Il tema di questo bel volume, bello anche fisicamente, è di quelli che attraversano necessariamente tutta una letteratura come la nostra, che per gran parte del suo percorso ha avuto due serbatoi sovrani: la mitologia pagana e il patrimonio sacro cristiano. Quasi tutto il suo immaginario per almeno cinque secoli è venuto di lì, dai poemi epici e tragici o dai due Testamenti: che ne sarebbe dello stesso ‘poema sacro’ di Dante senza Didone e senza Mirra, senza Capaneo e senza Minosse? Della mitologia non possono fare a meno neanche Purgatorio e Paradiso, essa vi s’infiltra di soppiatto: “Non altrimenti Achille si riscosse,| li occhi svegliati rivolgendo in giro | e non sappiendo là dove si fosse, | quando la madre da Chirone a Schiro | trafugò lui dormendo in le sue braccia…” (Purg. IX), o: “Que’ glorïosi che passaro al Colco | non s’ammiraron come voi farete, | quando Iason vider fatto bifolco” ecc. fin dal II canto del Paradiso.
[1] Testo rivisto dall’Autore.
Già gli enciclopedisti, incantati dal politeismo e pur con un atteggiamento cauto e alla vigilia della grande sovversione romantica, osservavano in particolare, per la prima, che la mitologia costituiva la branca più estesa degli studi letterari, indispensabile principalmente ai poeti ma anche ai pittori e ai giardinieri e alla stessa gente di mondo, che senza conoscerla non saprebbe conversare né intendere i motivi decoratori dei soffitti; essa è uno strumento indispensabile per decorare la natura e piacere alla fantasia, proprio perché sono favole, però fonti inesauribili di idee ingegnose, di immagini sorridenti, di soggetti interessanti; tutto si muove e respira in quel mondo incantato; invenzioni inconsistenti ma rese dall’uso e dalle creazioni letterarie vive e reali; un “corpo informe” ma “piacevole nei dettagli”.
I neoclassici condividono, come si sa, questo entusiasmo, anzi lo portano al parossismo e al sublime. Chi sfogli semplicemente l’apparato iconografico fondato su opere di Antonio Canova nel Carteggio Giordani-Canova nella recentissima edizione critica di Matteo Ceppi e Claudio Giambonini (Biblioteca Storica Piacentina) non trova che illustrazioni di miti ovidiani e no o allusioni all’arte greco-romana: medaglioni, gemme, stele, bassorilievi, statue con contemporanei raffigurati come imperatori, donne in lutto in Santa Croce di Firenze come sull’Acropoli di Atene, e poi le Muse, le Grazie, Ercole, Perseo, Pindaro, Socrate, Critone, Eros… miti e fatti grandi o graziosi, noti o anche meno noti (Achille e Briseide, Socrate nella battaglia di Potidea…) S’immaginava come Omero, ci si vestiva come Cleopatra.
Questo mondo solare, questo cinemascope letterario, viene sfasciato dopo secoli e secoli dal romanticismo di Chateaubriand. Il gran René scende in campo nel IV libro del Génie du christianisme con tutta la forza del suo stile, e chissà, della sua fede. Boileau aveva chiesto nell’Arte poetica come si potesse fare poesia facendo agire Dio, i santi o i diavoli, “scacciando i Tritoni dal loro regno aquoreo, | togliendo a Pan il flauto, alle Parche le forbici…”; Chateaubriand, con qualche difficoltà di tesi e di ragionamento, vi vede ora l’immeschinimento e la distruzione delle bellezze autentiche della natura; la mitologia la rimpicciolisce e ne elimina la verità; si può e deve ben credere che quegli antichi osservassero e godessero come noi della natura e avessero altrettante capacità che le nostre per dipingerla: ma ne furono impediti dalla mitologia, che affollò di persone e di rumori quel grande regno del silenzio e della solitudine. Chateaubriand prepara la strada a Leopardi:
In luogo del sole calante – scrive, – il cui lungo raggio rischiara una foresta o forma una tangente d’oro sull’arco mosso dei mari, gli antichi non vedevano ovunque che un’uniforme macchina teatrale. […] C’è nell’uomo un istinto che lo mette in rapporto con le scene della natura. Chi non ha trascorso ore intere seduto sulle sponde di un fiume, a vedere lo scorrere delle onde? Chi non ha goduto, in riva al mare, di guardare imbiancarsi lo scoglio lontano? Bisogna compiangere gli antichi, che non avevano scoperto nell’Oceano che il palazzo di Nettuno e la caverna di Proteo.
