Nella condizione della finitezza temporale, attraverso le forme dell’azione e del linguaggio (azione linguistica e linguaggio dell’azione), la scienza nuova indaga le costanti dell’esperienza storica. A questo sguardo la storia umana si mostra come un grande evento ermeneutico ed etico. Più precisamente, il significato etico della “critica” vichiana passa attraverso la sua lettura ermeneutica dell’esperienza (che in tal modo diventa) storica. L’eticità, infatti, è intrinseca all’accadere del mondo, alla “humanitas” in quanto prodotto dell’interpretazione poetica dell’esperienza. Così come, viceversa, l’eticità regredisce e la barbarie ritorna, là dove svanisce l’esperienza come interpretazione poietica del mondo.
Ermeneutica ed evento
E’ necessario anzitutto, giustificare l’attribuzione a Vico della prospettiva ermeneutica[2]. Non è infatti consueto considerare Vico come uno degli autori moderni del pensiero ermeneutico. Mentre ritengo che, nonostante Vico manchi di una tematizzazione della dottrina ermeneutica, il suo pensiero costituisca in actu exercito un caso di grande rilevanza nella formazione dell’ermeneutica come dottrina generale del sapere. La vichiana “scienza nuova”, infatti, integrando la metodologia filologica umanistica con un certo platonismo della “mente”, si costituisce in un’ermeneutica dell’evento: gli accadimenti linguistici, testimoniati dalla tradizione erudita della “filologia”, diventano eventi in quanto interpretati secondo il criterio di senso fornito dalla “mente” e dalle sue “modificazioni”.
Non casualmente la ricongiunzione di “filosofia” e “filologia” costituisce, come è noto, il principio metodologico programmatico della “scienza nuova”. Anzi, la novità di tale “scienza” sta appunto nel superamento di quella separazione, ritenuta origine dei fraintendimenti interpretativi dei dati storici e supporto di concezioni filosofiche errate. La verità del sapere storico (ma ogni sapere umano è storico) dipende dalla fedeltà ad una figura epistemologica che tenga in unità il “certo” empirico e il “vero” metafisico. Si pensi alle ripetute polemiche vichiane contro coloro che con le loro scelte teoriche hanno impedito la formulazione di un sapere adeguato dell’accadere storico. Da una parte, i «filologi» eruditi che non avendo criteri teorici sufficienti sull’«origine delle lingue» e sul «principio della propagazione delle nazioni»[3], non hanno saputo vedere gli stessi «fatti»; dall’altra, i filosofi sociali come Grozio, Hobbes, Pufendorf – ma anche gli Epicuro, i Machiavelli, gli Spinoza e i Bayle, di cui si dice già nel Diritto universale – che non hanno saputo vedere le «ragioni», cioè non hanno saputo cogliere l’intrascendibile rapporto della mente al vero.
Al contrario, solo l’unità metodologica di filologia e filosofia permette una corretta interpretazione della storia. L’intento è ampiamente ribadito dal Vico, che concepisce un
«sistema, in cui accordasse la miglior filosofia, qual è la platonica subordinata alla cristiana religione, con una filologia che portasse necessità di scienza in entrambe le sue parti, che sono le due storie, una delle lingue, l’altra delle cose; e dalla storia delle cose si accertasse quella delle lingue, di tal condotta che sì fatto sistema componesse amichevolmente e le massime de’ sapienti dell’accademie e le pratiche de’ sapienti delle repubbliche»[4].
Il programma vichiano consiste così in un piano di ricomposizione teorica dell’unità dell’azione (fattuale e linguistica) e del sapere (spontaneo e critico) che la sorregge. Si tratta anzitutto di ridare consistenza all’endiadi umanistica delle “res” e dei “verba”, cioè di ristabilire l’implicazione di accadimenti e di linguaggio e, quindi, di restituire intelligibilità ai fatti linguistici e ai linguaggi dei fatti attraverso quel logos della mente che unicamente dota i fatti di senso e li rende eventi.
Questa operazione, però, non consiste solo in una composizione per così dire matematica di fatti e di senso o, nella terminologia di Vico, di certezza e di verità, bensì si realizza come circolarità virtuosa, cioè produttiva di nuovo sapere. Certezza e verità hanno infatti fonti diverse, che ottengono significato compiuto solo entro il loro reciproco rapporto. Ed è precisamente a questo livello che si istituisce la relazione ermeneutica: la verità del “vero metafisico” è interpretativo del significato teorico-pratico del certo fattuale, mentre questo a sua volta interpreta, in ordine all’ambito della finitezza umana, il significato del vero. Così, ciò che attiene ai «placita humani arbitrii», al «sermonis studium» e ancora alla «cura quae circa verba versatur eorumque tradit historia» e all’«autorità dell’umano arbitrio, onde viene la coscienza del certo» e ciò che, sull’altro versante, riguarda i «necessaria naturae», la «ratio aeterna» e la «ragione, onde viene la scienza del vero»[5] sono fonti di sapere diverse che si rapportano in termini di reciproca interpretazione ovvero di circolarità ermeneutica. L’«accertare» le ragioni dei filosofi con l’«autorità» dei filologi e «avverare» l’autorità di questi con la ragione dei filosofi[6] significa infatti compiere una duplice operazione ermeneutica, con la quale è còlta e manifestata l’appartenenza di logos e accadimento.
Per questo non è possibile una comprensione delle forme storiche senza il duplice e rinviante riferimento al vero e al certo. I «fondamenti del vero», afferma Vico, servono per «meditare questo mondo delle nazioni nella sua idea eterna», così come «i fondamenti del certo» per «vedere in fatti questo mondo delle nazioni quali li abbiamo meditato in idea»[7]. Perciò la “scienza nuova” pretende d’essere insieme «istoria e filosofia dell’umanità», cioè sapere del divenire e nella natura della “humanitas”, in quanto accadere dell’umano nei suoi eventi.
“Questa scienza – afferma la Scienza nuova prima – debbe portare ad un fiato e la filosofia e la storia de’ costumi umani […] in guisa che la prima parte ne spieghi la concatenata serie di ragioni, la seconda ne narri un perpetuo o sia non interrotto seguito di fatti dell’umanità in conformità di esse ragioni – come le cagioni producono a sé somiglianti effetti; e, per cotal via, si ritruovino le certe origini e i non interrotti progressi di tutto l’universo delle nazioni”.
E’ di alto significato epistemologico che la figura teorica sintetica cui giunge la scienza nuova sia una «sorta di giurisprudenza», che è «la giurisprudenza del genere umano»[8], essendo questa figura ermeneutica per eccellenza, in cui stanno in reciproco rapporto di interpretazione il “giusto” eterno e le concrete circostanze di fatto.
Ma – bisogna ora chiedersi – donde viene la pretesa capacità di lettura della storia da parte della “scienza nuova”? In altri termini, che cosa rende possibile la verità ermeneutica perseguita dalla “scienza nuova”? Il fatto – si deve rispondere – che essa non fa che riprodurre, nella misura possibile alla mente analitica dell’”età degli uomini”, l’atto interpretativo originario con cui è stato fondato il mondo, cioè l’originaria ermeneutica con cui è stata inaugurata l’ “humanitas”. All’origine sta una “sapienza” che ha trasformato il caos postparadisiaco in un mondo umano, fragile ma sorretto da un “ordine” teologico-poetico-giuridico, che costituisce la struttura metastorica (provvidenziale) della storia della nazioni. La “scienza nuova”, dunque, viene a sapere riflessivamente ciò che la sapienza spontanea delle nazioni ha già sempre fatto, ripete cioè metodicamente l’ermeneutica originaria e fondatrice del mondo umano.
