Il desiderio di interpretare il senso del mondo moderno appartiene al pensiero uscito dal medesimo mondo moderno. Basterebbe riandare al simbolico fascicoletto nel quale Kant rispondeva alla domanda “Che cosa è l’illuminismo?”[2]. È nota la vicenda che aveva provocato la breve riflessione di Kant. Anche allora si trattava di ‘pastori’ (Johann Friedrich Zöllner e Johann Heinrich Schulz) che ritenevano di poter esprimere le loro private opinioni in nome della ragione, quando non stavano svolgendo il loro compito. Al di là della vicenda, si poneva il problema circa il senso della modernità: raggiungimento dell’età adulta[3] – come Dietrich Bonhoeffer, raccogliendo la descrizione kantiana, scriverà nella sua lettera all’amico Eberhard Bethge il 16 luglio 1944[4] – oppure sganciamento da ogni ormeggio per affrontare il mare aperto[5], svincolati da ogni autorità esterna, affermazione della propria autonomia – come Kant sottolineava nel citato scritto? Resta innegabile che il mondo moderno ha posto anche alla Chiesa la necessità di prendere posizione. Se si vuol dare un qualche valore all’iter di preparazione al concilio Vaticano I – i documenti preparati per la discussione avevano come base il Sillabo – si dovrebbe dire che l’atteggiamento ufficiale della Chiesa era quello di un rifiuto totale: dal protestantesimo, con l’affermazione della lettura della Scrittura senza la guida del Magistero, sarebbe sorto il dubbio metodico di Cartesio, da cui si sarebbe poi sviluppata l’autonomia del soggetto[6]. Il processo che da parte ecclesiastica si denunciava non era che di decadenza: abbandonato il principio di autorità si era smarrita anche la verità. Non si deve certo accentuare la visione di Giuseppe Pecci – fratello del futuro Leone XIII – e del suo Votum per il Vaticano I. Tuttavia il clima che si respirava durante tutto il secolo XIX era quello della difesa nei confronti di un mondo diventato ostile alla Chiesa e al cristianesimo – identificato con la Chiesa, secondo i canoni ormai classici dell’apologetica – e nei confronti del quale si doveva riaffermare la verità ribadendo il principio di autorità. Il clima – non il senso della definizione – nel quale si definì e si interpretò il primato e l’infallibilità pontifici era questo. E neppure Leone XIII, che, abbandonata la via della polemica per assumere quella propositiva della riforma culturale e sociale, si mostrava più aperto alle sfide del tempo dava un giudizio più favorevole della cultura che si era gradualmente imposta. Il problema era cruciale: l’interpretazione del mondo moderno determinava la scelta delle strategie della missione della Chiesa.
Quando Bevilacqua scrive per Humanitas[7] i saggi raccolti nel volume Equivoci. Mondo moderno e Cristo[8] si era ormai lontani dalle contrapposizioni, ma era diventato più chiaro cosa del mondo moderno si era rivelato mortifero: le due guerre mondiali, il nazismo, il fascismo e il comunismo erano esperienze che mostravano le conseguenze nefaste di una cultura che aveva voluto fare a meno di Dio e aveva divinizzato lo Stato, una persona, una classe. Certo il mondo moderno non poteva essere letto solo a partire da questi estremi. E Bevilacqua tiene a sottolinearlo: non si può applicare, in forma assoluta, al mondo moderno il significato che nel Vangelo di Giovanni si attribuisce a ‘mondo’ quando Gesù dichiara che non prega per il mondo (Gv 17, 9). Padre Giulio lo annota espressamente, prendendo le distanze da F. Mauriac: «non si può costringere il termine: mondo moderno nella camicia di forza di quest’ultimo inesorabile verdetto di Cristo» (p. 17); «Non è giustizia verso Dio né verso l’uomo identificare il mondo moderno con quel mondo per il quale il divino Orante non prega» (p. 21).
Nei confronti di questo mondo, nonostante tutti gli ‘equivoci’ che esso presenta, il cristiano deve assumere l’atteggiamento del Padre della parabola di Lc 15: come «il divino avvicina l’umano, così il cristiano dovrebbe accostarsi al mondo moderno che sta forse vivendo l’epilogo della più disperata esperienza» (p. 20)[9]. Ciò sta a significare che non si possono prendere le distanze dal mondo moderno come se esso fosse semplicemente un nemico o una realtà di cui non tenere conto.
