in «La Nuova Europa», n. 3 (309), maggio-giugno 2003, pp. 109-120.
[27] Sulla figura di padre Anatolij Žurakovskij si veda I. SEMENENKO-BASIN – P. PROCENKO, Anatolij Žurakovskij, tr. it. La Casa di Matriona, Milano 1999.
[28] SS, V, p. 19 (MM, p. 376).
[29] SS, V, p. 43 (MM, p. 407).
[30] Si tratta del fatto che a Berlioz viene mozzata la testa, come il diavolo gli aveva predetto nel primo capitolo, per insinuargli il sospetto che la realtà non può essere esaurita dalle pretese conoscitive della ragione dimostrativa. Cfr. SS, V, p. 16 (MM, p. 372).
[31] Cfr. M. A. BULGAKOV, Izbrannye proizvedenija (Opere scelte), Dnipro, Kiev 1990, p. 36.
[32] SS, V, p. 13 (MM, p. 369).
[33] «Bog» (Dio), in Enciklopedičeskij Slovar’ Brokgauza i Efrona, VII, pp. 206b-209b.
[34] Nel romanzo leggiamo: «Non per nulla Schiller diceva che le disquisizione kantiane su questo argomento possono soddisfare solo degli schiavi, mentre Strauss ne rideva e basta», SS, V, p. 13 (MM, p. 369), mentre nell’articolo del Brockhaus-Efron leggiamo: «Schiller dice che Kant predica una morale adatta solo a degli schiavi. Strauss osserva ironicamente che Kant nel suo sistema, fondamentalmente contrario al teismo, si ricavò una cameretta per farci stare anche Dio», «Bog», cit., p. 208b.
[35] SS, V, p. 13 (MM, p. 369).
[36] SS, V, pp. 47-48 (MM, p. 412).
[37] Su questo problema rimandiamo ai lavori fondamentali di M. O. ČUDAKOVA, Tvorčeskaja istorija romana M. Bulgakova «Master i Margarita» (La storia creativa del romanzo di M. Bulgakov «Il Maestro e Margherita»), in «Voprosy Literatury», n. 1, 1976, pp. 218-253, Archiv M. A. Bulgakova. Materialy dlja tvorčeskoj biografii pisatelja (L’archivio di M. A. Bulgakov. Materiali per una biografia artistica dello scrittore), in «Zapiski Otdela Rukopisej», 37, Gos. Bibl. Im. Lenina, Moskva 1976, e Žizneopisanie Michaila Bulgakova (Biografia di M. Bulgakov), Kniga, Moskva 1988; nonché a quelli di L. M. JANOVSKAJA, Tvorčeskij put’ Michaila Bulgakova (Il tragitto creativo di M. Bulgakova), Sovetskij Pisatel’, Moskva 1983 e Treugol’nik Volanda. K istorii sozdanija romana «Master i Margarita» (Il triangolo di Woland. Per una storia della creazione del romanzo «Il Maestro e Margherita»), Lybid’, Kiev 1992.
[38] «Diavol», in Enciklopedičeskij Slovar’ Brokgauza i Efrona, XX, pp. 727a-729a; «Demon», ibid., XIX, pp. 374b-377a (questa voce venne compilata da Vl. S. Solov’ëv); «Demonologija», ibid., XIX, p. 373b (è una nota di poche righe); «Demonomanija», ibid., XIX, p. 373b (la voce rimanda a catena ad altre due voci: «Koldovstvo» [Maleficio] e da questa a «Čarodejstvo» [Incantesimo], ibid., LXXV, pp. 394a-397b); «Šabaš ved’m», ibid., LXXVII, pp. 82a-84a.
[39] M. A. ORLOV, Istorija snošenij čeloveka s d’javolom, Sankt Peterburg 1904.
[40] Ernest Renan (1823-1892), uno dei massimi esponenti del positivismo francese della seconda metà dell’ottocento, fu romantico esaltatore della scienza e della storia, ridotte nel senso di un puro umanesimo emancipato da qualsiasi forma di trascendenza e segnato da forti tinte moraliste; qui ci interessa solo per il suo libro sulla Vie de Jésus (Societé Bibliophile, Leipzig 1863), nel quale viene espressa la sua convinzione fondamentale sulla religione e sul cristianesimo che, secondo lui, devono essere liberati da tutto ciò che hanno di miracoloso e di soprannaturale e considerati come la pura manifestazione di un ideale morale, legato al tempo e alle condizioni in cui nacque. Esemplare di questo atteggiamento riduzionistico nei confronti del cristianesimo, che tende a svuotarlo della sua dimensione propriamente divinoumana, nel senso storico e realistico di questo termine, e a trasformarlo, nel migliore dei casi, in un utile supporto teorico delle concezioni mondane dominanti, è il fatto che appunto Renan non riconosca alla religione altra validità se non quella di un’ipotesi adatta a suggerire determinati atteggiamenti morali: «L’atteggiamento più logico del pensatore davanti alla religione −dice Renan− è di far come se essa fosse vera. Bisogna agire come se Dio e l’anima esistessero. La religione rientra così nel caso di quelle numerose ipotesi, come l’etere, i fluidi elettrico, luminoso, calorico, nervoso e l’atomo stesso, di cui sappiamo bene che sono solo simboli, mezzi comodi per spiegare i fenomeni, e che tuttavia conserviamo» (Feuilles détachées faisant suite aux Souvenirs d’enfance et de jeunesse, Calmann-Levy, Paris 1892, p. 432). Se si considera quanto il «mistico» Bulgakov dovesse essere lontano da ogni riduzione moralistica, e se ci si ricorda di quanto fosse attento alle dimensioni di eternità, mistero e soprannaturalità, che abbiamo visto essere così insistentemente presenti nei suoi primi scritti, si deve sin dall’inizio sospettare un’utilizzazione molto personale di questa fonte.
