La battuta d’arresto, in larga misura prevedibile, del processo di formazione di una costituzione europea consente, probabilmente, di riflettere con un poco più di serenità sul ruolo e sulle funzioni di un documento normativo che pretenda di valere come carta comune dell’Europa. Il dibattito che si è svolto negli ultimi mesi, infatti, è stato condizionato dall’idea, per vero non si sa quanto fondata, che una eventuale mancata approvazione del testo approvato dalla Convenzione avrebbe significato una irrimediabile crisi nel processo di unificazione europeo, destinato a lasciare ferite irreparabili nel corpo di una Europa bisognosa di un documento di unificazione “politica” a fronte delle eccezionali trasformazioni che interessano l’Europa e il mondo.
In realtà si è visto come alla mancata approvazione del documento che avrebbe voluto porsi come Costituzione europea non sia seguito nessuno immediato sconvolgimento, né del sistema di relazioni che regge i rapporti tra gli stati nazionali europei, né della posizione della moneta europea nel sistema di scambi internazionali. I mercati – cui è ora di moda guardare per valutare la riuscita o il fallimento di una iniziativa politica a livello internazionale – non hanno dato alcun segno di considerare l’approvazione della Costituzione europea come alcunché di significativo per l’assetto dei rapporti finanziari e monetari a livello internazionale. Il che lascia intendere, a tacer d’altro, che probabilmente i mercati internazionali non hanno mai considerato il processo costituente europeo come qualcosa, almeno a breve periodo, di troppo significativo, e che la stabilità dell’Europa dipende da altri fattori, che prescindono dalla approvazione o meno di un documento di unificazione “politica” degli stati europei.
Sono diverse la ragioni di questa circostanza.
Intanto, ciò che in questi anni, e cioè almeno dalla Conferenza intergovernativa di Nizza, è stato definito “costituzione europea” era destinato ad essere tutto fuorché una costituzione, almeno nel senso che comunemente si vuole dare a questo termine. Che in Italia e in Europa, d’un tratto, ci sia affaticati, da parte di giuristi e politologi, a ragionare sui caratteri essenziali di una costituzione, sulla esistenza e sui confini di una “materia” costituzionale sta in fondo a significare – al di là dei risultati cui ciascuno ha voluto approdare – che quella che si sarebbe potuta approvare nella Conferenza intergovernativa (CIG) del dicembre 2003 non era una costituzione o, qualora lo fosse stata, avrebbe portato con sé una trasformazione radicale del concetto di costituzione che, in Europa continentale, si è diffuso e concretamente praticato fin dai tempi della Rivoluzione Francese.
Per noi europei del continente la costituzione, nasce e sorge come documento politico che pretende di ingabbiare nelle maglie del diritto il funzionamento di uno stato, sottoponendo l’azione di questo a regole intangibili perché scritte. Non solo, ma, in base ad una singolare inversione di significati, la costituzione è divenuta, all’interno di questa concezione, il documento fondativo di un ordine statale che sorge ex novo e che pretende, sempre e comunque, di porsi come illimitato nel tempo e nei propri poteri. Da allora, per la cultura giuridica europea, uno stato non è pensabile senza costituzione, né ha senso pensare ad un documento che voglia porsi come costituzione senza rinviare necessariamente ad uno stato. Si tratta di una correlazione che può essere discussa e indagata a livello concettuale, ma dalla quale non è possibile prescindere, e ciò perché c’è un gioco di rinvii tra l’ordine politico e l’ordine costituzionale di una società, tra la dimensione politica e la forma giuridica che questo ordine utilizza per fondarsi prima e legittimarsi poi di fronte agli attori sociali. Questo sistema di rinvii è stato sintetizzato, per quanto possibile nelle dottrine del potere costituente, che proprio del rapporto tra forma giuridica e sostanza politica ideato dalla Rivoluzione Francese hanno cercato una sintesi.
Anche in base a ciò la vicenda della costituzione europea è stata intesa dai più come un processo di unificazione politica, che avrebbe dovuto ripercorrere, facendo tesoro delle acquisizioni del costituzionalismo continentale, la formazione di un soggetto federale o quasi-federale. Attraverso i lavori della Convenzione, insomma, si sarebbero dovuti positivizzare i principi che avrebbero dovuto guidare nel futuro l’azione dei singoli stati compresi nella Unione, dando vita ad una forma di cooperazione che avrebbe dovuto coniugare, in una sintesi del tutto nuova, i caratteri della federazione con quelli della confederazione.