Lo statuto epistemologico del discorso vichiano è così costituito dall’articolazione di un duplice piano ermeneutico, quello della “sapienza volgare” delle origini mitico-poetiche e quella riflessa della “scienza nuova” (che è la forma della “sapienza riposta” restituita alla sua unità autentica). Ora, non solo– come si è visto – ognuno dei due livelli è strutturato al suo interno ermeneuticamente, ma anche tra loro stanno in rapporto interpretativo. D’altra parte, il ritmo di spontaneità e di riflessione attraversa tutta l’opera vichiana (già a partire dalla distinzione di “topica” e di ”critica” del De ratione) secondo un ritmo che è denso di significato teorico, perché dà luogo ad un reciproco primato dei due regimi di esercizio della ragione. Il primato della spontaneità, infatti, dipende dall’originarietà instauratrice della sua ermeneutica. Il senso dell’accadere è qui esercitato e tramandato prima d’ogni suo ordinamento logico riflesso, cioè come già sempre dato e sempre precedente la sua comprensione critica. La superiorità della riflessione sta invece nell’essere manifestazione della verità del senso, cioè comprensione saputa dell’”ordine” del senso nella sua genesi e nella sua struttura, nel suo accadere spontaneo e nel suo ricorrere necessario.
Per questo tra spontaneità e riflessione si dà circolarità, al modo di un autentico circolo di precomprensione e comprensione: la “sapienza volgare” costituisce la precomprensione necessaria per intendere correttamente quella “riposta”, mentre questa, a sua volta, è indispensabile nell’”età degli uomini”, età della riflessione, per comprendere la struttura dell’ermeneutica fondativa di mondo. Di conseguenza, la riuscita dell’impresa ermeneutica nel suo complesso (cioè la “scienza nuova”) dipende secondo Vico dall’instaurazione corretta del circolo della comprensione tra le due forme della sapienza; diversamente dalle ermeneutiche devianti della “boria delle nazioni” e della “boria dei dotti”, contro cui Vico combatte costantemente, appunto perché in modi opposti e simmetrici spezzano comunque la circolazione delle forme ermeneutiche[9].
Un’ultima considerazione da fare a riguardo dello statuto ermeneutico della “scienza nuova” ha rilevanza anche in ordine alla dimensione etica di quest’ultima. Se all’origine sta un atto ermeneutico, allora il mondo è opera dell’uomo e l’universo delle nazioni procede veramente dalle “modificazioni” della mente umana, come dice Vico con terminologia malebranchiana. Ma se tale ermeneutica originaria ha il carattere della spontaneità, allora – come già si accennava – la sua comprensione critica non potrà mai adeguarne il senso, che mostrerà piuttosto una radicalità sottratta alla disposizione della riflessione e della stessa libertà. L’origine è necessariamente ermeneutica e il senso è come una luce che domina il soggetto che appare insieme al suo mondo; così come venendo dall’alto si riflette sul petto della donna della “dipintura” e si spande necessariamente sul mondo degli uomini[10].
Ermeneutica come ‘fare il vero’
Il cuore dell’indagine vichiana è, di conseguenza, la ricerca della struttura dell’ermeneutica primordiale fondativa. Lo strumento euristico che il Vico della Scienza nuova ha a disposizione è la dottrina del “verum ipsum factum”. Nata per far fronte al problema epistemologico del vero nel contesto delle diverse scienze, arti e pratiche, il “verum factum” assume con la Scienza nuova il compito di delineare lo statuto epistemologico del nuovo sapere storico-ermeneutico.
Questo passaggio pone naturalmente il problema, tante volte agitato dalla letteratura critica vichiana, della continuità o della discontinuità della dottrina del “verum factum” lungo l’opera vichiana. Ma la tesi della continuità sembra non solo più plausibile, bensì meglio fondata, dal momento che fin dalla sua origine la dottrina ha una valenza ermeneutica, anche se riconosciuta e praticata come tale solo nell’opera maggiore. Naturalmente tutto dipende dall’interpretazione che si dà dello statuto epistemologico originario dello stesso “verum factum”. Se questo si appiattisse nella teoria (di tipo hobbesiano) della sola produttività antropologica della verità o nella riduzione (sofistica) della misura del vero all’umano operare, allora si potrebbe ancora conservare una certa ermeneuticità del “verum factum”, ma non si renderebbe per nulla conto dell’intenzione vichiana. Questa non consiste infatti nella proposta di un operazionismo soggettivistico, ma in quella di una prassi sorretta preterintenzionalmente (in questo senso, oggettivamente o secondo necessità) da una Provvidenza che, precisamente attraverso l’ermeneutica umana, fornisce i fondamenti metasoggettivi (“naturali”) della condotta etico-politica, il “diritto naturale delle genti”. Se così non fosse, non si spiegherebbe la ripetuta e rilevante polemica contro gli autori moderni del diritto naturale (contro Hobbes, Pufendorf, Selden e infine anche contro Grozio), accusati di non aver tenuto in conto la “Provvedenza” nell’impianto delle loro costruzioni teoriche[11] .
Qual è dunque lo statuto epistemologico del “verum factum”? È da confermare, a mio avviso[12], l’idea che la dottrina del “verum factum”, quale si configura nel suo testo capitale il De antiquissima, non intende privilegiare il sapere matematico a scapito degli altri saperi, bensì, a partire dal caso del sapere a priori che è la matematica, definisce la modalità compositiva del vero, propria del sapere umano in quanto “cogitare” finito, sempre solo partecipativo dell’infinito “intelligere” di Dio.
Infatti il criterio del “vero fatto” non vale solo per la matematica, ma sta a capo di un’intera architettura epistemologica dei saperi. Certamente nel De antiquissima il paradigma del “verum factum” è offerto dalla matematica, in cui l’”uno” aritmetico e il “punto” geometrico costituiscono le due idee a partire dalle quali è possibile la costruzione dall’interno dei due saperi matematici. Ma bisogna subito notare che questo è appunto solo il paradigma offerto da un caso privilegiato, quello del sapere della matematica in quanto sapere apriori, che però si applica analogicamente anche nell’ambito dei saperi aposteriori. Infatti, anche per scienze come la meccanica, la fisica o la morale, vale che «veri criterium ac regulam ipsum esse fecisse»[13], anche se non più nella modalità dello svolgimento delle implicazioni aritmetiche e geometriche dell’uno e del punto, ma in quella dell’operare sperimentale che non possiede già l’”idea” o la “forma” del vero, ma ne va alla ricerca induttivamente. Su un gradino più basso, anche le arti «quae imitatione constant», come la pittura, la scultura, la poesia, procedono facendo il vero, trovano cioè un’idea capace di molte riproduzioni. Infine, a livello del grado minimo di certezza, presentano uno statuto analogo anche le «artes coniecturales», come l’oratoria, la politica e la medicina[14].