Neppure tuttavia un abbraccio che superi il fossato – che effettivamente esiste – e faccia inghiottire il cristianesimo nelle insidie presenti nel mondo moderno: con il reale la Chiesa si è sempre confrontata, ha cercato di penetrarvi per battezzare energie nuove, senza rifiutare le tensioni. Del resto, le tensioni costringono la Chiesa a uscire dalle sue passività e dalla sua inerzia. «Quindi non contorsioni intellettuali, non taciti accordi ottenuti a prezzo di minimizzazioni e di capitolazioni interiori; la ricchezza umano-divina del Cristianesimo non permette di mendicare conciliazioni e concordismi anacronistici e ridicoli» (p. 27).
Il rapporto tra cristianesimo e mondo moderno è complesso e non si possono percorrere vie semplicistiche per svilupparlo: sarebbe compromettere sia il mondo divino sia il mondo moderno. Soprattutto, una soluzione unilaterale o semplicistica «suscita vere angosce in spiriti aristocratici i quali, dalla loro stessa profonda aderenza al Vangelo, traggono un senso di lacerazione tra l’amore alla Chiesa e l’amore dell’uomo, tra la fedeltà al cielo e la dignitosa e doverosa assunzione di tutte le responsabilità della terra» (p. 27s). Gli accenti teilhardiani[10] – riscontrabili anche altre volte[11]: cfr. p. 160 – dell’ultima espressione sono chiari. Ma probabilmente Teilhard de Chardin è stato solo tramite per una riaffermazione, con espressione fascinosa, di una convinzione costante di Bevilacqua: Gesù Cristo, nella sua condizione umano-divina è il paradigma di lettura della realtà del cristianesimo come della identità, e quindi del modo di essere, di ogni cristiano. Coerentemente, non ha senso contrapporre divino e umano come se fossero alternativi.
Sullo sfondo si intravede la cristologia patristica, in particolare quella di Calcedonia come riletta da Massimo il Confessore e poi dal concilio Costantinopolitano III, secondo cui proprio l’incarnazione ha elevato al massimo l’umanità[12].
Si coglie questo riferimento a volte in forma larvata, altre volte in forma esplicita, come quando, ad esempio, parlando della libertà che il cristianesimo rende possibile, in raffronto con il Buddhismo, Bevilacqua scrive: «l’Uomo-Dio, che non ha scelto tra due nature, non solo ammette, ma sveglia, nei suoi testi, la fierezza di uomo, e li invita a salire a Dio senza che la peculiarità del loro io abbia a subire eclissi» (p. 109).
La conseguenza che l’Autore ricava da tale cristologia non si pone solo a livello ontologico, ma pure esistenziale: l’umano di cui si parla è l’insieme delle caratteristiche della persona umana, al cui vertice sta appunto la libertà, che coincide con la capacità di autodeterminarsi. Per questo, nei confronti del mondo moderno, che ha voluto affermare la maggiore età dell’uomo, il cristiano non può che gioire. «Figli di una verità che ci ha fatto liberi perché non abbiamo salutato con gioia questo uomo del secolo XX che rifiuta di restare un eterno minorenne per assumere la totalità delle sue funzioni attive con tutte le responsabilità e i rischi inerenti?» (p. 29). Peraltro, voler ricondurre l’uomo contemporaneo a una condizione di minorenne sarebbe tatticamente sbagliato per chi voglia fargli giungere il Vangelo. A questo fatto dovrebbero prestare attenzione i preti, in particolare quelli che ritengono di assumere forme di vita ‘moderne’: «il prete operaio, il prete regista, peggio ancora: il prete fatto trafficante col capitalismo sia pure per le grandi imprese della superbeneficenza, non commuove un mondo scanzonato e deciso a non voler essere trattato da minorenne o da minorato» (p. 100).
Certo, l’umano come si è storicamente affermato porta con sé degli equivoci, ma non si può non vedere che in esso vi sono disseminati a piene mani valori divini, tra i quali occupano il primo posto la fame e la sete di giustizia. Non si può allora accettare la posizione ‘escatologista’ – che Bevilacqua attinge da Esprit, la Rivista sulla quale tale visione era illustrata – secondo cui sarebbe impresa folle voler incarnare il messaggio cristiano nelle istituzioni temporali, perché il cristianesimo attenderebbe l’uomo al termine della sua più grande felicità per consolarlo dell’ingiustizia[13]. Il ‘no!’ di Bevilacqua non potrebbe essere più deciso, in nome del Vangelo e più radicalmente dell’incarnazione. Il cristiano deve essere presente al mondo contemporaneo, dovunque, in una forma libera e liberatrice, naturale e diretta, senza pentimenti e senza secondi fini, ma soprattutto vitale, cioè senza soggiogamenti di alcun genere, lontano da ogni determinismo. Questo peraltro è ormai assente anche dalla scienza, che si presenta consapevole dei suoi limiti e quindi evidenzia un’apertura al mistero, in tal senso religiosa.