Sicché si può capire perché, soprattutto nei mesi scorsi, la questione della approvazione del testo uscito dalla Convenzione abbia suscitato tanto interesse. L’obiettivo della costituzione europea avrebbe dovuto essere quello di formalizzare un ordine politico stabile e definitivo all’interno dell’Europa, collegando i diversi stati all’interno di una figura organizzativa in grado di porsi come una struttura unitaria. Ciò che si andava cercando non era una unificazione amministrativa o una unificazione economica – che probabilmente esistono già sia a livello materiale che a livello giuridico – ma piuttosto una formula per potere approdare all’obiettivo perseguito dal costituzionalismo moderno dalle costituzioni rivoluzionarie sino a Carl Schmitt: e cioè la fondazione e il governo di una unità politica.
E allora, se l’obiettivo era quello di dare vita ad una qualche forma di unità politica tra gli stati racchiusi nell’Unione, si può anche capire perché la mancata approvazione del testo sia dipesa da un disaccordo sul passaggio dalla regola della unanimità alla regola della maggioranza. Un soggetto politicamente unitario, e cioè uno stato, decide a maggioranza perché il dissenso di taluna delle sue componenti non intacca l’unità politica che comunque viene espressa dalla esistenza di una decisione: una organizzazione internazionale decide sulla base del consenso degli stati che vi partecipano. In questo sta la tensione tra metodo “comunitario” e metodo “federale” che ha attraversato questi cinquanta anni di vita comunitaria. E in questo sta la differenza tra uno stato e una struttura confederale o “comunitaria”
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Se a fronte di tutto ciò – e cioè a fronte degli obiettivi dichiarati – si va ad esaminare il testo prodotto dalla Convenzione, ci si rende conto, che ad onta delle dichiarazioni che hanno accompagnato l’anomalo processo costituente europeo di questi ultimi anni, non si può non restare disorientati. Niente di ciò che il costituzionalismo europeo ha prodotto in questi ultimi due secoli si adatta né al testo prodotto dalla Convenzione, né all’occasione politica che ne ha originato il lavoro. Piuttosto ci si trova innanzi ad una formidabile opera di razionalizzazione e sistematizzazione del complesso di Trattati internazionali che hanno sorretto – e sorreggono tuttora, con regole e maggioranze diverse – il funzionamento della Comunità Europea e dell’Unione Europea, oggi unificate, tanto nel linguaggio scientifico, come in quello divulgativo, nella ambigua formula di “Europa”; ci si trova innanzi al tentativo di elaborare forme decisionali diverse dal passato all’interno di una struttura organizzativa profondamente ridisegnata; ci si trova innanzi ad una Carta dei diritti che ambiziosamente vorrebbe essere la summa delle tradizioni costituzionali comuni in materia di diritti fondamentali; ci si trova, da ultimo, innanzi ad una serie di regole che disciplinano l’ingresso e l’abbandono da parte dei singoli stati delle forme di collaborazione e di codecisione approntate dalla “costituzione” europea. Qualcosa di molto più simile ad un poderosa opera di codificazione di un sistema di relazioni internazionali di eccezionale complessità e ad ampiezza piuttosto che ad una costituzione in senso proprio.
Prova ne sia che, quand’anche la cd. “costituzione” europea fosse stata approvata nelle forme e nei tempi auspicati, essa avrebbe dovuto essere trattata, all’interno di ciascun singolo ordinamento nazionale, alla stregua di un trattato internazionale, bisognoso di ratifica secondo il procedimento dettato dall’ordine costituzionale interno a ciascuno stato. Né questa “costituzione” sarebbe potuta entrare in vigore prima della ratifica da parte di tutti gli stati aderenti. Tanto per intenderci, se la Costituzione federale americana era destinata ad entrare in vigore con l’approvazione di 9 dei 15 stati che avevano partecipato alla sua creazione – ponendosi dunque già come una costituzione nel senso sopra detto e non come un trattato internazionale – niente di tutto questo era previsto nel testo della Convenzione. La Costituzione europea, quand’anche approvata a livello intergovernativo, sarebbe entrata in vigore solo quando tutti gli stati aderenti avessero deciso di ratificarla. Esattamente come un trattato internazionale; non come una costituzione.