Qual è dunque la struttura epistemologica comune tra questi diversi gradi del sapere? Ciò che è definitorio non è il procedimento deduttivo o induttivo (che determina solo il grado di certezza veritativa del sapere), ma il fatto che comunque ogni sapere è conoscenza di un vero ideale, di una struttura eidetica di cui essa è – secondo diversi procedimenti – un dispiegamento analitico ovvero una composizione manifestativa. In ogni caso il “verum” è “factum”, è portato cioè a manifestazione attraverso il lavoro della mente (più precisamente dell’”ingenium”), così che ogni forma ideale riceve dal sapere ad essa relativo una sua esplicazione (si potrebbe dire in termini cusaniani), che ne dispiega parzialmente in un sapere finito, e storicamente determinato, l’infinita ineguagliabile perfezione. In questa direzione è riletta la tradizionale definizione della “scienza” come «scire per causas», che viene tradotta in quella secondo cui «scire est tenere genus seu formam, quo res fiat»[15]: la conoscenza è sapere del modo in cui il genere metafisico costituisce il principio del costituirsi di una determinata realtà.
In questo modo risulta con chiarezza la valenza intrinsecamente ermeneutica del “verum factum”. Le forme ideali, infatti, sono «perfectione infinitae» e perciò sono in se stesse fonte di inesauribile partecipazione e di illimitata esplicazione[16]. In tal senso il “facere” è quel (ri)produrre in misura finita il vero che può ben essere chiamato lettura ermeneutica, in quanto interpretazione del vero ideale, del suo significato entro determinate condizioni dell’umano sapere. Ogni sapere, infatti, o parte dal possesso di una forma ideale (come nel caso della matematica) e ne va cercando le implicazioni analitiche oppure parte dalla conoscenza di dati (anzitutto sensibili-immaginativi) e ne va cercando la struttura eidetica. In ogni caso si costituisce attraverso un processo di interpretazione del vero ideale e in questo senso “fa” il vero che conosce.
In definitiva, ogni sapere fa riferimento a una forma ideale che, come l’anima ficiniana, è un Giano bifronte volto insieme all’eterno metafisico, in cui si fonda, e al temporale empirico, in cui si manifesta. In tal modo ogni forma di sapere unifica in sé, in vario grado, la luce metafisica del vero e la molteplicità finita dei suoi dati logici o empirici e mentre instaura la partecipazione del certo al vero, inserisce in varia misura la necessità di questo nella contingenza di quello. Di qui viene l’idea vichiana che siano possibili legalità universali anche nell’ambito dei saperi del contingente, come nel caso dell’oratoria o della politica (e come sarà in quello della vita delle nazioni).
L’operare veritativo dell’uomo conferma perciò la duplice condizione della mente umana, da un lato aperta alla libera avventura della formulazione dei suoi saperi e dall’altro vincolata dal suo radicamento nel vero indisponibile; per un verso in possesso dei procedimenti del suo sapere, per un altro sempre trascesa dall’eccedenza veritativa in cui questo è fondato. Il “verum factum” è così la cifra della disequazione o differenza veritativa in cui è posta la mente umana e lo statuto epistemologico di ciò che Vico della maturità chiamerà la “metafisica della mente” umana.
Ermeneutica come logica poetica
La “scienza nuova” prende forma a partire dalla rilettura vichiana del “verum factum” in chiave di antropologia linguistica. Lo dice lo stesso Vico, quando afferma che la dottrina dei «caratteri poetici» è «la chiave maestra di questa Scienza», per cui è dai «generi fantastici» quali «princìpi» che «tutti i filosofi e tutti i filologi dovevan incominciar a trattare dell’origini delle lingue e delle lettere»[17]. Non bisogna sottovalutare il valore indicativo della terminologia impiegata da Vico, che non casualmente usa l’espressione “genere fantastico”, che aggiunge l’aggettivo al sostantivo che già nel De antiquissima stava a indicare, in quanto “genus”, l’idea o la “forma” ideale delle cose, come s’è visto; mentre il “fantastico” costituisce il prodotto della funzione poetica dell’ingegno, che rende manifesta una certa forma veritativa. La “scienza nuova” da questo basilare punto di vista appare dunque come lo studio di tutte le implicazioni gnoseologiche, antropologiche ed istituzionali del processo produttivo del “genere fantastico”, cioè del “facere” reinterpretato come produzione poetica di un “verum” metafisico-antropologico.
L’organo della costruzione poetica è l’”ingegno”, che opera secondo la logica della verosimiglianza. Il lavoro dell’ingegno è infatti di tipo compositivo attraverso l’unificazione dei diversi e dei lontani in forza dei loro elementi di somiglianza. «Ingenium – scrive Vico nel De antiquissima – facultas est in unum dissita, diversa coniungendi», attraverso la capacità che ha l’uomo «contemplandi ac faciendi similia»[18]. In tal modo Vico ripensa la poetica del verosimile di tradizione aristotelica, innestandola su una concezione metafisica di tipo platonico. Il verosimile poetico per Vico non è ciò che è simile al vero speculativo e dunque in una condizione di derivazione e di insufficienza (come nella poetica, ad esempio, di un Castelvetro, non casualmente costante oggetto polemico della critica vichiana), ma è piuttosto l’apparire del vero entro e attraverso i rapporti di somiglianza. L’ingegno costruisce per via di somiglianza figure di senso in cui risplende un “genere” o “forma” ideale, che fornisce valore universale alle figure della produzione poetica. Per questo l’universale fantastico ha sempre il valore del “ritratto ideale”, cioè il valore di figura archetipica (di dio o di eroe), che funziona da causa esemplare di molte realtà simili. In quanto dotato di senso metempirico il genere fantastico funge infatti da paradigma di senso per tutte le esperienze empiriche congeneri e da norma per tutte le azioni umane affini. Inoltre, in quanto principio di unificazione di senso dell’accadere (eventi e azioni), è germe della loro narrazione secondo la verità ideale della loro figura archetipica e nucleo di quella “vera narratio” che è il mito.
Si può compredere ora in modo più compiuto la struttura ermeneutica del “verum factum” poetico. Esso significa, infatti, che il vero non è colto originalmente dalla mente umana se non tramite il suo costrutto immaginativo e la sua narrativa, nella figura del dio e dell’eroe, nel racconto del loro mito e nell’esecuzione del loro rito. Il “vero ideale” appare solo “in idea”, cioè nella figurazione mitologica che interpreta il senso dell’esperienza e che sollecita sempre rinnovate interpretazioni.
Per questo la logica poetica vichiana coincide in definitiva con un’ermeneutica dell’esperienza attraverso la figurazione di archetipi che costituiscono norme di senso e di azione.
Se dunque il verosimile è il modo in cui si dà il vero, il suo linguaggio sarà il modo dell’apparire del vero. Si comprende perché in Vico il linguaggio poetico-fantastico non sia linguaggio derivato o figurato, ma primordiale e primario. Per Vico, come sarà in Heidegger, il linguaggio poetico è il linguaggio originario (Sage), perché in esso le cose vengono all’essere e divengono visibili. Anche per Vico il linguaggio poetico non è rappresentativo o esortativo (come prevalentemente pensavano le poetiche cinque-secentesche); non è descrizione di uno stato di cose, poiché è esso ciò in cui sono resi possibili ogni stato e ogni relazione. Per questo il dire originario propriamente non significa, ma, facendo apparire, mostra (Zeigen) e poiché mostra, è canto[19] .