Certo una nuova mitologia si sostituisce con ciò all’antica: non è ‘mitologico’ Chateaubriand quando soggiunge: “Questa immensità fa nascere in noi un vago desiderio di lasciare la vita, per abbracciare la natura e confonderci col suo Autore”? quando addita e poi descrive l’Arabo di Palestina, l’Indiano d’America?
Questi passaggi popolano appunto questo terzo volume, dal Neoclassicismo al Decadentismo, di una serie di cinque, che partono dal Medioevo e dal Rinascimento e passando per il Barocco e l’Illuminismo e poi per qui giungeranno ai nostri Contemporanei e a un volume conclusivo di Questioni e Strumenti. Impresa di cui si trovano le prime tracce in due fascicoli di “Humanitas” dell’agosto ’96 e agosto ’99, l’uno prefigurante questo col mito nella letteratura italiana moderna (dal Settecento a D’Annunzio), l’altro anticipando gli autori novecenteschi quali Serra, Pirandello, Ungaretti, Cecchi, Gadda e fino a Sereni, a Calvino e Volponi. Se non vi è accennato Chateaubriand, è proprio per la ragione che indica Gibellini nell’introduzione: in Italia “si trascurò quel meraviglioso biblico o cristiano cui guardavano lui o Lamartine”.
Ma ripercorriamo con ordine il segmento qui tracciato. Proprio contemporaneamente all’Encyclopédie o a Voltaire, opera fra noi Parini. E tutto in lui, come sarà poco dopo in Foscolo, è avviluppato nel mito grande o, più, galante, strumento mirabile di elevazione e decorazione, elegante o ironica, di una materia frivola o di spettacoli miserandi; serbatoio inesauribile di metafore, di perifrasi, d’inserti deliziosi. Cosa sarebbero – ripetiamo a maggior ragione ancora che per Dante – non pur le odi, ma il Giorno pariniano senza Venere o Marte, senza la rustica Pale e le dive del brillante Olimpo? Può essere che Foscolo nelle odi lo imiti; ma come ancora chiarisce bene Gibellini nell’introduzione, “nelle più alte opere foscoliane, la mitologia non è più l’elegante belletto che la scrittura neoclassica stende sui casi contingenti. Il mito, e la poesia che lo perpetua, diventa l’unica medicina di un’angoscia vera, poiché offre una risposta al dramma della mortalità delle cose umane e all’ansia d’eternità”. Col che il Neoclassicismo è bell’e liquidato, e la mitologia dovrà fare i conti con i Leopardi e i Manzoni, per non dire di beffardi dialettali quali Grossi, Porta, Belli.
Dopo aver investito la tragedia (Alfieri e Foscolo), l’epica (Monti), la lirica (ancora Monti e Foscolo, qui intestatari di due capitoli per mano di Luca Frassineti e di Marina Salvini); dopo aver assistito tanti altri minori e minimi poeti di nozze o di conviti, di targhe e di descrizioni, questa gioconda solarità, questo ottimistico senso della perennità dei valori e della continuità della storia, vengono investiti dal torbido aquilone del Nord, quello che Parini nel Mattino chiamava “la Gotica caligine”. Gli scoscendono addosso il mito cristiano, l’età medievale, la storia tout-court, che non ammettono riusi insignificanti del passato ma impongono il rinnovamento e la drammaticità del presente stesso. Brutt’affare, diranno i classicisti, brutto per quest’altro mondo angosciante e strampalato, e teoreticamente ancora un modello sostituito a un altro; ma tant’è. Far poi della verità in luogo della fantasia, come invece voleva Manzoni, l’ispirazione dell’arte e della lingua letteraria, è per loro un controsenso che porta in un vicolo cieco.