Il che lascia intendere che, una volta approvata a livello governativo, la pretesa costituzione europea si sarebbe alimentata delle singole costituzioni nazionali, avvalendosi delle forme e delle procedure da queste disegnate per entrare in vigore ed operare nei singoli ordinamenti. E infatti, se si scorre il testo della Convenzione, ci si accorge che le scelte in questo condensate acquistano significato solo se poste in relazione a specifici problemi di funzionamento degli apparati comunitari e non pretendono di modificare, neanche in parte, il funzionamento delle singole organizzazioni statali. Non si immagine nemmeno di costruire il super-stato europeo, paventato in diversi settori dell’opinione pubblica europea e nemmeno di fondare un ordine federale europeo: si vuole semplicemente costruire una struttura decisionale comune agli stati riassunti nella formula europea e garantire una qualche efficienza decisionale a tale struttura.
La stessa Carta dei diritti, del resto, se posta a confronto con il sistema di garanzie approntato dalla maggior parte delle costituzioni nazionali europee appare ben poca cosa, sia dal punto di vista del novero dei diritti riconosciuti, sia sul versante del livello di garanzia che si vorrebbe così approntato ai singoli cittadini d’Europa. E’ vero che questa Carta è stata pensata, fin dall’inizio, come un tentativo di codificazione delle “tradizioni costituzionali europee” destinato a guidare e a limitare il funzionamento degli organismi comunitari e dunque non pretende affatto di sovrapporsi alle singole costituzioni nazionali, operando invece ad ulteriore garanzia rispetto a queste; ma è vero, allo stesso modo, che il tenore dispositivo della Carta può apparire apprezzabile, e degno di nota, solo all’interno di stati – come quelli di recente o imminente ingresso nella cd. Europa a 25 – i quali siano privi di una cultura politica e giuridica – in una parola, di una cultura costituzionale – simile a quella che si è radicata in Europa continentale e che ora si cerca in qualche misura di esportare nei paesi cd. di democrazia recente.
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Eppure se si ragiona su questa circostanza è facile avvedersi che l’occasione politica che ha originato i lavori della Convenzione è ben diversa da que che hanno dato vita alle costituzioni nazionali dell’Europa continentale. Qui, ad onta delle dichiarazioni pubbliche, il problema non è quello di fondare un ordine giuridico che orienti di sé la società, informandola di principi e regole condivise – e del resto, come potrebbe descriversi compiutamente una società “europea” che abbracci società che per secoli hanno proceduto per conto proprio? – ma piuttosto quello di assicurare la proiezione all’esterno di una immagine di Europa che possa dirsi unitaria a fronte delle formidabili trasformazioni in corso nelle aree extraeuropee e che i singoli stati sono troppo deboli o troppo piccoli per guidare o solo per coordinare.
Da questo punto di vista si capisce perché l’Europa politica abbia e non possa non avere una fondazione di ordine economico-mercantile: perché sono le trasformazioni economiche e politiche all’esterno dell’Europa geografica che, diversamente da quanto è possibile cogliere nella quotidianità dei “cittadini” europei, premono dall’esterno e impongono la creazione di un soggetto unitario. Queste trasformazioni politiche sarebbero un fenomeno marginale se la interconnessione economica da cui queste originano non fosse in grado di influire anche sulla vita dei popoli europei. E allora, forse, è possibile avvedersi che ciò che appare fittizio o pretestuoso se posto in relazione alle necessità interne delle diverse società europee – Carta dei diritti, strutture decisionali comuni, limitazioni intense e profonde della capacità decisionale dei singoli governi, per non parlare di moneta unica e politica monetaria – acquista d’un tratto significato evidente in una prospettiva di proiezione all’esterno delle società europee, la quale, piaccia o non piaccia, è innanzi tutto proiezione della capacità economica e culturale di queste società in aree con le quali non si davano se non limitati rapporti economici e culturali.
Le trasformazioni politiche realizzatesi fuori dai confini d’Europa alla fine degli anni ’80 e nei primi ‘90, nel farsi potenti trasformazioni economiche, hanno modificato l’orizzonte all’interno del quale hanno operato tanto i singoli stati come gli attori economici originariamente collocati in questi stati, così da rendere d’un tratto obsoleta la decisione politica intesa – come da sempre viene intesa – come decisione proveniente dallo stato.