Ma se il poetare è la forma originaria del pensare, allora il pensiero (riflessivo) di questa identità originaria sarà un “rammemorare” (Andenken) l’origine linguistica del mondo e l’istituirsi delle molteplici forme storiche entro l’apertura del linguaggio. In tal senso, non solo la ricerca etimologica è una via privilegiata per rammemorare l’origine, ma tutta la “scienza nuova” è un’articolata strategia di rammemorazione per recuperare il movimento dell’ermeneutica originaria del mondo[20].
La configurazione poetica del mondo ha dunque la natura di un’ermeneutica dell’esperienza, che ha come sue condizioni, da una parte, la relazione sensibile-immaginativa alla realtà empirica, dall’altra la relazione metafisica della mente ai veri (e tramite essi al Vero). Contro le varie forme di utilitarismo Vico argomenta che l’uomo non avrebbe mai potuto inaugurare il (suo) mondo, se non fosse dotato della capacità di trascenderne l’immediatezza empirica. Tale capacità di trascendenza gnoseologica Vico chiama “metafisica della mente”, appunto come possibilità che la mente ha di andare oltre la “fisica” delle impressioni e delle reazioni sensibili. Tale ulteriorità, però, – come s’è visto – non significa dualismo metafisico in rapporto all’ambito della sensibilità, bensì trascendenza interna al mondo sensibile stesso. La poetica vichiana realizza così un singolare platonismo della sensibilità, secondo il quale questa, nella sua elaborazione immaginativa e linguistica[21], apre entro se stessa lo spazio noetico per la conoscenza figurale del vero e lo spazio pratico dell’azione conforme all’archetipo.
Come l’atto originario dell’ingegno ermeneutico-poetico è apertura di mondo, così esso è anche istitutivo della realtà del soggetto. In senso anticartesiano, il soggetto prende coscienza di sé non nell’atto intemporale del cogito, ma nel processo produttivo della sua immaginazione poetica, in cui egli fa l’esperienza determinante del suo essere capace di un criterio di senso (incarnato nell’”universale fantastico”) secondo una misura che non è a disposizione della mente, ma a cui piuttosto la mente è soggetta. In questo senso il soggetto interpretante è anche sempre soggetto interpelllato; anzi, soggetto che è tale perché è interpellato dalla luce della verità. Essere soggetto significa per Vico – ciò in sintonia con l’agostinismo di un Malebranche, ma aldilà del suo radicale passivismo – sorprendersi attivamente capace di perfezione e di valore secondo una misura che non è a disposizione, ma da cui piuttosto si è disposti. In termini più propriamente vichiani, la soggettività è proprietà dell’ingegno interpretante, in quanto assoggettato al vero che esso stesso “facendolo” porta alla luce e rende mondo.
Vico rappresenta questo assoggettamento, quando si appropria della dottrina proiettiva del mito, intesa come energia che il mito ha di imporsi come vero a coloro stessi che l’hanno prodotto, in virtù della sua spontaneità e della sua forza figurale: «Per quello stesso lor errore di fantasia, eglino [poeti teologi] temevano spaventosamente gli dèi ch’essi si avevano finti»[22]. Non solo, ma in questa suggestione di dipendenza prende avvio anche il senso morale, anzitutto nella forma oggettiva delle elementari regole giuridiche. I miti primordiali infatti, incentrati sulle figure dei primi universali fantastici, costituiscono secondo Vico il contenuto del primitivo “fas gentium”. «Le favole furono il primo fas gentium, un parlar immutabile: onde Varrone da for disse formulam naturae il ‘fato’, il parlar eterno di Dio»[23]. L’esperienza originaria della costituzione ermeneutica del mondo attraverso i miti è immediatamente avvertita dai loro stessi autori come una parola che li as-soggetta e li rende portatori di un valore regolativo assoluto, secondo l’idea varroniana-vichiana della “formula” spontanea dell’unità ideale del senso e del valore: «Deus mentibus hominum – aveva già detto il Diritto universale -suum aeternae rationis verbum fando, fas dictat, ius naturae immutabile, quae est ‘formula naturae’ Varroni»[24].
La parola nasce dunque come appello vincolante del dio, immaginato come entità esteriore, in cui è data espressione mitica alla fonte metempirica del dire originario. In altri termini, il senso etico-giuridico dell’umanità nasce secondo Vico come coscienza (inizialmente in forma mitica) della «vis veri» da cui è sorretta e regolata la mente umana, dalla quale questa «semper urgetur, quia nunquam aspectu amittere possumus Deum», come si esprime Vico con formula malebranchiana[25].
Ma a questo livello la teoresi vichiana giunge alla sua massima profondità. La “formula naturae” varroniana è infatti interpretata da Vico come principio inoggettivabile della giustizia; così che, se da un lato è sua formulazione intelligibile, dall’altra – come recita la Scienza nuova seconda – è «formula informe d’ogni forma particolare»[26], che illumina ogni circostanza dei fatti, ma che in se stessa trascende ogni forma determinata e quindi anche ogni archetipo primordiale. In questa prospettiva la comprensione delle forme – operata secondo la logica del “verum factum” – termina con neoplatonica progressione ad un in-formale, fonte incircoscrivibile dell’intelligibilità di tutte le forme. La nascita storica dell’ordine umano, l’apertura dell’orizzonte trascendentale del sapere, la genesi politica della città sono i supremi oggetti che la “scienza nuova” si sforza di indagare. Ma a capo della loro formazione e a loro fondamento sta l’in-formale e l’in-fondato, un Vero metafisico non ontoteologico, invisibile condizione d’ogni visibilità e ingiustificabile criterio d’ogni giustizia.
Etica ermeneutica
Qual è più precisamente lo spazio dell’esperienza etica aperto dall’ermeneutica vichiana? Se le analisi sin qui condotte convergono nell’idea che il processo interpretativo, che istituisce il mondo storico, ha i caratteri della spontaneità, della necessità e dell’assoggettamento alla regola del vero, l’ambito etico si definisce allora nel rapporto della libertà e della coscienza a questo piano di necessità e di preterintenzionalità. In questa direzione è da leggersi l’idea vichiana che la Provvidenza sia «architetta» e il libero arbitrio sia il «fabbro» del mondo delle nazioni[27], nel senso cioè che la libertà si articola sul necessario orientamento metempirico della mente quale orizzonte intrascendibile (e quindi trascendentale) dell’azione umana.
Lo spazio dell’obbligazione morale si colloca dunque in questa sproporzione tra la spontaneità assiologica trascendentale della mente e la determinazione categoriale della libertà impegnata con ciò che normalmente Vico nomina con l’endiadi “utilità o necessità” ovvero l’ordine degli interessi e dei bisogni. La libertà è posta di fronte all’alternativa di rispondere o meno all’interpellazione del giusto alla mente e quindi di assumere o meno l’assoggettamento strutturale della mente al vero come direttiva della sua azione e come premessa della sua parola.