[41] Frederick William Farrar (1831-1903), teologo inglese che fu tra l’altro cappellano della regina Vittoria e pubblicò numerose opere di carattere storico ed edificante sulle origini cristiane, interessandosi inoltre, in particolare, a questioni relative alla presenza sociale del cristianesimo. Anche lui ci interessa qui solo in relazione al fatto che, una decina d’anni dopo Renan e in esplicita contrapposizione al suo libro, pubblicò a sua volta un’opera di confutazione del testo di Renan intitolata The Life of Christ (Cassel Petter & Galpin, London 1872).
[42] N. K. Makkavejskij (1864-1919), teologo e pedagogo presso l’accademia teologica di Kiev, vi aveva insegnato teologia pastorale e pedagogia negli stessi anni in cui vi lavorava il padre di Bulgakov; si era occupato in particolare delle condizioni esterne in cui si era svolta la Settimana Santa, tema che ovviamente interessava in maniera speciale Michail Bulgakov e al quale Makkavejskij aveva dedicato la propria dissertazione magisteriale: Archeologija istorii stradanij Gospoda našego Iisusa Christa (Archelogia della storia della passione di nostro Signore Gesù Cristo), Kiev 1891.
[43] A. Drews (1865-1935), feroce negatore della storicità di Cristo, dovette interessare Bulgakov soprattutto per i dati raccolti nel suo libro su Gesù (Die Christusmythe, Diederichs, Jena 1909), che aveva già avuto un’edizione russa prima della rivoluzione, la cui diffusione era però stata vietata dalla censura, e poi era stato definitivamente pubblicato dopo la caduta dello zarismo (Mif o Christe, Mosca 1923)
[44] H. Grätz (1817-1891), storico tedesco, insegnò al Seminario rabbinico e all’Università di Breslavia; interessò Bulgakov per il suo monumentale studio in undici volumi dedicato alla storia degli ebrei (Geschichte der Juden von den altesten Zeiten bis auf die Gegenwart, Leipzig 1853-1868) e pubblicato in versione russa prima della rivoluzione (Istorija evreev ot drevnejšich vremen do nastojaščego, tt. 1-12, Odessa 1903-1908).
[45] H. Barbusse (1873-1935) conobbe una particolare fama in Unione Sovietica per la sua adesione al partito comunista e per la sua accettazione del mito di Stalin; Bulgakov si interessò ovviamente del suo libro su Gesù (Jésus, Flammarion, Paris 1927), che venne immediatamente tradotto in russo (Iisus protiv Christa, Moskva 1928) ma che egli dovette cominciare ad usare solo a partire del 1938.
[46] L. M. JANOVSKAJA, Tvorčeskij put’…, cit., p. 253.
[47] E. Bazzarelli, Invito alla lettura di Bulgakov, Mursia, Milano 1988, p 186.
[48] SS, V, p. 22 (MM, p. 380).
[49] SS, V, p. 28 (MM, p. 387).
[50] SS, V, p. 26 (MM, p. 384).
[51] SS, V, p. 27 (MM, p. 385).
[52] SS, V, p. 20 (MM, p. 378).
[53] Abbiamo proposto alcuni esempi di questa prassi nelle note all’edizione italiana curata per i «Meridiani»; si veda in tal senso, e a titolo puramente esemplificativo, la n. 1 a p. 1637.
[54] G. KRUGOVOJ, Gnostičeskij roman M. Bulgakova (Il romanzo gnostico di M. Bulgakov), in «Novyj Žurnal», n. 134, 1979, pp. 54-55.
[55] SS, V, p. 30 (MM, p. 389).
[56] SS, V, pp. 291-292 (MM, pp. 743-744).
[57] G. KRUGOVOJ, art. cit., p. 55.
[58] Cfr. I. I. VINOGRADOV, Zaveščanie Mastera (Il testamento del Maestro), in «Voprosy Literatury», n. 6, 1968, p. 56.
[59] A proposito di questo livello della vicenda di Pilato, ben più profondo di quello esclusivamente morale, rimandiamo alle stimolanti osservazioni di A. DIOLETTA SICLARI, Etica e fede nel romanzo di Michail Bulgakov «Il Maestro e Margherita», in Storia religiosa della Russia, La Casa di Matriona, Milano 1984, pp. 219-253.
[60] SS, V, p. 370 (MM, p. 848).
[61] SS, V, pp. 309-310 (MM, pp. 767-768).