Vorrei affrontare il tema che mi è stato affidato con una certa libertà e con spirito critico dal punto di vista culturale, perché è più importante capire che fare propaganda. Confesso che l’espressione cattolico–democratico, più ci penso e più la vedo ambigua, perché non dice niente di diverso da democratico–cristiano, anzi, dice qualcosa di meno, è più riduttiva, perché quest’ultima comprende anche i cristiani non cattolici. I partiti di democrazia cristiana sono componenti politiche che nel nord Europa hanno raccolto i voti di varie componenti confessionali cristiane. Come mai allora l’espressione «cattolico–democratico» è assurta, di tanto in tanto, quasi a test di una crisi? All’inizio del nostro secolo Romolo Morri, Filippo Meda, Luigi Sturzo si definirono democratici cristiani, poi vi è uno strano gioco di nomi: il termine viene abbandonato nel primo dopoguerra, quando Sturzo fonda il Partito Popolare, perché il nome «Democrazia Cristiana» era stato coinvolto nella crisi modernista e quindi scottava. De Gasperi lo ripristina nel secondo dopoguerra non, come si è detto e scritto, per sottolineare il carattere confessionale del suo partito, ma perché la nuova generazione non voleva riconoscersi nella tradizione popolare. In anni recenti, la crisi della Democrazia Cristiana ha fatto emergere nell’ultimo decennio il nome popolare. C’è un ritorno continuo di nomi adottati e poi abbandonati, un rimando che indica come, dietro le forme che questa tradizione assume dal punto di vista partitico, rimane qualcosa che continua, che dura, una tradizione di cultura politica distinta dalle diverse espressioni partitiche che l’hanno incarnata. Nel corso di questa vicenda l’espressione cattolico–democratico emerge di tanto in tanto come test rivelatore di un momento di difficoltà, di tensione. La usa Sturzo nel primo dopoguerra per polemizzare contro i clerico – fascisti, nella fase più drammatica della sua esperienza e della sua vita, quando viene abbandonato dalla Santa Sede che rivolge le sue simpatie al vincitore, al fascismo, con il quale instaura un rapporto che porterà alla conciliazione, e riemerge nel dopoguerra, negli anni ’70, quando si tentò con Zaccagnini l’impresa del rinnovamento della DC. Allora rivenne fuori questa espressione, quasi come segno di una diversità, di qualcosa che stava sotto il partito, contava più del partito e che poteva durare al di là delle vicende del partito medesimo.
Oltre a questi motivi contingenti, per cui la parola va e viene, cerchiamo le linee portanti dell’esperienza democratico–cristiana in due secoli di storia. La Democrazia Cristiana nasce come tentativo di risposta allo scandalo che Tocqueville denuncia nella sua Democrazia in America in quella pagina in cui afferma che, in Europa, la religione è tra quelle forza che la democrazia travolge. Per uno strano concorso di circostanze – dice Tocqueville – mentre in America la democrazia nasce dall’esperienza religiosa, in Europa la democrazia si sviluppa in polemica e in opposizione con la Chiesa. I cattolico–democratici sono quelli che vogliono dare una risposta a questa sfida, superare questa condizione di anomalia, e cercano quindi la sintesi con la modernità, una sintesi che non è un cedimento o un’accettazione acritica del moderno, ma è, viceversa, un vaglio critico degli elementi che nella modernità esprimono valori ed esigenze evangeliche. Io sono fra coloro che sostengono che non è possibile, storicamente e culturalmente, dissociare la fase del cattolicesimo–liberale da quella della democrazia–cristiana. La Democrazia Cristiana nasce sul ceppo del cattolicesimo liberale: non c’è accesso ai valori della democrazia se non è radicato e consolidato il fondamento sui valori della libertà. Il cattolicesimo–democratico ha contribuito a far sì che la base teorica della libertà fosse diversa dall’indifferentismo religioso tipico di certe correnti liberali continentali, non certo del liberalismo anglo–sassone. All’origine di questo movimento vi è il famoso saggio di Lamennais L’essais sur l’indifference religeuse. I cattolici–democratici sono quelli che comprendono, tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, nei diversi Paesi a seconda della fase in cui si collocano i processi di industrializzazione, che il problema sociale non può essere risolto con un’azione benefica dall’alto e quindi superano la concezione leoniana della democrazia–cristiana come actio benefica in populo e capiscono che, viceversa, l’azione sociale in favore delle classi più bisognose ha necessità di congiungersi con un’azione politica. La formula degli abbés démocrates in Francia, che è il gemello della nostra Democrazia Cristiana, è «pour le peuple et par le peuple» (per il popolo, attraverso il popolo). Il coinvolgimento democratico delle masse popolari è la condizione del riscatto e le masse popolari non sono, pertanto, l’oggetto di un’azione benefica.