Se in passato il rapporto tra stato e soggetti economici era un rapporto retto dalla idea del primato della “politica” sui processi economici – nel che si incarnava l’essenza più profonda della costruzione, tutta europea, dello stato sociale – questo significava anche la fede nell’idea che i processi economici avrebbero potuto svolgersi proficuamente solo se organizzati e, in qualche misura, coordinati dallo stato. E’ una idea antica, questa, che affonda le sue radici negli sconvolgimenti delle società europee che si sono avuti tra l’inizio del secolo e la fine del secondo conflitto mondiale, da cui è venuto lo stato sociale e da cui, per intenderci, è venuta gran parte delle costituzioni economiche degli stati europei. Basti pensare, in Italia, agli artt. 41 e 43 cost. e alla ideologia in questi trasfusa. Ma un discorso non troppo diverso dovrebbe farsi per la Germania e per tutti gli altri stati che, come la Francia, non hanno voluto mettere in costituzione granché dei rapporti tra politica ed economia, pur costruendo, nei fatti, un sistema economico vigilato e protetto dalla decisione statale: creando, cioè, una sorta di costituzione economica non scritta, in cui è facile ritrovare i segni dell’idea, tipicamente europea e tipicamente novecentesca, per cui l’economia ha da svilupparsi all’interno di un contesto organizzato e protetto dallo stato.
Questa concezione dei rapporti tra politica ed economia, peraltro, era praticabile sulla base di un presupposto, tanto scontato da riuscire addirittura trasparente alla maggior parte di coloro che hanno riflettuto in passato su questi temi, ovverosia l’idea per cui la decisione politica, in quanto decisione dello stato, avrebbe avuto la forza necessaria ad imporsi agli attori economici i quali, in quanto soggetti privati non avrebbero potuto che essere soggetti alla decisione proveniente dallo stato. Muovendosi ed agendo nel territorio dello stato, insomma, i soggetti economici, proprio perché soggetti privati, non avrebbero potuto sottrarsi alle prescrizioni statali e al governo dell’economia che da queste prescrizioni risultava. I fatti hanno dimostrato come i processi economici, ed i loro attori, siano stati perfettamente in grado di sottrarsi alla “territorialità” del potere statale, dando vita ad organizzazioni e a strutture per le quali i confini degli stati – che sono anche i confini della decisione politica – sono poco più che semplici paraventi.
Emerge in questo modo il vero problema di fondo che sta alla base tanto della vicenda della costituzione europea quanto delle attuali vicende degli stati che si collocano all’interno della Unione/Comunità Europea, e cioè la difficoltà di leggere il rapporto tra politica ed economia secondo le forme tradizionali del diritto pubblico fondato sul principio della “territorialità” del potere sovrano. Di fronte a processi economici che si originano in un continente, proseguono in un altro e giungono a compimento in un altro ancora, lo stato europeo – che sia Francia, Italia o Germania – fondato sulla “territorialità” decide poco o nulla, ma è attraversato da flussi di merci e capitali che, per la loro capacità di collocarsi dove più conviene, usano la decisione politica territorialmente fondata come un elemento a loro favore. Si pensi, solo per un attimo, al problema delle differenze di imposizione fiscale tra un paese e l’altro d’Europa e si avrà una idea di come operi oggi la decisione politica territorialmente fondata: anziché essere un elemento di controllo o di incentivo all’economia essa diviene uno strumento attraverso il quale è possibile, nello scenario economico internazionale, ottenere vantaggi e facilitazioni.
È chiaro che questo discorso riguarda attori economici diversi da quelli per i quali la variazione della pressione fiscale risulta determinante: ma questi sono soggetti per i quali la decisione statale è ancora efficace ed adeguata, muovendosi l’orizzonte delle loro attività quasi esclusivamente all’interno del territorio dello stato.
Piuttosto, per quei soggetti che sono in grado di dislocarsi dove più convenga, la legislazione statale è solo un elemento da tenere in considerazione nella programmazione delle rispettive attività. E dalla diversità di legislazioni è possibile trarre vantaggi che altrimenti non sarebbero nemmeno pensabili.