In somma, la distanza tra mondo moderno e cristianesimo è oggi minore rispetto a un secolo fa: i due mondi stanno maturando la «convinzione che l’uno non può fare a meno dell’altro senza sacrificare se stesso, in un sacrificio che non ha senso e che non ammette compensi. Sono due mondi chiamati a comprendersi e a cercarsi, non per abdicare ma per affermarsi, ciascuno nell’essere proprio: il mondo cristiano orientato all’avvento del Figlio dell’uomo, ma consapevole che all’eterno non si arriva con successive evasioni dall’attuale perché solo scendendo nella profondità del presente si scopre l’eterno e si capisce il bisogno di dirigersi al divino; il mondo moderno – orientato ai fini della città terrena, senza pretese di sacrificare il domani eterno all’oggi, senza assurdi agnosticismi che vorrebbero ignorare l’avventura divina per la quale l’uomo vive, respira, si muove» (p. 36).
Non c’è quindi spazio per una visione secondo la quale il mondo moderno segnerebbe un decadimento rispetto al mondo passato: non è mai esistito il mondo in cui la fede costituiva il tessuto connettivo della società. Se così fosse stato, come sarebbe potuto accadere il decadimento? La connotazione di un’epoca come cristiana è solo opera di giudizi frettolosi: il mondo attuale, nelle varie forme di agnosticismo e di ateismo, che vanno rilevate e denunciate, viene da lontano e alla nascita di esso hanno contribuito anche i cristiani: «Il senza Dio che urla sulla strada non è che il figlio del preteso cristiano che ancora ieri biascicava le sue formule standardizzate in templi conformisti e svuotati della logica del Dio vivo e vero. La frenetica negazione di oggi è stata generata dalla indigente affermazione di ieri» (p. 40). L’ateismo ha certamente radici filosofiche e scientifiche (le une e le altre hanno condotto a percepire solo quantità, anziché qualità, e ciò ha prodotto prima la spersonalizzazione di Dio, poi quella dell’uomo e del popolo: p. 187), ma «il vero semenzaio degli ateismi più profondi e più armati è sempre stata, in ogni tempo, ogni religione impoverita, deformata, piegata al servizio della terra» (p. 44), e un cristianesimo che ha smarrito il senso dell’assoluta centralità di Dio e di Cristo è la culla dell’ateismo moderno. In molte circostanze, in effetti, il Dio rifiutato non è il Dio vivente, bensì il Dio senza mistero. Sicché «la patente di cristianesimo conferita pacificamente a certe epoche precedenti non vale molto di più dei certificati rilasciati dalla burocrazia ecclesiastica a gente che ha ormai rinnegato, nel pensiero come nella vita, la grande paternità di Dio come la conseguente fraternità tra tutti gli uomini» (p. 41). Coerentemente, i cristiani che intendono organizzarsi contro un nemico esterno, dovrebbero accorgersi che l’assedio è prima di tutto interno. Sì, perché le cause che hanno generato l’ateismo non sono ancora scomparse dal cristianesimo: quando si presenta un Dio troppo piccolo, funzionale ad obiettivi di conservazione del proprio mondo, si continua ad alimentare la negazione di Dio; e ciò non negli spiriti meschini, bensì nei grandi spiriti. Quando si dimentica l’audacia inscritta nel Vangelo, facendo passare l’idea che i cristiani sono dei pavidi, confondendo prudenza con paura, con lentezza che tocca i limiti dell’inerzia, divulgando la filosofia dell’abdicazione e la teologia del calcolo, generando «non degli umili, dei deboli (che il tempio di Dio si gloria di accogliere tra le sue pareti), ma degli evasi dall’impegno battesimale» (p. 78), allora si contribuisce a far nascere l’ateismo. Gli uomini, infatti, sono alla ricerca di un Dio grande, stante il fatto della nativa dimensione religiosa dell’uomo, e colui che pensa non può fare a meno di stabilire relazioni con l’Assoluto (p. 58).