Un’altra grande intuizione è quella della netta distinzione fra lo Stato e la società civile, che oggi riemerge con grandissima forza ed è a fondamento delle riflessioni sulla sussidiarietà. La distinzione emerge nella riflessione di Antonio Rosmini e di Gioacchino Ventura, uomini che hanno inizialmente recepito alcune posizioni dell’intransigenza cattolica demestriana, ma poi, attraverso questa esperienza, giungono all’intuizione dell’esistenza di una società civile nella quale è radicata la vita religiosa e le libere manifestazioni degli uomini che lo Stato non rappresenta compiutamente. Lo Stato non può, dunque, essere l’unica espressione costituzionale della società civile nel suo complesso. Si tratta di un’intuizione che attraversa tutta la storia del cattolicesimo politico fino a noi e che ha avuto in Sturzo una delle punte più alte. Nella concezione liberale, anche cavouriana, lo Stato era invece l’unica espressione giuridica della società civile. Il suo superamento sul terreno del pensiero giuridico e sul piano politico ha portato all’affermazione, nella nostra Costituzione del primo comma del famoso articolo sette: «Lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani». Un’affermazione simile sarebbe stata inconcepibile nella cultura liberale ottocentesca, per la quale solo lo Stato era espressione legittima, istituzionale della società civile. Queste sono alcune delle grandi intuizioni che il cattolicesimo liberale ha portato nel pensiero politico. Non sono però un’ideologia, una visione compiuta del mondo che interpreta il passato e, in qualche modo, offre gli strumenti per condizionare il futuro. Il cattolicesimo liberale nasce, invece, da esperienze spirituali, da un impegno sociale; è in se stesso un’espressione di libertà in movimento, in sviluppo, che non si fissa, non si irrigidisce in una formula ideologica.
Un’altra grande intuizione è consistita nel rifiuto della cultura della rivoluzione. Nel 1989, quando è crollato il muro di Berlino, la coincidenza tra il bicentenario della rivoluzione francese e il crollo del muro ha portato ad una contrapposizione, molto artificiale e poco fondata culturalmente, fra la «benefica» rivoluzione francese e la «malefica» rivoluzione sovietica che veniva a concludersi. La rivoluzione francese ha prodotto anche frutti positivi, non c’è dubbio, ma ha diffuso l’idea giacobina, tipica di alcune sue correnti, che la rivoluzione potesse essere il momento risolutivo attraverso il quale l’uomo attingeva al regno della libertà e della giustizia una volta per tutte, così come Rousseau l’aveva teorizzato. La concezione che il male è nella società è stata poi ripresa da Marx; se il male è fuori di noi, con un atto rivoluzionario si può una volta per tutte eliminarlo e liberare l’uomo da ogni condizionamento negativo. Viceversa, la tradizione liberal–democratica, anglosassone nelle sue origini, che ha radici ebraico–cristiane, individua il male nella coscienza dell’uomo. Il racconto della Genesi fonda la concezione liberale del potere, rilevando perché l’uomo è esposto alla tentazione dell’uso distorto del potere. Quindi nella visione liberale il potere va delimitato e sottoposto al controllo; tutta la grande tradizione liberal–democratica è legata, nelle sue radici, al pensiero biblico, che è alternativo alla cultura della rivoluzione. La tradizione cattolico–democratica è dentro questo filone, lo ha arricchito e gli ha dato corpo.