Ciò che da studiosi come Massimo Luciani si è definito l’”antisovrano” – cioè quel complesso di poteri e di relazioni che neutralizzano la sovranità dello stato rendendone inutile, perché inefficace, la decisione – è in realtà una forma di potere “sociale” di tipo nuovo, che lo stato non è in grado di controllare, ma da cui è controllabile con relativa facilità. E forse conviene ricordare che il primo obiettivo del costituzionalismo che è scaturito dalla Rivoluzione Francese è stato proprio l’abbattimento del potere sociale. Generalità della legge, legalità dell’amministrazione, tutela uniforme delle libertà individuali e supremazia (sovranità) della persona giuridica statale – che sono poi i capisaldi del costituzionalismo europeo continentale – non sono stati altro se non i meccanismi elaborati dal pensiero giuridico europeo per perseguire l’uguaglianza dei soggetti privati, intesa come eliminazione del potere “sociale”. Che meccanismi del genere oggi siano visti come qualcosa di obsoleto o, comunque, di non adeguato alla realtà dei fatti dovrebbe farci capire che il potere sociale non è scomparso ma risorge continuamente e in forme sempre diverse: e questo spinge ad un adeguamento continuo delle strutture della decisione pubblica e, dunque, ad un continuo adeguamento delle strutture statali. Che questo adeguamento debba ad un certo punto coinvolgere la dimensione territoriale dell’azione statale non deve essere oggetto di meraviglia o di perplessità. È semplicemente successo che lo stato territoriale – che continua a funzionare per controllare determinati fenomeni – è via via divenuto inadeguato a realizzare quegli obiettivi di governo e controllo di strutture economiche complesse da cui dipende, in fondo, la qualità della vita dei singoli cittadini.
E, allora, che diritto costituzionale e diritto internazionale si sovrappongano e si confondano nella creazione di una costituzione europea non rappresenta altro se non l’estremo cambiamento dello stato e delle sue strutture decisionali a fronte dei mutamenti che questo è chiamato ad affrontare.
Per dirla con Carl Schmitt, non è la fine dello ius publicum europeum, ma il suo adattarsi a situazioni politiche differenti.
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Alla luce di tutto ciò, dobbiamo allora ritenere che i lavori prodotti dalla Convenzione siano stati un fallimento? Io ritengo di no, per il semplice fatto che il testo uscito dalla convenzione non è una costituzione nel senso che noi Europei continentali attribuiamo a questo concetto. E tuttavia se ci chiedessimo se in questo momento esiste una costituzione europea in quanto tale, io credo che dovremmo rispondere di sì. Il paradosso, del tutto evidente, deriva dal fatto che una costituzione europea esiste già, ma è una cosa completamente diversa da ciò che noi siamo abituati a concepire come costituzione. Questo perché, come detto prima, siamo abituati a pensare alla costituzione come ad un documento scritto, il quale crei una struttura politica che chiamiamo stato. Nell’orizzonte culturale all’interno del quale siamo abituati a muoverci costituzione e stato vanno di pari passo. Non c’è stato senza costituzione, così come non ha senso parlare di costituzione senza per ciò stesso rinviare alla nozione di stato. Così come non ha senso parlare di costituzione senza fare riferimento ad un documento scritto, il quale ponga le basi e, letteralmente “costituisca” lo stato. Questa è la nostra idea di costituzione, che proviene dalla tradizione legalistica della Rivoluzione Francese, si afferma in tutto il continente europeo nel corso del XIX secolo e, nonostante i formidabili cambiamenti del dopoguerra, costituisce ancora oggi l’ossatura della dottrine dello stato e della costituzione che stanno sullo sfondo del diritto costituzionale. Quindi, stando a questo paradigma concettuale, se ci chiedessimo se il testo approvato dalla Convezione debba essere inteso come una costituzione in senso proprio la risposta, come detto, non potrebbe essere che negativa. Di qui le perplessità esposte dagli stessi componenti della Convenzione circa il prodotto finale dei lavori. Dire all’opinione pubblica, come ha fatto qualche mese fa G. Amato in una delle tante interviste rilasciate sui lavori della Convenzione “volevamo una costituzione ed invece abbiamo per le mani un trattato” significa dire, in questa prospettiva, “non abbiamo conseguito gli obiettivi che ci eravamo proposti e per i quali abbiamo lavorato”.