Ma prima ancora che questo aspro scontro si esaurisca, a metà secolo comincia la reazione carducciana, proprio in nome della storia e del valore del classico, se non proprio del suo mito, almeno fuori dalle Odi barbare. Il classicismo carducciano sarà soprattutto quello della bellezza ellenica e della storia romana, intrecciati o evocati, gioiosi e robusti, contro la deformazione, il molliccio e il luttuoso barbarici, il tenerume “degni invero di un popolo di eunuchi”: l’intero paganesimo contro la cristianità. Osserva Marina Salvini, parlandone, che non casualmente “quello carducciano è un Olimpo tutto al maschile dal momento che forza, coraggio ed eroismo sono fra i valori maglgiormente celebrati dal poeta”.
E insieme o sùbito dopo il Pascoli e la “luce crepuscolare” che (nel saggio di Raffaella Bertazzoli) egli stende sul mito: quelle ‘favole degli antichi’ di buona memoria leopardiana ormai sono assediate e sopraffatte non solo o non tanto da una letteratura moderna ma dal ragionamento dell’uomo moderno, da una crisi dell’intera civiltà.
Come crederà sdegnato D’Annunzio, col suo entusiasmo menadico. “I nostri miti del Mediterraneo c’insegnano tutto, ci ammaestrano sempre” osò dire il Poeta immaginifico in una ‘favilla del maglio’. Ancora via le tenebre gotiche, e luce e luce e colori e sapori, fremiti e slanci; il mito torna a conquistare col Pescarese la sua forza, la bellezza, la sensualità, anzi caricandosi di infiltrazioni di ipersensibilità moderne, di morbosità inedite; ancora il mito richiede persino, come già in Carducci, anche la sua metrica, quella sonora e scandita; gli è proprio e necessario, almeno in questa sua riviviscenza, il vocabolo prezioso; e per tutto ciò vuole l’Ellade più che Roma, la sua stagione giovanile, il nudo atletico, l’ebbrezza pura, la libertà morale, l’agilità incosciente e non il suo passo greve: “luogo-tempo – come qui scrive Sabino Caronia nel suo saggio – in cui l’uomo conobbe la gioia”. Non c’è di meglio per sconfiggere la mortificazione fisica, psichica ed estetica del cristianesimo romantico, o del romanticismo cristiano, altroché il sole calante o i santi del deserto. Per sconfiggere Pascoli.
A quest’ultimo è dedicato il saggio di Raffaella Bertazzoli “Giovanni Pascoli. Il mito e il suo crepuscolo”, che sùbito fissa nella giovinezza universitaria bolognese la dialettica poi sempre usuale nel poeta fra evocazione di un passato mitico ed ermeneutica del presente. Antichità e mito assunti implorantemente quale spiegazione “di questo mondo che non capisco” (d’Annunzio non ne aveva bisogno, e quei due mondi per lui erano uno solo). Scrive Pascoli in alcune pagine giovanili, fine anni Settanta: “Torce di antichi re – illuminatemi, spada di Orlando aprimi il cammino…”; e rifacendosi e rovesciando l’antico detto plutarcheo condiviso da Pascal: “Il passato è morto; e sepolto: dorme etc. ma ogni notte corre una voce. Pan rinasce” (per D’Annunzio in apertura delle Laudi “Il gran Pan – non solo contro Plutarco ma anche contro Nietzsche – non è morto”). Per cui, ci spiega la Bertazzoli, “esemplare di molta poesia pascoliana sarà la tensione a recuperare, su una traccia già carducciana, la voce del lontano, del mondo defunto, ancorandolo al presente”; e così la sua poesia, soprattutto la conviviale, “si qualificherà come fondamentale per una rilettura del mito classico, alla luce della sensibilità culturale di fine secolo”. Esempio massimo, Ulisse nel suo Ultimo viaggio: dove il poeta fa ripercorrere dall’eroe vecchio il fortunoso fortunato viaggio giovanile ma per portarlo, qui, alla morte senza averne nemmeno raggiunto lo scopo, ossia di sapere dalle Sirene, quel Nessuno, chi sia, chi era, poiché tra i due scogli gli si spezza la nave ed a Calipso egli giunge ora defunto.
