Filosofia e vita morale in Aristotele

Autori: Berti Enrico

L’Etica Nicomachea – così chiamata perché dedicata al figlio Nicomaco, o da lui edita – è la maggiore opera etica di Aristotele. L’etica, tuttavia, non è per Aristotele una disciplina autonoma, ma fa parte di quella che egli chiama “scienza politica”, cioè la scienza avente per oggetto il bene della città (polis), che per il filosofo greco contiene in sé il bene dell’individuo. L’Etica Nicomachea, comunque, tratta del bene dell’uomo e si propone non solo di descriverlo, ma anche di aiutare l’uomo a realizzarlo; perciò è una scienza, o filosofia (in Aristotele i due termini si equivalgono), “pratica”, cioè avente per fine non la pura conoscenza, come la filosofia “teoretica”, bensì l’azione (praxis). Avendo a che fare con ciò che è bene per l’uomo, ed essendo il bene umano in una certa misura variabile nelle diverse situazioni, la filosofia pratica segue un metodo meno rigoroso di quello della filosofia teoretica, cioè argomenta a partire da premesse valide non sempre, ma “per lo più”, e perviene a conclusioni dello stesso tipo. Essa inoltre, avendo a che fare con situazioni particolari che sono quelle in cui si svolgono le azioni, presuppone una certa esperienza della vita perciò è difficile da apprendersi per i giovani.

L’azione per Aristotele ha sempre un fine, il quale è per definizione un bene, ma non un bene costituito da un’opera (ergon), cioè da un oggetto prodotto, quale è invece il fine della produzione (poiesis) bensì un bene consistente in un’attività (energeia). Tra le attività, tuttavia alcune sono perseguite in vista di altre cioè sono mezzi in vista di fini diversi, mentre altre sono fini a se stesse, cioè sono fini veri e propri. È evidente che il bene supremo dell’uomo non sarà un mezzo in vista di altro, ma dovrà essere un fine in se stesso. Ora tutti ammettono secondo Aristotele che questo fine cioè il bene supremo dell’uomo, non può essere che la felicità (eudamnia). Il problema della filosofia pratica è dunque di stabilire in che cosa consiste la felicità.

Per risolvere questo problema Aristotele muove dall’osservazione che ogni tipo particolare di uomo ha una funzione che gli è propria, consistente nella realizzazione della sua particolare disposizione, o capacità: per esempio il flautista ha come sua funzione quella di suonare il flauto, lo scultore quella di scolpire statue, ecc., ed il bene di ciascuno consiste nell’eseguire tale funzione nel modo migliore. Di conseguenza anche l’uomo in quanto tale avrà una funzione sua propria, ed il suo bene, cioè la sua felicità, consisterà nello svolgere tale funzione nel modo migliore, cioè nel pervenire a quella che i Greci chiamavano “virtù” (aretè). Quest’ultimo non è un concetto soltanto morale, ma indica qualsiasi forma di eccellenza, ovvero di perfezione. Come c’è una virtù del flautista, che consiste nel saper suonare bene il flauto, così ci deve essere una virtù dell’uomo in quanto tale, che consiste nella disposizione migliore propria dell’uomo in generale, e la felicità, secondo Aristotele, consiste nella realizzazione di questa virtù.

Poiché l’uomo è unità di corpo e anima, e il principio di tutte le sue attività è l’anima, la virtù dell’uomo sarà la disposizione migliore del tipo di anima che è propria dell’uomo, cioè l’anima intellettiva, o razionale. Questa tuttavia, secondo Aristotele, non è solo ragione (logos, dianoia), ma comprende anche un’altra facoltà, cioè la capacità di desiderare, che tuttavia è in grado di obbedire alla ragione: quando essa viene formata attraverso l’abitudine ad agire in un certo modo, dà luogo al “carattere” (éthos). Perciò vi sono due tipi di virtù, le disposizioni migliori del carattere, dette virtù etiche, o morali, che si acquisiscono attraverso l’abitudine, e le disposizioni migliori della ragione, dette virtù dianoetiche, o intellettuali, che si acquisiscono attraverso l’insegnamento. Le virtù etiche in genere consistono, secondo Aristotele, nella disposizione a scegliere il giusto mezzo tra due vizi opposti, per esempio il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerarietà, la generosità è il giusto mezzo tra l’avarizia e la prodigalità, ecc. Quale sia il giusto mezzo, che può variare da individuo a individuo, è indicato in genere dalla ragione, ma la decisione di compiere le azioni ad esso conformi, cioè di deliberare i mezzi più idonei a raggiungere il fine voluto, è frutto di una scelta (prohairesis). L’uomo perciò è responsabile delle sue virtù e dei suoi eventuali vizi, che si acquisiscono mediante l’abitudine ad agire bene, cioè secondo le indicazioni della ragione, o male cioè contro tali indicazioni.