Ora, che dietro all’idea di costituzione europea si celi un formidabile problema culturale relativo alla stessa nozione di costituzione e al rapporto di questa con lo stato è dimostrato dal fatto che nel testo uscito dalla Convenzione ogni singolo stato ha voluto trasporre qualcosa di irrinunciabile della propria costituzione positiva e della propria tradizione culturale. Dal Grundgesetz tedesco è stato usato l’impianto dei rapporti tra Bund e Laender per tratteggiare il rapporto tra singoli stati ed Unione; dalla tradizione amministrativa francese è stato mutuato il rapporto tra amministrazioni nazionali ed amministrazione comunitaria; dal costituzionalismo italiano (e in parte francese) si è ricavato il rapporto tra le fonti; al costituzionalismo nordamericano si è guardato, a dire il vero con invidia, per quanto riguarda le condizioni di entrata in vigore del testo. E ciononostante non abbiamo una costituzione, ma un trattato e, tecnicamente, un trattato multilaterale appena modificato nel suo funzionamento E’ singolare: e questa singolarità indica un problema, che è poi il problema del rapporto tra stato, costituzione e sovranità, che è restato irrisolto proprio perché la Convenzione non era in grado di risolverlo alla luce delle categorie giuridiche da cui muoveva.
Per contro, se andassimo a chiedere ad un giurista inglese non già se ciò che la Convenzione ha approvato sia una costituzione, ma semplicemente se l’Europa oggi, indipendentemente dall’esito dei lavori della Convenzione, “abbia” una costituzione la risposta non potrebbe essere che positiva. E nel fare ciò il giurista inglese non avrebbe bisogno di grandi riflessioni teoriche, ma potrebbe tranquillamente richiamarsi alla opinione dominante nei circoli scientifici del suo paese. E probabilmente non si stupirebbe nemmeno del nostro stupore, perché questo giurista sarebbe consapevole di muoversi all’interno di un sistema culturale completamente diverso da quello che vede nella costituzione l’atto fondativo di uno stato o, se si vuole, il prodotto di un “potere costituente” che crea lo stato.
Il che significa che, al di fuori della nostra tradizione culturale, o meglio, della tradizione culturale che si è diffusa in Europa continentale dal legalismo della Rivoluzione Francese, si può parlare di costituzione senza rinviare automaticamente ad un documento fondativo della sovranità e che regoli univocamente ed esaustivamente il comportamento dei “portatori” di questa sovranità. E ciò perché il costituzionalismo d’oltremanica, per la sua stessa vicenda di formazione, è assai meglio attrezzato a gestire transizioni politiche e costituzionali di questa natura sotto il segno del relativismo concettuale, orientandosi solo ai risultati e tendendo a nascondere le trasformazioni costituzionali, che nel continente hanno proceduto attraverso gli “strappi” delle “Assemblee costituenti” e delle “Convenzioni” sotto il velo di una continuità mai interrotta. Questo tipo di costituzionalismo non pretende di costruire lo stato come soggetto sovrano creato e perciò vincolato dal diritto scritto per arrivare alla tutela delle situazioni individuali. Storicamente si è preoccupato solo del risultato – la tutela delle libertà e l’efficienza delle strutture decisionali – senza avvertire il bisogno di costruire un edificio razionale che, proprio perché razionale, vantasse la pretesa di funzionare secondo un modello di razionalità meccanica.
La stessa struttura politica e giudica dell’Impero, che del costituzionalismo britannico ha probabilmente rappresentato il prodotto più complesso e raffinato, sarebbe risultata incomprensibile a menti allenate a ragionare in termini giuridico-formali. Non un giurista, ma un politico, come L. S. Amery, allora “Secretary of State for the Colonies”, scriveva nel 1927 che “in senso stretto non esiste un Impero coloniale e niente che possa dirsi una amministrazione coloniale. In questo ufficio io ho quotidianamente a che fare con trentasei diversi Governi, ciascuno indipendente dall’altro … L’intero sistema, con la sua complessità e la sua mancanza di coordinamento sulla base di una struttura comune non sarebbe, credo, tollerato per un solo momento dalle menti ben più logiche dei nostri vicini al di là della Manica” (cit. da Correlli Barnett, The collapse of British power – 1972), London 2002, p. 75). In altre parole, pur non avendo una unità giuridico formale, l’Impero Britannico esisteva come soggetto politico e come soggetto economico. Ed esisteva, ispirando un profondo senso di appartenenza a quanti si trovavano a farne parte, in un periodo storico a cui il modello dello Stato-Nazione non era affatto estraneo.