Perfino il comunismo, in contraddizione con il suo materialismo di base, tende all’assoluto, all’universale, all’eterno. In effetti è un messianismo che si presenta con caratteri prima religiosi che politici, nonostante porti in sé tutte le indeterminatezze dell’anima slava (cfr. p. 71).
Prima di condannare il comunismo ci si dovrebbe pertanto domandare se all’origine del suo diffondersi non vi sia una responsabilità dei cristiani; in verità, si deve constatare che «è venuta meno, in troppi cristiani del ventesimo secolo, quella fame e sete di giustizia che porta alla beatitudine anche su la terra e che costituisce un segno distintivo di effettiva appartenenza a Cristo» (p. 155).
Ci si dovrebbe altresì domandare perché i cristiani si siano lasciati ‘rubare’ la tensione verso il futuro, che per essi è il Regno di Dio. È tale tensione che connota in generale il mondo moderno e ciò fa sperare che stia diventando cristiano: «il mondo attuale non è un mondo che si scristianizza ma, forse, un mondo che, per le vie più dolorose e misteriose sta diventando cristiano prendendo coscienza che il passato e il presente non assumono le loro vere proporzioni ed il loro valore che nell’avvenire e nell’eterno» (p. 18).
Nessun pessimismo quindi; anzi proprio «le esperienze atroci di questo mondo senza Dio faranno forse riscoprire lo sterminato amore e le invincibili energie di Colui che ha pronunciato il più profondo e disinteressato: “misereor super turbam» (p. 164). La fiducia e la speranza – e con esse la pazienza, che è «forza diritta, immune da dispersioni fatali e da pessimismi» (p. 161), «agire cauto e continuo sotto la pressione della più grande inquietudine» (p. 162) – sono gli atteggiamenti con i quali il cristiano legge il mondo moderno e vi opera.
Si potrà perfino vedere in questo mondo uno stimolo ai cristiani affinché non perdano la tensione inscritta nella loro religione, che non può essere livellata alla condizione di religione statica, per usare la distinzione mutuata da Bergson[14], una religione cioè che diventa affare privato o semplice ripetizione del passato, alimentando un atteggiamento di rinuncia nei confronti degli avvenimenti, anzi giungendo a coprirli con termini che ne nascondono la vera identità: ad es. «autorità la dittatura, prudenza ogni codardo silenzio su la violazione di ogni diritto di Dio e dell’uomo; […] cattolica una scuola che aveva Gentile per Filosofo, D’Annunzio per eroe, un maestro di ginnastica o un corridore per despota» (p. 8-9). La religione vera, il Cristianesimo, invece è azione, vita, audacia. Su questo terreno si deve portare il confronto con i fenomeni del mondo moderno, anche con il comunismo. E il cristiano sa di uscire vincitore nel confronto: «la sua è l’audacia della mente e del cuore. L’audacia dell’ateismo è agitata e conosce tutte le febbri e le convulsioni della fretta – l’audacia del credente possiede ordinariamente il ritmo dei grandi fiumi che procedono con regale lentezza perché sono sicuri di arrivare al loro oceano» (p. 77).
Da qui si delinea il compito dei cristiani: difendere i diritti di Dio, cosa che coincide con il difendere i diritti dell’uomo. Sì, perché uccidere Dio significa uccidere l’uomo. Ancora una volta si profila il paradigma cristologico: chi ha voluto uccidere Dio per divinizzare l’uomo, alla fine dovrà constatare che è stato l’uomo a morire.
A questo riguardo Bevilacqua prende a prestito da André Malraux la valutazione: dopo che Nietzsche intonò il ritornello Dio è morto, «ciascuno comprese che la morte della divinità significava la liberazione e la deificazione dell’uomo. L’interrogativo che si impone ora a tutti noi, in questa vecchia terra europea, è se sia morto, non Dio, ma l’uomo» (p. 67). In effetti, annota Bevilacqua, «dove Dio è negato e crocifisso, è negata e crocifissa la Sua immagine misteriosa ma reale: l’uomo» (p. 74).