In fondo, è questa la suprema operazione culturale del mito, classico e no, nella cultura moderna; e di ogni forma del passato nelle culture successive. Le forme che assume e provoca sono a volte di presenza corroborante, a volte di desolata nostalgia, ed entrambe s’incontrano a volta a volta in questo volume, che inizia con Monti e Leopardi e finisce con D’Annunzio e Pascoli, e ha al centro Alessandro Manzoni, analizzato da Giacomo Prandolini.
Manzoni quindicenne paga inevitabilmente il suo tributo nel Trionfo della libertà: “Coronata di rose e di viole | Scendea di Giano a rinserrar le porte…”: ma, come un presentimento, il ricorso all’Olimpo è parco; e tutto sommato, appetto ai contemporanei si può ben dire che si mantiene tale anche nei successivi l’Adda o in morte dell’Imbonati e fino a quello – Urania e Parteneide – che Prandolini chiama “il congedo dal mito”. Come si sa, quella di Manzoni sarà una reazione sdegnata e sdegnosa di ispirazione non tanto estetica quanto e assai più etica: è ora di fare finalmente della verità e non della fantasia l’ispirazione dell’arte e della lingua letteraria: che è un discorso affine per dignità ma a rovescio di quello carducciano, che affidò proprio alla classicità mitica e storica la rigenerazione dei moderni. Più che l’abbandono totale, che in effetti non c’è, come ci fa osservare ancora Prandolini, delle figure ed episodi mitologici, Manzoni li introdurrà anche nel romanzo ma per rincarare la dose, per fargli fare brutta figura, ironizzando o irridendo favole sciocche, inutili e personaggi inverosimili: siano i corrotti amministratori spagnoli paragonati nell’Introduzione “a tanti Heroi che con occhij di Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando”, o sia l’oste della Luna piena che osserva Renzo addormentato simile a Psiche mentre “sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto”: gli Eroi in Tangentopoli e Psiche in un’osteria sono il colmo dello sprofondamento, come è il colmo della squalifica di Scilla e Cariddi il citarle nelle aporie dei discorsi di don Ferrante.
La lucidità, e la fede cristiana, di Manzoni anticipa straordinariamente i tempi, sente e fa operazioni che gli altri non si sono nemmeno sognati, anche quando qualche aiuto poteva venir loro dallo storicismo o dal positivismo, dalla storia e dalla politica che portavano alla ribalta nuove generazioni, nuovi tipi di civiltà, nuovi bisogni e interessi spirituali, nuove assenze o nuove fonti di cultura. Se poeti come Pascoli vi dànno certamente spazio, altri, come D’Annunzio, rimangono molto sordi: D’Annunzio è ‘classico’ e ‘mitologico’ anche quando lascia da parte classicità e mitologia, anche quando fa il pastore e il francescano: come osserva Gibellini, anche La figlia di Iorio, ambientata sì fuori dalla Grecia, vive in un Abruzzo atemporale e di un conflitto tra padre e figlio che ricorda Laio ed Edipo, Teseo e Ippolito.
A fine lettura viene da concludere ancora una volta, forse un po’ rozzamente, che il romanticismo a casa nostra ha attecchito assai meno che in Francia o Germania, urtando contro la conservazione del classicismo in casa propria, nocciolo duro a cedere. Nelle discussioni anche accanite, qui illustrate da Donatella Fedele, e nella prassi, sono da porre in prima fila i poeti dialettali, cui già si è accennato, con la loro opera dissacrante; poeti di luoghi, ambienti, persone, culture e mentalità concrete, realistiche, istintive, incolte: il Porta soprattutto, e in sue forme particolari il Belli, illustrati ancora dal Gibellini quali “smitizzatori” nei loro personaggi, nei paesaggi cittadini e nella loro lingua, che attinge al popolo. Si potrebbero ben citare le parodie specie del primo, appioppate a quella che egli riteneva un inerte esercizio di contro all’evoluzione continua del tempo e all’urgere dei problemi e delle passioni.
L’Italia insomma non ha avuto i suoi Chateaubriand né i suoi Balzac; e forse ha sofferto della debolezza, in lei, di quello che Hugo definiva “il liberalismo in letteratura”. Si vede bene da cosa appunto ha potuto fare il ‘liberale’ Manzoni.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.11.2004 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.