La più importante delle virtù etiche è per Aristotele la giustizia, che intesa in senso generale è il rispetto delle leggi della città, nelle quali si esprime la natura politica dell’uomo, e quindi è una sintesi di tutte le virtù: mentre, intesa come virtù particolare, è il rispetto di quel giusto mezzo tra l’eccesso e il difetto che è l’uguaglianza. Nella distribuzione dei beni pubblici (onori, cariche), la giustizia, detta “distributiva”, consiste nel rispetto dell’uguaglianza proporzionale, per cui i beni devono essere distribuiti secondo i meriti; invece nello scambio dei beni privati (proprietà, prestazioni) essa consiste nel correggere eventuali disuguaglianze (furti, offese, delitti in genere), e perciò è detta “correttiva”.

Anche la ragione è a sua volta divisa in due parti: l’una, detta “scientifica”, cioè teoretica, ha per oggetto le cose che non dipendono dall’uomo, cioè la natura e i suoi principi; l’altra, detta “calcolativa”, cioè pratica, ha per oggetto le cose che dipendono dall’uomo, cioè le azioni e le produzioni. Le disposizioni della prima sono la scienza (epistemé), capacità di dimostrare a partire da principi, e l’intelletto (nous), conoscenza dei princìpi delle dimostrazioni: l’unione di entrambe, cioè conoscenza dei principi e insieme delle conclusioni che ne derivano, è la “sapienza” (sophia), che perciò è la virtù della parte teoretica della ragione. Le disposizioni della ragione pratica sono invece la capacità di produrre opere nel modo più razionale, cioè 1`arte” (techné), e la capacità di deliberare le azioni più conformi alla ragione, cioè la “saggezza” (phronésis), o “prudenza”. Poiché, come abbiamo visto all’inizio, le produzioni hanno per fine i prodotti, mentre le azioni hanno per fine delle attività, la saggezza è migliore dell’arte e dunque è la virtù della parte pratica della ragione. Sapienza e saggezza sono dunque le due virtù dianoetiche indicate da Aristotele: la migliore delle due è tuttavia la sapienza, perché i suoi oggetti, cioè i principi da cui tutto dipende, sono ciò che di più alto esiste nella realtà. La saggezza è dunque la capacità di deliberare i mezzi più idonei, cioè le azioni da compiersi o da evitarsi, allo scopo di realizzare la sapienza.

Per fare il bene dunque, secondo Aristotele, è necessario anzitutto conoscerlo, come aveva già sostenuto Socrate, cioè è necessario conoscere il fine, che è la sapienza, ed è necessario conoscere i mezzi più idonei a realizzarlo, cioè possedere la saggezza. Tuttavia questa conoscenza non è sufficiente, come a torto credeva Socrate, perché per agire secondo saggezza bisogna avere formato il carattere secondo le virtù etiche, in particolare secondo la virtù della temperanza, che consiste nel saper dominare i propri desideri e dirigerli verso il fine buono. Ciò non significa rinunciare al piacere, verso il quale in genere tendono i desideri, perché il conseguimento del bene supremo, cioè della felicità. comporta sempre anche un piacere: il piacere tuttavia non è il bene supremo. perciò non deve essere ricercato come fine ultimo.