Quel che vale per Dio vale a maggior ragione per Cristo, che è il paradigma dell’uomo: lo si annota, pur en passant, nel saggio relativo al prete oggetto di contestazione; difendendo il clero ne richiama la capacità unica di amore e di sacrificio, «anche se prima ha rinnegato tre volte Cristo e tre volte l’uomo» (p. 98). C’è, come in dissolvenza, una ‘sovrapposizione’ tra Cristo e l’uomo, sicché negare l’uno è negare l’altro, rispettivamente, lasciare posto a Cristo vuol dire far vivere l’uomo.
Ciò va affermato a fronte di ogni tipo di antropocentrismo, il quale non è che illusione. L’antidoto nei confronti di questo è la liturgia[15] per il fatto che essa pone Dio al centro, condizione affinché la cultura resti ciò che deve essere, la custodia dell’uomo. Sì, perché «senza Dio la cultura è diventata falsa liberazione, dispersione della sostanza umana. Civiltà senza metafisica, cioè senza base e senza visione chiara e precisa della sua finalità. La cultura è precipitata nella tecnica, nel materiale, nel meccanico, asservita al lucro miope o rozzo che ha fatto, della maggior parte degli uomini, macchine complicate ma senza percezione e sensibilità umana» (p. 136). La liturgia ha valore performativo: «ha dato ai popoli più senso umanistico che non tutte le accademie ed i cenacoli intellettuali; perché le aristocrazie sono vitalità stanche, chiuse e quindi diminuite, mentre il popolo, vivendo più in diretto contatto con gli elementi primordiali dell’esistenza, capisce ed ama un linguaggio che lo riveste di dignità divina attraverso tutto un ritmo di gesti, di colori, di stagioni, assimilanti e spiritualizzanti tutti i flussi e riflussi della natura e della vita» (p. 136).
Ma affinché la liturgia attui ciò che le è proprio, ha bisogno di essere rinnovata: «la decadenza liturgica, creando una religione libresca, ha tolto al cristianesimo quel senso di scoperta gioiosa, di realtà nuova e meravigliosa che la liturgia sa conservare in pieno» (p. 137). In una liturgia rinnovata si realizza l’aspirazione di ogni persona umana all’incontro con Dio, perché «l’uomo è animale orante: cessa di essere uomo […] se cessa di pregare» (p. 119), e la preghiera è la fonte di vita della Chiesa e quindi la misura «della sua statura reale, della sua capacità di inserire il tempo nell’eterno, l’umano nel divino» (p. 120). Essa è, infatti, «via al Padre, segnata e difesa nei suoi stessi elementi essenziali dallo Spirito che regge la Chiesa – disciplina del pensiero e del gesto che mette al riparo i rapporti con Dio dalla pericolosa indeterminatezza del sentimentalismo e della fantasia, affinché le mani non si illudano di stringere Dio quando invece non afferrano spasmodicamente che i vuoti del proprio io – ordine, verità, bellezza, gioia» (p. 124)[16]. Proprio per questo essa è come la custode dell’uomo: imprimendo su tutta la vita il sacro, crea «intorno all’uomo quell’atmosfera nella quale gli stessi sensi possono respirare ed assimilare il sole: Cristo» (p. 134); di più, sacrare significa «rendere inviolabili le persone e le cose nella loro costituzione essenziale, nel loro sviluppo» (p. 135).
Il cristianesimo nella sua identità più profonda, nella sua dottrina come nella sua liturgia, è dunque il vero custode dell’uomo.
Ciò va affermato a fronte del radicale equivoco del mondo moderno, che ha preso volto in due movimenti di primo acchito antitetici, ma nel fondo identici: il capitalismo e il comunismo. Dei due, ugualmente materialisti[17], ugualmente imperialisti (cfr. p. 200) e quindi da denunciare come illusorie vie alla liberazione dell’uomo[18], Bevilacqua, sebbene a volte denomini i due movimenti con la metafora ‘Erode e Pilato’[19], sembra rilevare le falsità soprattutto del primo. In rapporto al secondo, non certo come si è realizzato nei Paesi dell’Est – nei confronti del quale ha parole piuttosto pesanti[20] -, ma come viene delineato nel Manifesto del Partito Comunista[21], giunge perfino ad affermare che «dimostrerebbe carenza di senso critico e di lealtà chi non sapesse scoprire nella magna carta del comunismo innumeri valori cristiani, profonde ed autentiche esperienze sociali, ampli prospetti rivelatori del meccanismo economico contemporaneo e tutto un assieme non contestabile di giudizi di valore realisti ed umani» (p. 172).