Certamente, quanto più vive in un regime mentale primitivo, tanto più la condotta umana è necessitata, lo spazio della libertà è ridotto e l’azione della provvidenza è immediata. In questa condizione prevale un’eticità, fatta di costume mitico costrittivo, in cui il comportamento individuale è normato dal conformismo sociale. La società arcaica formula, attraverso le sue ermeneutiche mitiche e rituali, un’etica strutturata dal criterio del fas / nefas delle narrazioni archetipiche, i cui contenuti fondamentali coincidono con quelli del “senso comune” – provvidenza, coniugio e rispetto dei morti – ed esprimono insieme le idee primarie della metafisica poetica delle origini e i principali criteri di rispetto e di liceità del comportamento morale.
Via via che la mentalità evolve verso il regime dell’”età degli uomini”, con l’’aumento dello spazio riflessivo cresce anche quello dell’esercizio della responsabilità individuale. Ma anche a questo livello Vico è preoccupato di mostrare il radicamento della libertà nella necessità. La trattazione che Vico fa della dottrina secentesca dell’”amor proprio” nella Scienza Nuova del ’44 è da questo punto di vista paradigmatica. Vico tenta infatti di acquisire alla sua prospettiva l’idea elaborata nella linea che da Nicole va a Bayle e a Mandeville, secondo cui è l’individualistico amor proprio il paradossale fattore integrativo e conservativo della vita sociale. Anche per Vico l’uomo cerca la soddisfazione egoistica dei propri interessi (libidine, avarizia, violenza, dominio, …) e tuttavia dà luogo a realizzazioni storiche e istituzionali, come i matrimoni, il commercio, l’esercito, l’organizzazione politica, in cui la società trova stabilità e progresso. Nonostante l’incoerenza etica il prodotto dell’umano agire non è distruttivo, perché essa è come contenuta e reimpiegata dall’energia comunicativa e connettiva della regola di giustizia comunque attiva al fondo dell’agire umano. Solo una “riflessiva malizia”, che strappa l’agire dal terreno dei criteri del senso comune, fa precipitare nell’individualismo assoluto, in cui la negatività etica non può più essere recuperata entro la più fondamentale comunicazione di giustizia e diviene così distruttiva della “humanitas”.
La concezione vichiana del “diritto naturale delle genti” esprime esattamente questo radicamento strutturale, e quindi prevolontario, dell’azione umana nella verità metempirica. Il diritto naturale si configura infatti come presenza attiva dell’eterno vero nell’utile empirico per il tramite della mente umana. Il «ius naturale immutabile», recita la Sinossi, consiste nell’«utile uguale», cioè a quella regolazione secondo giustizia dell’utile che consegue alla comune pertecipazione degli uomini alla «veri societas», come si esprime il De uno. La comunicazione ideale al vero sta a fondamento di una comunanza anche a livello degli interessi utilitari: una «societas aequi boni ex societate veri nascitur”, così che nel concreto storico “societas […] omnis est utilitatum communicatio»[28].
In forza del suo radicamento ideale il diritto naturale vichiano ha una natura prevolontaria, che sollecita con la sua istanza la volontà e fa appello all’opera della “iurisprudentia” per dare attuazione storica alla giustizia, cioè per inserire il “vero” prevolontario nel “certo” volontario dell’agire umano. In tal modo l’elemento prevolontario d’origine metafisica e quello volontario d’origine empirica si coniugano nell’atto interpretativo del giurisprudente[29].
Questa disequazione tra empirico e metempirico, in cui sorge l’istanza etica, implica che l’azione compiuta o da compiere abbia un senso che la eccede. Anche l’azione ha la struttura del “verum factum”; anzi, essa è per eccellenza evento, cioè fatto significativo, “factum” che manifesta ed esplica un “verum”. Ciò significa che ogni azione è espressiva di un senso (la sua verità) che non è esaurito dall’azione stessa e che quindi possiede un’universalità trascendente la determinatezza dell’azione stessa e misura del suo valore. Questa sproporzione dà all’agire morale un’intrinseca dimensione storica. Proprio perché l’azione veicola un valore più grande di sé (il “verum” che è “regola di giustizia”), essa stessa urge ed esige un seguito di altre azioni che costituiscano una nuova ripresa interpretativa per adeguare maggiormente l’universalità del valore. In tal modo l’azione invoca dal suo interno una tradizione di eventi interpretativi che le dia (un maggior) senso compiuto, che ne svolga cioè la potenzialità universalistica.
L’esempio cospicuo e paradigmatico è offerto secondo Vico dall’evoluzione della coscienza etico-giuridica dell’umanità incarnata nella storia del diritto romano nel suo intreccio con la storia sociale di Roma. La giurisprudenza primitiva è caratterizzata da una “somma scrupolosità di parole” ed è quindi letteralisticamente vincolata ai gesti rituali della sua esecuzione. Ma già in questa sua limitatezza positiva ciò che essa amministra, il criterio di giustizia, urge ad una più ampia condivisione. Tale urgenza è rilanciata dalle lotte tra patrizi e plebei, incentrate sulla richiesta della partecipazione ai diritti e all’amministrazione del diritto. Così attraverso una lunga storia di conflitti e di reinterpretazioni giuridiche si compie il grande arco evolutivo che va dallo “ius violentiae” dei primordi alla “giurisprudenza benigna” dell’età imperiale.
È questa la risposta che Vico dà allo scetticismo morale del suo tempo, che, già a partire da Montaigne, si compiaceva di contrapporre al diritto naturale di valore universale ed unico, ma astorico, una “coustume” particolare e plurima, ma concretamente vissuta. Per cui già P. Charron teorizzava l’esistenza di una «double justice», di cui una «naturale, universale, nobile, filosofica», ma «hors l’usage, incommode au monde tel qu’il est»; l’altra, invece, «artificiale particolare, politica», ma fata a misura dell’esercizio del potere[30]. Al contrario, per Vico il nucleo universale del diritto naturale si coniuga senza contraddizione con la sua applicazione prudenziale, così che l’unità del diritto naturale vive entro la pluralità diacronica e sincronica del costume.
Ma la specificità del discorso etico-giuridico vichiano è meglio visibile se se ne considera più dall’interno il principio antropologico. Per Vico infatti la presenza del vero alla mente – in ordine all’esperienza pratica e all’esigenza morale – non si dà né come intuizione, né come idea innata, non ha comunque una forma intellettualistica, ma è attiva nell’esperienza originaria del “pudore”. È un tema che Vico elabora soprattutto nel Diritto univesale, ma che mantiene tutto il suo vigore anche nell’opera maggiore. Il “pudor” è un modo fondamentale dell’esistenza umana, peculiare della sua condizione decaduta. Il pudore infatti è memoria del vero per l’uomo che ha perso la comunicazione diretta con l’infinito e che quindi avverte l’urgenza del vero anzitutto nella forma negativa della sua assenza. Nella condizione di lontananza dal Vero il pudore è la coscienza del negativo, cioè della sua assenza nel rapporto umano col mondo: è «veri ignorati pudor»[31]. Delle forme del pudore Vico fa un’analisi suggestiva, la cui ampiezza ribadisce la fondamentalità del principio. Il pudore infatti è timore religioso nei confronti del divino, ma è anche timore morale del giudizio degli uomini quanto alla trasgressione dei valori del senso comune; è pudore sessuale, ma è anche «curiositas» e «industria», ingegnosa capacità di indagine, di invenzione e di organizzazione[32]. La Scienza nuova ribadisce che nel «pudore», nella «curiosità» e nell’«industria» «si vanno a truovare tutti i princìpi dell’umanità», anzitutto «quelli del diritto naturale delle genti» e poi quelli di tutte le scienze e di tutte le arti[33].