Dobbiamo ora dedicare qualche passaggio alla vicenda che il nostro paese ha vissuto, a come questa tradizione si sia espressa nella storia del nostro Stato, iniziando con l’esperienza sturziana del primo dopoguerra con il Partito Popolare. Recentemente ho svolto una ricerca nell’«Archivio Sturzo» conservato a Roma presso l’Istituto Sturzo e ho dovuto rivedere alcuni schemi che avevo in testa. Sturzo arriva a Londra nell’ottobre del ‘24 ed è uno sconfitto: il suo disegno è stato sconfitto dal fascismo, da Mussolini, ma anche e soprattutto nella Chiesa. La sua intuizione, che emerge da tutti i discorsi precedenti, era quella che il partito, lo strumento politico, potesse essere anche strumento efficace di riforma religiosa. La mobilitazione del mondo contadino del sud era vista da Sturzo, già agli inizi del secolo, come lo strumento per spezzare la logica dei legami fra il notabilato locale e una Chiesa meridionale che non aveva attuato la riforma tridentina. Questa idea di partito, elaborata da Sturzo, diventa nel primo dopoguerra la proposta del Partito Popolare, ossia l’aggregazione dei ceti contadini per un’azione politica che ha anche una valenza religiosa. L’operazione è battuta dal fascismo e rifiutata dalla Chiesa. Sturzo affronta un esilio che dura dal ’24 al ’46, e il suo ritorno in Italia viene ritardato per desiderio espressogli da Giambattista Montini, in quanto si temeva la sua presenza nel momento del referendum monarchia–repubblica, perché il suo acceso repubblicanesimo avrebbe spezzato il disegno degasperiano di tenere uniti i cattolici, affidando la scelta al referendum. Sfogliando centinaia e centinaia di sue lettere con corrispondenti americani e, soprattutto, con il mondo culturale francese e inglese, ho verificato come nei 22 anni di esilio Sturzo abbia maturato riflessioni originali, che sono state per me una vera scoperta. Sturzo capisce che non si può fondare la democrazia se non c’è una coscienza religiosa riformata, adeguata all’assunzione delle responsabilità che la democrazia comporta. La democrazia non è un fatto puramente tecnico, non è un gioco, ma un fatto di cultura, di mentalità, la capacità di farsi carico dei problemi degli altri. Presuppone un alto senso della cittadinanza, dei doveri come dei diritti, che si sviluppa anche da un’esperienza religiosa. Sulla base di questa intuizione, Sturzo viene recuperando esplicitamente tutti i cattolici–liberali dell’Ottocento. Chiede ai suoi amici di inviargli libri di Ventura, di Rosmini, recupera l’esperienza modernista e intrattiene rapporti con uomini come Angelo Crespi. Il nesso fondamentale della sua riflessione è il rapporto tra rinnovamento politico e religioso, che è poi lo stesso itinerario di Dossetti.