Nei confronti del capitalismo, invece, i giudizi sono sempre taglienti, senza scampo; e sono in genere associati alla denuncia dei tentativi di minimizzare la parola di Cristo sul mondo della ricchezza. A fronte di tali tentativi va detto che «il capitalismo è l’ultima e più esasperata forma di quella totale prostrazione dell’uomo di fronte alla materia, considerata come prima ed unica fonte di creazione, di redenzione, di santificazione della vita umana» (p. 149). Non si possono quindi ‘addolcire’ le parole di Gesù; in esse si rivela «un vero processo […] allo spirito della ricchezza e quindi anche al capitalismo» (p. 153). Né si potrà sfuggire all’urgenza di tali parole dichiarando che il Cristianesimo propone soltanto valori morali e religiosi. È indiscutibile che sia così; ma il capovolgimento radicale di valori che il Cristianesimo propone «non può mancare di avere dirette ripercussioni sullo stesso ordine economico e sociale» (p. 156). E ciò nell’ordine dell’uguaglianza, come afferma san Paolo in 2Cor 8, 14: si faccia l’eguaglianza.
Il riferimento è usato alcune volte da Bevilacqua, certo senza la preoccupazione di esattezza esegetica. Questa non appartiene al suo intento: l’uso che egli fa della Scrittura è in genere immediato, funzionale alla tesi che vuol sostenere e che trova riscontro nei testi citati[22]. L’obiettivo è quello di far valere la parola della Scrittura come provocazione all’audacia, come sopra si diceva. E in questa si colloca anche l’impegno per giustizia, senza la quale non si può pensare si attui il Regno di Dio, nel quale tutti gli uomini possano sviluppare le loro virtualità.
Con accenti che risuoneranno alcuni decenni dopo nella Teologia della liberazione, Bevilacqua scrive: «Regno di Dio significa Dio in tutto ed in tutti, ma anche attualizzazione di tutte le nostre virtualità umane in un divino ed umano equilibrio nel quale tutti gli uomini possano arrivare alla loro pienezza per valori religiosi, spirituali, materiali, estetici, utilitarii» (p. 156).
Si constata qui, ancora una volta, che la tensione escatologica, che Bevilacqua vede tipica del Cristianesimo, non diventa fuga dal mondo; anzi, «per il cristiano la riorganizzazione del mondo attuale implica il destino eterno perché dalle sue opere, dalla sua fame e sete di giustizia, dal grado della sua collaborazione con l’ordine e il regno di Dio nel tempo, dipende la giustificazione o la condanna dell’eternità» (p. 161).
Certo, la sintonia che in questo si potrebbe notare con il comunismo è solo relativa alla tensione. Se questa presenta delle assonanze, il metodo per raggiungere il fine, la giustizia appunto, è radicalmente diverso: «la liberazione da ogni schiavitù, spirituale come sociale, non può provenire da una fatto esteriore come sarebbe una diversa distribuzione della ricchezza (che si può conciliare con mille nuove servitù per l’uomo), ma deriva da un fatto intimo, da un senso sintetico della vita, cioè dall’inserimento in ogni settore della vita nella verità assoluta e totale» (p. 158). Nessun processo meccanico porta alla giustizia: «l’ingiustizia non si elimina con uomini meccanizzati ma con uomini divinizzati» (p. 163), poiché la società nuova può venire solo da uomini nuovi. Solo tali uomini, generati dall’alto, nell’acqua e nello Spirito Santo, potrebbero permettere la realizzazione del comunismo; questo, infatti, «suppone il santo, e il santo non cresce che all’ombra di Cristo» (p. 182).
Ancora una volta Cristo appare come il ‘salvatore’ dell’uomo, a fronte dei miti che il secolo dell’analisi scientifica ha creato (interessante questa sottolineatura, che evidenzia il paradosso del mondo moderno: volendo liberarsi dai miti ha creato miti): togliendo concretezza al popolo e rendendolo astrazione, ha visto nello Stato l’incarnazione del medesimo popolo, e poi in un individuo l’incarnazione del popolo. «Così il passaggio dal popolo-astrazione al popolo-idolo e dal popolo-idolo al popolo-schiavo è passaggio logico, facile, rapido» (p. 188). Si trovano qui accenti simili a quelli rintracciabili in Guardini, in particolare nel saggio del 1946 Il Salvatore nel mito, nella Rivelazione e nella politica. Una riflessione politico-teologica[23]. E la salvezza che Cristo introduce, con il realismo che caratterizza la sua azione, diventa anche salvezza delle democrazie perché comporta «ridare a Dio, all’uomo, al popolo il suo proprio viso preciso e vivente»; non lasciare all’uomo il suo volto concreto, di carne, di luce, di fango e di grazia, per sostituirlo con razza, classe, nazione, è stato l’origine prima dell’apostasia dell’Europa e del massacro del mondo (p. 192). L’uomo, sempre l’uomo, ma nella concretezza della sua storica esistenza, è al centro della preoccupazione di Bevilacqua. E tutto ciò che nega, in qualsiasi forma, l’uomo, non può trovare legittimazione.