Se si riflette sulla sistemazione offerta a questi problemi dal pensiero giuridico britannico, si può anche capire perché in quel contesto le “Assemblee costituenti” o, secondo tradizione francese, le “Convenzioni” siano qualcosa di completamente sconosciuto o meglio, di conosciuto solo perché esistite oltremanica. Qui la costituzione non crea lo stato e il potere politico, ma si limita ad ordinare e regolare il funzionamento di un complesso di poteri politici che non avrebbe senso “fondare”, per il semplice fatto che questi poteri esistono già nella realtà politica e sociale: perché, in altre parole, esistono nei fatti. E solo un “logico” inconsulto pretenderebbe di rifondare questi poteri con un documento scritto.
Il problema qui semmai è un altro, e cioè quello di far funzionare armonicamente questi poteri anche in assenza di una struttura organizzativa comune e di presentarli all’esterno come una struttura unitaria. Non deve essere la struttura a pretendere di porsi come “unitaria”, ma deve piuttosto funzionare- ed essere percepita all’esterno – come “unitaria”.
Dal punto di vista pratico, oltre che teorico, questo è un passaggio fondamentale. Se si guarda al problema con questi occhi, forse si dovrà ammettere che l’Europa non sarà uno stato federale oggi; a giudicare dai lavori della Convenzione non lo sarà neppure domani; ma probabilmente si dovrà ammettere che l’Europa ha già una costituzione, nonostante l’Europa continentale lo neghi o finga di non accorgersene. In Inghilterra la costituzione non è un documento ma un sistema di rapporti sorto nel tempo tra soggetti politici che esistevano già all’interno del paese e che dal reciproco confronto hanno ricavato alcune regole. Non è neanche scritta: è solo una trama di rapporti, che si giustificano e si appoggiano formalmente ad alcuni testi che vanno dal Bill of Rights alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo. Nondimeno, il costituzionalismo ha radici molto solide in Inghilterra, se non altro perché lì ci si è sempre vantati, almeno negli ultimi tre secoli, di sapersi preoccupare molto più dei problemi e dei risultati che delle affermazioni di principio.
L’impressione, allora, è che, indipendentemente di risultati dell’ultima conferenza intergovernativa, non si possa negare che, a seguito, della elaborazione di un testo unico dei trattati, l’assetto politico e costituzionale dell’Unione sia mutato e non di poco. La conferenza di Laeken prima e i lavori della Convenzione poi, quale che sia la valutazione che se ne vuole dare, costituiscono elementi che condizioneranno fortemente l’assetto delle istituzioni comunitarie, anche in caso di mancata approvazione del documento nelle prossime CIG.
Se, spostando d’un tratto l’obiettivo, dovessimo trarre una lezione dalle vicende italiane più recenti, questa dovrebbe essere quella per cui, all’interno di sistemi politici ed economici fortemente interconnessi ed ispirati al modello del pluralismo politico – come è quello dell’Europa dell’oggi – l’età delle “Assemblee costituenti”, e cioè dei momenti “fondativi”che rompono definitivamente con il passato per creare un ordine politico e sociale radicalmente nuovo, sia definitivamente tramontata. Ed in suo luogo si sia affermata la fase delle trasformazioni lente e progressive degli impianti costituzionali, fatte di piccoli passi formali e di trasformazioni assai meno evidenti di quelle che hanno riempito il nostro passato, più e meno recente. Certo meno percepibili, ma non per questo meno profonde.
È più probabile quindi, che noi Europei avremo – e probabilmente abbiamo già – una costituzione di tipo britannico, almeno nel senso che si è appena detto. L’Europa è già regolata da trattati, tanti trattati che insieme possono andare a formare una costituzione. C’è solo bisogno di cambiare prospettiva nel concepire questi problemi.