Il raggiungimento della felicità, a sua volta, richiede tutta una serie di condizioni, senza le quali esso non è possibile e che non dipendono tutte dall’uomo, ma dipendono in parte anche dagli altri e in parte persino dalla fortuna. Queste condizioni sono anzitutto la salute, poi una certa ricchezza (quella indispensabile per provvedere ai bisogni), un aspetto gradevole, un insieme di affetti, che vanno da quelli familiari (per la moglie, per i figli, per i parenti), a quelli per i propri concittadini, con i quali condividiamo l’impegno a realizzare il bene della città, a quelli per gli amici che più sentiamo simili a noi. Non si può essere felici, infatti, se si è colpiti da disgrazie familiari o se si vive in una città che non sia governata secondo giustizia. Soprattutto non si può essere felici se non si hanno degli amici, cioè delle persone care, con cui condividere le attività a cui si attribuisce maggior valore. Anzi, per Aristotele, l’amicizia non è solo è una condizione della felicità, ma è essa stessa una virtù, cioè una perfezione, specialmente quando è fondata non sulla ricerca del piacere, o dell’utilità, ma sulla comune ricerca del bene.

Tuttavia la felicità, pur richiedendo tutte le suddette condizioni, non consiste in modo particolare in nessuna di esse, ma è riposta nella realizzazione della disposizione più alta che vi è nell’uomo, cioè nella virtù suprema, che è la sapienza. L’uomo raggiunge il massimo della felicità, secondo Aristotele, quando può dedicarsi senza impedimenti ed insieme con le persone più care all’esercizio della sapienza, non per qualche momento, o per brevi periodi, ma possibilmente per l’intero arco della sua vita. La felicità dunque è un tipo di vita, la cosiddetta “vita teoretica”, che è

superiore a qualsiasi altra, compresa la vita politica, perché è fine a se stessa, è la più autosufficiente e la più simile al tipo di vita condotto dagli dèi. Per comprendere in modo concreto qual è questo tipo di vita, bisogna pensare a ciò che Aristotele ha cercato di realizzare nella sua stessa vita, prima nell’Accademia di Platone e poi nel suo Peripato ad Atene, cioè una vita dedita alla ricerca, allo studio, all’indagine della natura e dell’uomo, sino a giungere alla conoscenza delle cause prime da cui tutto dipende.

Questo tipo di vita è stato identificato dagli interpreti cristiani dell’Etica Nicomachea, specialmente Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri, con la cosiddetta “vita contemplativa”, che per un cristiano è perfettamente realizzabile solo dopo la morte, nella visione beatifica di Dio. Per questo motivo, oltre che per le altre virtù che essa propone, l’opera in questione ha goduto di una fortuna enorme nel tardo Medioevo, cioè dopo le sue prime traduzioni in latino (nella Commedia Dante si fa dire da Virgilio, come allusione ad essa, “la tua Etica”). Essa ha avuto tuttavia molta fortuna anche nel Rinascimento, perché la concezione della morale in essa contenuta è stata vista, oltre che come conciliabile con l’etica cristiana, anche come più “umana”, cioè più equilibrata. meno dualistica, meno ascetica di quella di Platone. Inoltre ha costituito la base dell’insegnamento dell’etica, ossia della filosofia morale, in tutte le università europee, sia cattoliche che protestanti, almeno sino a Hegel, che l’ ha apprezzata soprattutto per la sua identificazione del bene dell’individuo col bene della città, da lui interpretata come lo Stato.

La sua fortuna ha cominciato a declinare con l’affermarsi dell’etica di Kant, cioè nell’Ottocento, quando la concezione del bene proposta da Aristotele, in quanto fondata sulla felicità, è sembrata priva di valore morale. Ciò non ha impedito che essa continuasse ad essere studiata e apprezzata soprattutto nelle università inglesi, dove l’influenza dell’etica kantiana fu più contenuta. Ma nella seconda metà del Novecento, a causa dell’incapacità mostrata dalle scienze sociali a formulare giudizi di valore, e quindi a orientare la prassi, si è avuta prima in Germania, poi negli altri paesi europei e persino nell’America del nord, una vera e propria “riabilitazione della filosofia pratica”, che è stata in gran parte una rivalutazione dell’etica aristotelica e quindi dell’Etica Nicomachea. Alcuni tra i più importanti filosofi contemporanei hanno riproposto la filosofia pratica di Aristotele, in particolare la sua idea di saggezza, quale modello dell’ermeneutica filosofica, come è avvenuto con H. G. Gadamer, ho hanno riproposto come valida l’etica aristotelica delle virtù, come è avvenuto con A. MacIntyre.

NOTA: il testo rivisto dall’Autore,  è una sintesi della conferenza tenuta a Brescia il 19.2.2004 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.