Nella dottrina del pudore si concentra la concezione vichiana (anti-hobbesiana) della relazione tra ragione e passioni. Il pudore infatti costituisce il principio regolatore del mondo delle passioni, che nella condizione postparadisiaca è precipitato nel caos. Il pudore induce lo stato di latenza delle pulsioni e istituisce la canalizzazione del “conatus”: «Primae gentes – afferma il De constantia – diu in lucis latuerunt, et latendo prima civilis vitae iecerunt fundamenta», che necessitano dell’opera costante del «conatus», cioè dell’intervento della volontà per «tener in freno – come si esprime la Scienza nuova seconda – i moti impressi alla mente dal corpo»[34].
Il pudore ha dunque funzione fondativa dell’ethos umano e come tale è anche la fonte del “senso comune”, i cui contenuti ne costituiscono la prima elementare articolazione. Religione della provvidenza, nozze solenni e sepoltura dei defunti, con i relativi miti e riti, sono i “tre costumi” che danno corpo alla memoria del Vero e che possiedono un’immediata valenza etica. I tre contenuti dell’unico senso comune danno forma, infatti, a un’etica della relazione e del rispetto, come risulta dal fatto che il comune fra i tre contenuti è l’idea di relazione con un’alterità che non è semplicemente a propria disposizione, ma che va riconosciuta nel suo valore intrinseco. Di essi la religione è la forma è più forte, che sta a capo e a garanzia etica della relazione. Essa è infatti per Vico «l’unico potente mezzo» per ridurre gli uomini inselvatichiti alla vita sociale, perché, anche se erronea come quella pagana, è però capace di regolare il comportamento concreto, raccordando l’esperienza comune al valore[35]. A lor volta, il matrimonio e le sepolture costituiscono le forme più forti di relazione orizzontale, in cui hanno luogo, da una parte, l’esperienza primordiale della comunicazione e dell’amicizia (tra uomini e donne e tra genitori e figli) e, dall’altra, l’esperienza del rapporto tra generazioni, da cui consegue il senso della genealogia, il rapporto alla terra e quello di proprietà.
In tal modo l’etica del rispetto induce anche un’etica della stabilità delle relazioni nel tempo e nello spazio e per questo non è mai solo “morale di solitari”, ma è sempre anche etica civile, di cui le forme del senso comune costituiscono le prime generalissime mediazioni. Come dice la XIII “degnità” «il senso comune del genere umano» è il «criterio» di cui sono dotate le nazioni «per diffinire il certo d’intorno al diritto natural delle genti», venendo in soccorso – come aveva detto la XI “degnità” – all’ «umano arbitrio, di sua natura incertissimo»[36]. Il senso comune opera, dunque, come mediazione tra la indeterminata disposizione della libertà al giusto e la dettagliata regolazione etico-giuridica dell’utile.
Si configura così, in sintesi, la struttura dell’etica vichiana, la cui fondamentale preoccupazione è di mostrare la presenza della luce metafisica nella determinatezza dell’agire umano. La “metafisica della mente” è attiva come memoria del Vero in-forme nel senso del pudore, che suggerisce la necessità (morale) di regolare i bisogni e gli interessi secondo la comunanza ideale del Vero. L’esigenza di verità pratica è istitutiva essa stessa delle relazioni fondamentali, con il Vero stesso, con l’altro sesso, con l’altro uomo, in quanto fa accorgere dell’altro e della sua irriducibile densità. Tali relazioni fondametali, a lor volta, sono il “criterio” regolativo dell’incidenza del Valore sull’agire; esse fungono infatti da schemi di mediazione e da prime modalità di attuazione dell’obbligazione morale, che richiede (nell’età della ragio critica) l’ulteriore precisazione prudenziale per giungere a regolare la concretissima azione. La struttura dell’etica vichiana risulta così costituita da una graduazione di piani, che va dal piano del principio metafisico a quello dei criteri (archetipici) di senso comune e da questo a quello del concreto prudenziale. Con questa articolazione di livelli Vico intende pensare l’unità organica e storica dell’universale e del particolare, contro la separazione consumata rispettivamente nel giusnaturalismo e nell’empirismo etico del tempo.
La delineazione astratta della strutura dell’etica vichiana non deve far dimenticare però che la sua genesi non è indifferente per il suo interno statuto, che cioè la competenza etica del soggetto e la sua coscienza normativa nascono nel grembo dell’ermeneutica poetica del mondo. Che i “patres” fondatori della “humanitas” fossero – come dice ripetutamente Vico – “poeti, teologi e politici”, dice della cooriginarietà delle dimensioni fabulistica, metafisica ed etico-giuridica. Vi è un destino etico del soggetto inscritto nella genesi e nella natura delle nazioni, di cui la congiunzione di religione, diritto e poesia costituisce il codice genetico e la struttura basilare. In particolare, l’ermeneutica poetica del mondo e la rappresentazione archetipica dell’agire umano restano condizioni insostituibili di accesso antropologico e gnoseologico alle dimensioni aletica e assiologica. La genesi della coscienza morale è così inseparabile dall’esperienza della forma poetica e dal riferimento al contenuto religioso, cioè da una certa unificazione estetica del mondo e da un certo riconoscimento della dipendenza da una verità tipologica trascendente. In questo modo è interessante notare che il “verum factum” poetico-mitico coincide immediatamente con il passaggio dalla con-fusione pulsionale alla relazione desiderante e quindi anche alla capacità di relazione generativa: gli autori della “humanitas” sono infatti “patres”.
Diversamente, la coscienza morale non prende forma oppure, quando è in declino come nella congiuntura della “barbarie della riflessione”, il discorso etico rimane una procedura argomentativa astratta e inefficace, che di fatto copre «una somma solitudine d’animi e di voleri», cioè una condizione amorale di soggetti finemente rimbarbariti, tornati ad essere nell’intimo come «bestie immani»[37].