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Detto questo in via generale, si può anche accettare che il testo uscito dalla Convenzione sia qualcosa di assolutamente eterogeneo, che non assomiglia neppure lentamente ad una costituzione nel senso tradizionale del termine. Francesco Cossiga, in prossimità della CIG di Roma, si è divertito a portare ad un dibattito televisivo la costituzione americana e il testo approvato dalla Convenzione mettendoli uno accanto all’altro. E francamente l’esito del confronto era impietoso: da un parte si aveva un libretto agile costruito come una tavola di principi generalissimi, provvisto di una capacità di espansione e di aggregazione ideologica forte di oltre due secoli; dall’altra si aveva un volume ponderoso composto di 450 articoli, diviso in quattro parti, tipico delle burocrazie comunitarie.
In quei 450 articoli non si trova una costituzione, ma si possono trovare degli articoli che possono funzionare come costituzione se supportati da una determinata azione politica. Esattamente come il Bill of Rights o la “Magna Charta”. In fondo, se presa per sé a cosa serve la “Carta dei diritti” uscita da Nizza? Non solo non è una costituzione ma non è neppure diritto vigente all’interno dell’ordinamento comunitario. Le costituzioni dell’Europa continentale sono, come detto, molto più raffinate tecnicamente e garantiscono un più alto livello di tutela agli stessi diritti che si sono voluti inserire nella “Carta dei diritti”. Eppure questa Carta serve ad almeno due cose. Serve a stabilire una tavola di valori comuni attorno ai quali creare – se possibile – un’aggregazione dal punto di vista culturale nella prospettiva di ciò che dovrebbe essere il “cittadino” europeo. E forse questo può spiegare perché le Corti costituzionali nazionali, quando applicano le rispettive costituzioni, si preoccupino sempre di motivare, appena possibile, anche in relazione ad un documento che non è diritto vigente nemmeno nell’ordinamento comunitario. E in secondo luogo, se a noi europei occidentali, garantiti da tradizioni democratiche ed istituzionali eccezionalmente salde, la “Carta dei diritti” serve a poco, serve probabilmente a molto in quei paesi che sono destinati ad entrare all’interno della UE e che provengono da storie e costituzionali molto diverse.
Da tutto questo emerge anche un altro elemento, ossia che il problema della Costituzione europea è anche – forse soprattutto – un enorme problema di mediazione culturale. Mediazione che sarà tra il modo di ragionare dei diritti di democrazia nostri e quello dei diritti di democrazia all’interno delle aree della nuova Europa.
E, in secondo luogo, un altro problema di mediazione si pone quando si tratta di confrontare il modo di funzionare degli stati europei continentali e il modo di funzionare di questa che dovrebbe essere la nuova “Federazione” europea. La lente attraverso la quale si guardano i problemi è fondamentale. A tutt’oggi non è possibile dire se il testo uscito dalla Convenzione sia un trattato o una costituzione. Ma questo – dovrebbe essere ormai chiaro – è dovuto al fatto che una costituzione di tipo classico, non solo non è voluta dalla maggior parte degli stati e dei popoli europei, ma probabilmente non servirebbe nemmeno agli obiettivi che si cerca di cogliere creando una “costituzione europea” che leghi assieme, secondo processi decisionali nuovi, gli stati europei. Che la costituzione europea non sia una costituzione è un dato di fatto: che questo sia anche un male è tutto da dimostrare.
E ciò perché, ragionando di questi temi con le categorie del diritto costituzionale o del diritto internazionale classico, e cioè con i frutti più alti dello ius publicum Europeum, maneggiamo elaborazioni concettuali costruite con riferimento a situazioni politiche e sociali ormai in larga parte trascorse. È un problema di lenti e prospettive, peraltro non del tutto nuovo. Tanto per intenderci, è come se cinquecento anni fa si fosse dovuto ragionare con le categorie scientifiche del pensiero politico medievale per cercare di capire e di descrivere ciò che si andava creando in Europa prima e dopo la pace di Westfalia. Era chiaro che non si potesse capire ciò che stava giungendo a formazione, così come non si capiva troppo bene ciò che volevano costruire Machiavelli, Bodin o Hobbes, quando, ragionando sui fatti, parlavano di stato in una accezione del tutto nuova rispetto alle categorie passate. Se ci pensiamo un attimo, ci rendiamo conto che questo è ciò che succede quando guardiamo alla costituzione europea usando la lente dello stato nazionale, sorto ai tempi della Rivoluzione Francese. Semplicemente non la vediamo perché usiamo la lente sbagliata.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.11.2003 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.