De Gasperi nel secondo dopoguerra riesce dove Sturzo è stato sconfitto, ossia riesce ad ottenere il consenso della Chiesa alla rinascente democrazia italiana, consenso che poi è stato fondamentale per far fronte alla minaccia comunista. Sono infatti storicamente convinto che una minaccia comunista alla democrazia italiana ci sia stata negli anni del dopoguerra; se il 18 aprile del ’48 avessero vinto i comunisti, probabilmente l’Italia avrebbe conosciuto l’esperienza di una guerra civile. De Gasperi compie questa grande operazione e poi avvia una politica che, pur escludendo i comunisti dal governo, li mantiene nell’area della Costituzione, ma non in quella del governo (è l’espressione che Togliatti usò quando uscì dal colloquio del maggio del ’47 con De Gasperi). Questa grande operazione ha portato risultati benefici al Paese, ha garantito la base di consenso democratico per uno sviluppo economico straordinario e ha obbligato i comunisti a fare i conti, fino in fondo, con la democrazia. Sicché oggi siamo al paradosso che il partito che ha fatto le scelte giuste allora (l’occidente, l’economia di mercato, la democrazia) è scomparso e si è frantumato in una miriade di piccole sigle che si fa fatica a ricordare, mentre governano il Paese, con senso di responsabilità (rispetto del Patto Atlantico nella guerra con la ex–Jugoslavia, privatizzazioni, adesione alle leggi di mercato), gli eredi del comunismo, che è stato superato in Europa.
Perché questo paradosso? Cos’è successo? Credo che la decadenza cominci nel ’74, con un evento che non si ama ricordare negli ambienti cattolici: il referendum sul divorzio, nel momento in cui la Democrazia Cristiana rifiutò una soluzione politica del problema. Il referendum fu fortemente voluto dal segretario della Democrazia Cristiana di allora, Fanfani, mentre il Vaticano fu convinto, fu spinto a credere che si sarebbe vinto e che fosse l’unico mezzo per rispondere alla realtà della secolarizzazione. Su questo punto la verità storica è evidente, innegabile. Si è combattuto per 20–30 anni il comunismo con armature pesanti perché era lo scontro delle ideologie, ma intanto il nemico vero giungeva alle spalle con passi felpati sotto forma di mentalità consumista, che ha corroso gli animi. Pasolini lo aveva ben compreso quando scrisse il famoso articolo sul Corriere della Sera sulla scomparsa delle lucciole dalle campagne, perché le acque sono inquinate dalle industrie e il mutamento ha un carattere epocale. Pasolini intuì che l’Italia stava cambiando, al di là dello scontro politico di vertice, che faceva notizia sui giornali, ma non rappresentava la realtà profonda del Paese.
De Gasperi non avrebbe mai accettato di fare un referendum su un tema tale da spaccare laici contro cattolici, avrebbe certamente favorito una soluzione di mediazione. Pochi anni dopo il no all’abrogazione alla legge sul divorzio, vi fu un altro referendum dagli esiti inaspettati, quello sull’aborto, molto più impegnativo per la coscienza cristiana: quasi il 70% dei voti a favore del mantenimento della legge. Il Paese era secolarizzato, profondamente cambiato, ma la DC non ha capito questi processi, non li ha guidati e, in qualche modo, ne viene travolta. Da qui in poi cominciano gli anni della crisi, con il tentativo di Zaccagnini di confronto e rinnovamento che non ha avuto uno sviluppo futuro. Poi è venuta un’epoca nuova, in cui i piccoli partiti, e in particolare il partito di Craxi, hanno esercitato quello che i politologi chiamano il potere di coalizione, ma che più volgarmente si può chiamare il potere di ricatto: essendo al centro dello schieramento e minacciando di spostarsi da una parte o dall’altra, i socialisti hanno svolto un ruolo di gran lunga più pesante di quanto non comportasse il loro consenso elettorale. Ecco che la via del rinnovamento esce dal sistema e va su di un binario esterno al sistema dei partiti. La protesta leghista è stata l’elemento scatenante della crisi del sistema politico che inizia alla fine degli anni ’80 e ha nel ’92 il momento clamoroso del terremoto elettorale con lo sfondamento della Lega nel nord Italia, l’iniziativa della magistratura e il referendum elettorale. Sono tutte iniziative legali, ma esterne al sistema dei partiti, che dimostrano la loro incapacità di auto–riforma.