In questa luce si comprendono le pagine di condanna senza appello della guerra (pp. 193-215) nelle quali si mettono in discussione anche i tentativi di giustificazione addotti dai teologi, che pretendono di rifarsi all’autorità di san Tommaso o di sant’Agostino non tenendo conto che la guerra moderna è radicalmente diversa della guerra che i due illustri maestri prendevano in considerazione: «la guerra moderna è sacrificio totale, senza senso, senza vie di uscita: tutti i problemi umani si ripresentano dopo più aggrovigliati; le divisioni tra i popoli e tra classi divengono insanabili; né vinti, né vincitori, ma solo una umanità vinta e annientata» (p. 210). A fronte di questa constatazione, è giunta l’ora per la teologia di riconoscere che non ci sono ragioni per giustificare la guerra; la teologia non dovrebbe invece «individuare, smascherare, colpire tutte quelle forme mentali, quelle tacite acquiescenze, quelle attività criminose che preparano da lontano ma sicuramente le guerre»? (p. 210s.). La teologia non dovrebbe sentirsi impotente di fronte alla logica che giustifica la preparazione della guerra, se la sua base è una fede che muove le montagne; dovrebbe anzi «insorgere per smascherare tutti i lupi che preparano l’ultima guerra (!) per abolire la guerra» (p. 214). Non si dovrebbe poi dimenticare che «ai grandi crimini si arriva sempre per le piccole indulgenze; è la mancanza di fedeltà nel poco che ha creato quella mancanza di fedeltà nel tutto che è la guerra moderna» (p. 212). Né ci si può nascondere dietro l’affermazione che la guerra la decidono le autorità supreme e nei loro confronti i singoli non possono nulla: le coscienze individuali non possono più rifugiarsi sotto le pesanti responsabilità dello Stato; infatti, «nessuna guerra recente è stata scatenata senza una precedente mobilitazione delle coscienze; mobilitazione condotta senza scrupoli e con mezzi impotenti, mentendo, deformando, premendo, premiando, perseguitando» (p. 213). Di conseguenza, «oggi incombe all’individuo un dovere di controllo, di critica, di resistenza, di fronte allo Stato-mito che spinge l’arbitrio schiavista e omicida a forme impreviste dalla teologia e senza riscontri nella storia» (p. 213). Nessun individuo può rinunciare alla sua responsabilità: Cesare non può pretendere di diventare Dio. E compito della Chiesa nei confronti di Cesare è quello di far valere i diritti di Dio e quelli dell’uomo, pur senza pretendere di interferire direttamente nella organizzazione dello Stato. La sua voce dovrà però farsi sentire, in totale libertà – «La ingenua illusione di poter fiancheggiare regimi di prepotenza e di carnalità, per trarne qualche vantaggio immediato senza assumerne però le paurose responsabilità davanti a Dio e davanti ai popoli, dovrebbe essere crollata per sempre dopo esperienze recenti e dopo alcune esperienze in corso» (p. 254) -, per riaffermare il primato dell’uomo sullo Stato: «la Chiesa tradirebbe la sua continuità storica ed immediata con Cristo, se tacesse di fronte a nuovi dogmi dissacratori di anime e di civiltà; l’uomo non è fatto per lo Stato, ma lo Stato per l’uomo perché è l’uomo che dura nell’eterno, non lo Stato» (p. 254).