Si tratta dunque di una connessione che ha un valore permanente. Per questo la natura della competenza etica esige, per mantenersi, di ripetere costantemente la sua origine[38], consegnata a sua volta alla partecipazione ad una tradizione archetipica esemplare. Ora, per Vico, il passaggio all’età della ragione riflessa non significa l’abbandono delle sorgenti mitiche della “humanitas” (socialità e cultura), ma appunto loro ricomprensione ermeneutica, ma non come pura operazione scientifico-accademica, bensì come rapporto di seconda ingenuità con la “sapienza volgare”. Non bisogna dimenticare, infatti, che in Vico non si dà la figura della pura successione epocale (come la serie comtiana delle età), ma i modelli, molto più complessi, della concomitanza confusa (secondo l’immagine delle mescolanza delle acque dolci e salate alla confluenza del fiume nel mare)[39] e della coesistenza equilibrata (secondo l’ideale della akmé)[40]. Nell’”età degli uomini” resta eticamente fondamentale la coscienza della genesi mitica del senso della giustizia. Si tratta infatti di rammemorare l’origine spontanea, necessaria e vincolante del senso morale, a partire dalle sue primigenie forme sociali. La ”barbarie della riflessione” ha inizio – come già si diceva – non quando vi sia particolare nequizia, ma quando si spenga la sorgente mitico-poetica del comportamento, quando cioè venga meno la relazione archetipica al Vero, in concreto la partecipazione ad una comune tradizione religiosa. Allora decade la “pietà” e la comunicazione sociale non è più vissuta come fatto originario, ma la solitudine prevale sottraendo al soggetto la coscienza del primato ideale della giustizia: «se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio», come recita la chiusa della Scienza nuova seconda.
In tal senso anche per Vico potrebbe valere la pagina nietzschiana, secondo cui
«senza mito […] ogni civiltà perde la sua sana creativa forza di natura: solo un orizzonte delimitato da miti può chiudere in unità tutto un movimento di civiltà. Solo dal mito le forze della fantasia e del sogno apollineo vengono salvate dal loro vagare senza direzione. […] e perfino lo Stato non conosce leggi non scritte che siano più potenti del fondamento mitico, il quale garantisce la sua connessione con la religione, il suo crescere da rappresentazioni mitiche»[41].
Con la differenza che nel caso vichiano il mito non partecipa del mondo dell’illusione, ma, al contrario, il suo “falso” poetico ha valore metafisico. Piuttosto a condizione della coscienza morale non sta qualunque immaginaione, non quella sensistica (come direbbe P. Sorokin) o quella emotovistica (come direbbe A. MacIntyre), ma un’immaginazione che ‘fa il vero’ e che quindi ne interpreta il senso; che interpretando narra e che narrando (re)inaugura l’esperienza etica dell’umanità.
[1] Testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.2.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
[2] Per una più ampia esposizione cfr. F. Botturi, Hermenéutica del evento. La filosofia de la interpretacion de Giambattista Vico, in “ Cuadernos sobre Vico”, 9/10 (1998), pp. 43-56.
[3] Principi di una scienza nuova (SN25), in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze: Sansoni, 1971. I, 10, p. 182.
[4] Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, in Opere filosofiche, cit. P. 29.
[5] De Constantia iurisprudentis, in Opere giuridiche. Il diritto universale, a cura di P. Cristofolini, Firenze: Sansoni, 1974,p. 351 e I, p. 387; Principi di scienza nuova (SN44), in Opere filosofiche, cit. “Degli Elementi”, X, p. 434.
[6] Cfr. SN44, “Degli Elementi”, X, p. 434.
[7] SN44, I, “Degli Elementi”, p. 438.
[8] SN25, II, 8, pp. 206-207; cfr. V, p. 306.
[9]La figura del circolo è dunque insuperabile, perché il duplice regime della ragione (quello mitico-poetico e quello critico-riflessivo) non permette mai alla ragione filosofica di ricomprendere esaurientemente il senso. Per V. Vitiello, invece, la circolarità è figura secondaria, perché, se è l’ “ordine” razionale metafisico (il “vero”) che dà forma, «allora la distinzione di filologia e filosofia è tutta interna alla filosofia: è [solo] distinzione tra filosofia implicita e filosofia esplicita […]». Ma, conclude l’Autore, «col venir meno della distinzione tra philologia e philosophia, sembra cadere insieme la distinzione tra philo-sophìa e sophìa» (La favola di Cadmo. La storia tra scienza e mito da Blumenberg a Vico, Roma-Bari: Laterza, 1998, p. 94). Ma è appunto questa conclusione che risulta inaccettabile, perché dissolve quella distinzione tra le forme della “sapienza” che è per Vico condizione di possibilità e di pensabilità della situazione esistenzialmente storica e metafisicamente finita dell’uomo.
[10] Sottolinea quest’aspetto del pensiero vichiano G.F. Dalmasso, quando osserva che nell’epistemologia vichiana «scienza e filosofia si trovano coinvolte in un identico movimento la cui origine non è disponibile al dominio del sapere. Lo sforzo intellettuale dell’uomo si colloca in un dislivello originario e imprendibile in cui sia il sapere sia la verità si scoprono come prodotti» (La verità in effetti. La salvezza dell’esperienza nel neo-platonismo, Milano: Jaca Book, 1996, pp. 130-131); la stessa «mente è così concepita de-centrata rispetto a se stessa. Questo de-centramento consiste in uno strutturale sfuggire che è costitutivo per la mente stessa: questo sfuggire precede ed è all’opera nel tentativo della mente di conoscersi e di conoscersi conoscente» (p. 134).
[11] Esempio suggestivo di una concezione in chiave ermeneutica del pensiero vichiano, ma anche perfettamente chiusa all’implicazione metafisica, può essere considerata l’interpretazione di E Grassi. L’ermeneuticità del pensiero vichiano è colta da Grassi soprattutto nella natura linguistica del pensiero e nella sua produttività metaforica – come si dovrà vedere anche qui -; ma questo non implica, anzi esclude per Grassi, l’eccedenza del vero: «Tutto il pensiero di Vico è rivolto alla dimostrazione della storia eterna civile, che attraverso la teoria dell’ingegno, della fantasia, della parola metaforica corrisponde all’ordine della natura che fa sorgere i fuochi artificiali delle varie culture, dei vari miti teologici, delle varie istituzioni […]. L’uomo è murato nella storia. La necessità dalla quale nasce la storia è nella sua originarietà naturale e abissale: indeducibile razionalmente. Ogni accesso nuovo a un pensiero religioso è, su questa via, precluso, contro l’intenzione di Vico» (Vico and Humanism. Essays on Vico, Heidegger, and Rhetoric, New York-Bern- Frankfurt a. M.-Paris: Peter Lang, 1990 [Vico e l’Umanesimo, tr. it. di A. Verri, Milano: Guerini e Ass., 1992, p. 207]). Conclusione stranamente simile a quella crociana e come quella di Croce gravemente aporetica, perché non mette in discussione solo la coerenza vichiana nei confronti della propria confessione religiosa, ma sovverte l’intera costruzione teorica del Napoletano, a partire – come si diceva – dal complesso delle relazioni polemiche che definiscono i confini della sua filosofia.
[12] Cfr. l’esito delle ricerche svolte in F. Botturi, La sapienza della storia. Giambattista Vico e la filosofia pratica, Milano: Vita e Pensiero, 1991 e le precisazioni in Tempo, linguaggio, azione. Le strutture vichiane della “storia ideale eterna”, Napoli: Guida, 1996 (in part. I, 4 “Il ‘verum ipsum factum’ come epistemologia trascendentale”).
[13] De antiquissima, in Opere filosofiche, cit., I, 2 , p. 69.
[14] Ivi, II, pp. 77 e 79.
[15] Ivi, III, p. 73.