La querelle attuale Berlusconi–dirigenti dei DS per l’accusa di complotto e di mandanti è, dal punto di vista dei dati storici, completamente sbagliata, perché non è affatto vero che la magistratura si è mossa quando Berlusconi è sceso in campo. La magistratura aveva iniziato le indagini sulla corruzione del sistema politico prima, quando il quadro politico con le sue crepe, con le sue debolezze, con le sue incertezze ha fatto cadere quel principio di remora, di auto–limite, che per molto tempo le Procure italiane si erano imposte. Infatti, tranne casi eccezionali di magistrati che si sono mossi a prescindere da qualunque pressione politica, le Procure italiane per molto tempo non hanno osato mettere sotto accusa ministri, anche se si sapeva che c’erano situazioni non legali, anteriori, di molto, alla scesa in campo di Berlusconi.
Negli anni ’70 avviene dunque la degenerazione del centro–sinistra e si apre una fase di decadimento che sfocia nella grande crisi morale degli anni ’80. Ad un certo momento la protesta leghista, l’iniziativa referendaria, la sensazione che il potere tradizionale si stia sfaldando, dà una scossa tale per cui le Procure riprendono la loro iniziativa e comincia l’opera di moralizzazione. Per questo vanno ringraziate, se ci possono essere stati eccessi di singoli magistrati nei toni, nella forma; visto in un quadro generale, è il momento in cui il Paese ritrova il senso di una legalità perduta.
Berlusconi scende in campo due anni dopo il «caso Chiesa» del febbraio ’92 perché non ha più la protezione politica di cui aveva goduto negli anni precedenti. Quindi, l’idea che l’iniziativa della magistratura sia in risposta alla scesa in campo di Berlusconi nell’agone politico, è semplicemente priva di riscontro nella realtà. Io sono sorpreso del fatto che la sinistra, invece di sporgere querele o fare richieste di risarcimento danni, non aiuti la gente a capire, a sapere, a rivedere le cose nella loro realtà che è molto più semplice di quanto non appaia.
Dunque la crisi, il crollo del sistema politico, il referendum elettorale, hanno portato all’abbandono del sistema proporzionale, anche se in forme incompiute. Il bipolarismo non è un’invenzione o una mania dei politologi o di qualche storico appassionato – come il sottoscritto – del sistema britannico, ma è il portato naturale dello sviluppo della democrazia. Infatti, solo con un sistema bipolare, in cui uno perde e uno vince, i cittadini possono essere arbitri della decisione, mentre, con un sistema tri o quadri– polare, non si può fare maggioranza, ma solo delegare. Se si vuol passare dal regime della delega partitica a quello della decisione nelle mani dei cittadini, come avviene con forme diverse in tutte le democrazie moderne, si deve scegliere il bipolarismo. Quando la democrazia italiana ha percorso tutto l’arco del suo sviluppo, non c’è altro ulteriore sviluppo possibile se non quello del passaggio a un sistema di democrazia compiuta bipolare, in cui vi è la possibilità di alternanza.
Questo passaggio ha creato e crea tuttora per la presenza cattolica espressa dalla Democrazia Cristiana una difficoltà drammatica. Perché la DC italiana, per la sua storia, per il ruolo che aveva svolto già in quarant’anni di storia italiana, non ha potuto allinearsi al modello tedesco, non ha potuto diventare essa stessa nel suo insieme il polo moderato di un sistema bipolare. Da De Gasperi a Moro, fino a Zaccagnini e agli anni della solidarietà nazionale, la DC aveva svolto un ruolo paradossale, ma congeniale alla situazione storica del Paese; aveva raccolto voti moderati e li aveva spesi in senso moderatamente progressista. Aveva condotto un’operazione di alto trasformismo, nel senso positivo del termine, come l’aveva fatta Cavour ai suoi tempi. È evidente che, quando si va ad un sistema bipolare, la possibilità di far stare insieme un corpo moderato con un’anima progressista non c’è più. Il corpo si è staccato dall’anima e la maggior parte del corpo, non tutto fortunatamente, è andato verso destra. La maggior parte dell’elettorato democristiano vota oggi Forza Italia e soltanto una parte si è riconosciuta nell’anima della tradizione del partito. La Conferenza Episcopale Italiana ha capito in ritardo l’evoluzione della politica italiana e si è illusa di poter salvare, in un sistema bipolare, l’unità politica dei cattolici. Se leggete il libro di Gabriele De Rosa La transizione infinita, vedete lì le tracce di pressioni e sollecitazioni che venivano e di cui probabilmente Buttiglione fu il portatore quando diventò per un certo periodo il segretario del partito.