[16] Il «genus» è infatti una forma, ma in senso «platonico» e non «aristotelico»; esso è matrice individuale di infinita perfezione, come la «forma del vasaio», e non astratta essenza universale, come la «forma del seme» (cfr. De antiquissima, II, p. 77). Questo orientamento resta vero anche nella dottrina poetica della Scienza nuova, benché sintetizzato con importanti elementi della poetica aristotelica.
[17] SN44, ”Idea dell’opera”, p. 394 e II, 2, p. 495.
[18] De antiquissima, VII, 4, p. 117 e 5, p. 123.
[19] Cfr. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Pufllingen: Gunther Neske, 1959 [In cammmino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo, Milano: Mursia, 1973, pp. 169, 118-119 e 210].
[20] Anche per Vico potrebbero valere i «cinque detti-guida» hölderliniani, con cui Heidegger qualifica il discorso originario della poesia. Anche per Vico il poetare è «l’occupazione più innocente di tutte» e, insieme, «il più pericoloso di tutti i beni» (detti 1 e 2), perché è nel linguaggio poetico che si apre il mondo (origine di per sé innocente), ma nello stesso tempo si determinano le sorti ermeneutiche dell’uomo. Nella mitopoietica originaria «molto ha esperito l’uomo. Molti celesti ha nominato», creando le figure archetipiche, che istituiscono il «colloquio» che noi siamo (detto 3). Ma l’apertura poetica e teologica del mondo è insieme la sua istituzione e il fondamento d’ogni istituzione: «Ma ciò che resta, lo istituiscono i poeti» (detto 4) e il linguaggio (poetico) è l’istituzione delle istituzioni, come pensava già l’umanesimo linguistico (cfr. K.O. Apel); perciò, in sintesi, è perfettamente vero per Vico che «poeticamente abita l’uomo su questa terra», essendo il linguaggio poetico che istituisce il cosmo della comunicazione degli dèi, degli eroi e degli uomini. Cfr. M. Heidegger, Erläuterungen zur Hölderlins Dichtung, Frankfurt a. M.: V. Klostermann, 1981 [La poesia di Hölderlin, tr. it. di L. Amoros, Milano: Adelphi, 1988, p. 41 e sgg.].
[21] Per Vico, istruito dalla tradizione della poetica e della retorica umanistiche, la sensibilità umana non è mai solo (se non per una considerazione astratta) percezione. La sensibilità percettiva esterna è sempre in vitale connessione con la sensibilità interna (memoria, fantasia, ingegno), così che la conoscenza sensibile in atto è indisgiungibile dalla sua elaborazione immaginativa. Questo stabilisce il confine di separazione dell’antropologia vichiana da quella empirista.
Inoltre, si addice in modo peculiare a Vico ciò che dice S. Petrosino in sintonia con J. Derrida (ma indirettamente recuperando la direzione profonda dell’Umanesimo linguistico, di cui il Napoletano è “l’erede testamentario” secondo l’efficace espressione di K.O.Apel), che cioè il rapporto alla parola è sempre ad un tempo «istituzione di un mondo», «disseminazione di un senso», fondato ma non controllabile, e «destinazione all’altro», cioè «apertura di una scena d’alterità in cui ogni segno del soggetto diviene lettera o missiva» (L’esperienza della parola. Testo, moralità e scrittura, Milano: Vita e Pensiero, 1999, pp. 296-297). L’immaginazione linguistica di Vico va sempre intesa non solo come dimensione antropologica, ma anche come principio di mondo e istituzione di relazione.
[22] SN44, IV, 2, p. 642.
[23] SN25, III, 1, p. 257.
[24] De uno, in Opere giuridiche, cit., CXIII, p. 137.
[25] Ivi, CLII, p. 203; ma cfr. già De antiquissima, VI, p. 111.
[26] SN44, IV, 14, p. 680. Cfr. già nel De antiquissima, l’idea che il «primum verum» è «caussarum comprehensio, qua continentur omnia genera, seu omnes formae» (I, 4, p. 75); e poiché comprende tutte le forme, tutte le trascende: il «verum metaphysicum» «nullo fine concluditur, nulla forma discernitur; quia est infinitum omnium formarum principium» (IV, p. 83).
[27] SN25, II, 3, p. 188.
[28] Sinossi, in Opere giuridiche, cit., p. 6; De uno, LI, p. 67 e CLX, p. 73.
[29] Cfr. De uno, “Proloquium”, p. 33 e “Caput ultimum”, p. 343.
[30] P. Charron, De la Sagesse trois livres, Londres 1769, t. II, III, V, 3, p. 614.
[31] De constantia, III, p. 405.
[32] Cfr. Ivi, III, pp. 405, 407, 409.
[33] SN25, V, 3, p. 308.
[34] De constantia, XX, p. 541 e SN44, I, 4, p. 464.
[35] Cfr. SN44, IV, 10, p. 654.
[36] SN44, I, 2, p. 434.
[37] SN44, “Conchiusione del’opera”, p. 699.
[38] Uno dei criteri ermeneutici vichiani afferma infatti che «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise […]”» (SN44, I, “Degli elementi” XIV, p. 435); perciò la conservazione di una «natura» è possibile solo ripetendo il suo «nascimento».
[39] Il linguaggio poetico delle origini, afferma Vico, «scorse per così lungo tratto dentro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spargono molto dentro il mare e serbano dolci l’acque portatevi con la violenza del corso» (SN44, II, 2, p. 489). Ma Vico giunge anche a dire che in realtà le «tre lingue» (degli dèi, degli eroi e degli uomini) cominciarono «nello stesso tempo» (ivi, pp. 502-503). Comunque aveva già osservato che «pur oggi, per ispiegare i lavori della mente pura, ci han da soccorrere i parlari poetici per trasporti de’ sensi» (SN25, III, 27, p. 27; cfr. 22, p. 273 e SN44, I, 2, p. 501: «la metafora fa il maggior corpo delle lingue appo tutte le nazioni»): vi è dunque un sostrato tropico del linguaggio come risorsa semantica indispensabile anche nell’età della ragione dispiegata.
[40] La akmé o ideale «stato di perfezione» della civiltà si ha là dove si dia armonia sincronica tra le forme della sapienza, così che la «sapienza riposta de’ filosofi» riconosca la sua origine da quella «volgare delle nazioni» e le «dasse la mano e la reggesse», consolidandola con il suo appoto di stabilità critica (cfr. SN25, I, 2, p. 173).
[41] F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie, Berlin-New York: W. de Gruyer, 1972 [La nascita della tragedia, tr. it. di S. Giametta, Milano: Adelphi, 1972, p. 151]. E. Vögelin riprende un pensiero di questo tipo in relazione a Vico, quando afferma che “ogni civiltà possiede sicuramente il suo mito; possiamo così accettare come sostanzialmente corrette le istituzioni del genio vichiano: che l’akmé di una civiltà sia raggiunto quando il mito viene compreso dalla speculazione razionale, e che una civiltà declini con l’esaurirsi e il dissolversi del suo mito” (The New Science, cap. III di History of political Ideas, inedito [La “Scienza nuova” nella storia del pensiero politico, tr. t. di G.F. Zanetti, Napoli: Guida, 1996, p. 77).