Siamo ancora nella transizione, ma cosa c’è all’indomani di questa transizione? C’è un Paese – ci auguriamo – con una democrazia compiuta e un sistema elettorale, che dia un giusto equilibrio tra esigenze di rappresentanza che devono essere salvaguardate ed esigenze di decisionalità del sistema che sono altrettanto importanti. I cattolici saranno necessariamente in uno e nell’altro dei due schieramenti, come avviene in tutte le democrazie del mondo. I cattolici che si collocano sul versante cosiddetto progressista, di centro–sinistra, hanno alle spalle una grande tradizione culturale, che è la tradizione del cattolicesimo – democratico.
Qui nasce la domanda: è necessario che si presentino con la fisionomia di un partito politico, o possono essere presenti in questo schieramento come elemento vivificatore, come anima in qualche modo sul piano culturale, sul piano delle idee? Si tratta della scelta di fronte alla quale si trovano oggi i popolari ed io capisco il loro disagio, le loro difficoltà. La mia personale convinzione è che la forma partito, così come l’abbiamo ereditata dal passato, non sia più proponibile, non sia più lo strumento idoneo per salvaguardare quei valori, quelle tradizioni. Sono convinto che siamo giunti ad un punto e ad un momento in cui la tradizione cattolico–democratica – intesa nel senso alto, forte, che ho cercato di spiegare – si esprime meglio in un’aggregazione in cui il nome «cattolico», il nome «cristiano», diminuisce e aumenta, invece, la forza della cultura d’ispirazione cattolico–democratica, delle idee, della proposta politica, della capacità di incidere sui lineamenti programmatici. Stiamo uscendo da quella situazione storica che Gramsci descrive in una pagina famosa dei suoi quaderni, quando dice che con la rivoluzione francese la Chiesa è diventata parte e che il partito cattolico nasce appunto dalla condizione nuova in cui la Chiesa è parte della società. Oggi la Chiesa non è più parte, perché tutte le religioni secolari sono tutte fallite e le ideologie sono crollate. La Chiesa è con tutti gli uomini di buona volontà, è – in un certo senso – una grande agenzia morale, chiamata a dare un contributo alla ricostituzione del tessuto etico del Paese che fonda la cittadinanza e la democrazia. Il partito è uno strumento che appartiene ad una situazione storica che non è più quella odierna. I partiti devono ridefinire la loro forma, le loro strutture; questa è la sfida al di là della quale non c’è la rinuncia ai propri valori e alla propria identità, ma il coraggio di accettare l’idea che si possa svolgere una grande funzione con strumenti diversi. La sostanza della sfida è di saper distinguere i contenuti veri, profondi, radicati nella storia, dalle forme in cui si esprimono, che sono poi sempre legate ad interessi di individui, a giochi di posti, a distribuzione di poltrone, cose che non hanno molto a che fare con la salvaguardia di una grande tradizione di cultura politica. Penso che questo il dibattito oggi debba essere portato avanti serenamente, non in termini di bassa polemica, consapevoli della grande responsabilità morale di far sì che la grande eredità di cui abbiamo parlato non vada perduta, ma sia ancora lievito ed elemento di crescita della società italiana negli anni futuri.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 3.12.1999 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.