Per poter realizzare questo compito la Chiesa dovrà però mostrare che essa ha a cuore anzitutto di rendere presente Cristo alla totalità dell’esistenza e quindi minimizza progressivamente i rapporti con strutture transitorie, tra le quali si colloca anche lo Stato. Solo una Chiesa libera può essere in grado di affermare e difendere la libertà che Cristo ha procurato. Ma la Chiesa resterà libera solo approfondendo i suoi rapporti con Cristo. In tal modo «potrà compenetrare la vita totale senza precipitare né in abissi di assenza che costituirebbero vere e proprie diserzioni in faccia al nemico, né in atmosfere che illudano di poter salvare gli uomini con presenze che la discostano dalla sua natura e dalla sua finalità» (p. 256).
Parola vigorosa quella di Bevilacqua, espressione di un temperamento irruente, ma soprattutto di una passione attinta al rapporto col Cristo vivo celebrato nella liturgia. Dalla centralità di Cristo deriva una libertà di giudizio, che non teme di denunciare le mistificazioni ideologiche, da qualunque parte provengano, anche dai clericalismi e dai tatticismi ecclesiastici. Passione per l’uomo come Dio lo vuole, non homunculus, bensì grande, pur nelle sue fragilità che la compassione di Cristo riscatta e che la compassione della Chiesa dovrebbe aiutare a superare, per far vivere a tutti l’audacia e la vitalità che dal Vangelo la medesima Chiesa continuamente attinge.
[1] Testo predisposto dall’Autore. I contributi del convegno del 16.9.2005 verranno pubblicati nel volume degli atti a cura del Ce.Doc. e della Morcelliana.
[2] Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, in I. Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Bari-Roma 1991, pp. 3-12.
[3] «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui è egli stesso responsabile. Minorità è l’incapacità ad usare il proprio intelletto senza la guida di un altro» (Ivi, p. 5).
[4] Cfr. Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, pp. 437-440.
[5] Sono note le espressioni finali dell’aforisma 343 de La gaia scienza di F. Nietzsche: «In realtà, noi filosofi e “spiriti liberi” alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora […] finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele delle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio del’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse nonvi è ancora mai stato una mare così “aperto”» (ed. Oscar Mondadori, Milano 1979, p. 195).
[6] Si veda il Votum preparato da G. Pecci in H. Pottmeyer, Der Glaube vor dem Anspruch der Wissenschaft, Herder, Freiburg 1968, Dokumentenanhang pp. 3*-27*, dove, a proposito del razionalismo, si legge: «Reiecta auctoritate Ecclesiae quae sacrarum Scripturarum deposito et integritati earumque sensui ex divina institutione advigilaret, ratio cuiusque individui apud primos Protestantes erat tandem re et iure supremus iudex controversiarum circa sensum Scripturae et difficultates exegeticas quae oriuntur, et ipsam eius auctoritatem. Quodcirca in nova doctrina Rationalismus iam latebat tamquam basis et fundamentum totius aedificii; nec nisi tempore opus erat, ut extremae conclusiones deducerentur. Hanc deductionem plurimum auxiliata est doctrina Cartesii, qui methodum Protestantium in philosophiam invexit ; cum dubio inducto, et reiecta omni auctoritate humana statuit universale veritatis criterium esse evidentiam cuiusque individualem» (p. 13*).
[7] La rivista aveva iniziato le sue pubblicazioni il 1 gennaio 1946. Nelle parole di presentazione del Comitato direttivo si trovano espressioni che compaiono negli scritti di Bevilacqua: la rivista nasceva dalla «necessità […] di riaffermare la trascendenza e la personalità di Dio per salvare la dignità e il destino della persona umana, risultando fatale il passaggio dalla negazione di Dio alla negazione dell’uomo, convinti che non già celebrando orgogliosamente se stessi in ogni forma di immanentismo, ma adorando umilmente Iddio l’uomo si potenzia e si esalta» (cit. da A. Fappani, Padre Giulio Bevilacqua. Il cardinale-parroco, Queriniana, Brescia 1979, p. 254).
[8] Morcelliana, Brescia 1951. Fappani non teme di ritenere il volume «il punto di arrivo del suo [di Bevilacqua] travaglio intellettuale in sintesi con la sua passione pastorale» (op. cit., p. 255). Da parte sua M. Perrini ritiene questo scritto «forse l’apologia più bella del Cristianesimo scritta in questi ultimi vent’anni ed una delle pochissime opere di alto livello intelligibili anche al non credente che abbia forza ed onestà intellettuale» (L’anima contemporanea e Cristo: Equivoci e aspirazioni, in «Humanitas» 20[1965], p. 661).
[9] Già nella Prefazione del 1931 a K. Adam, Cristo nostro fratello, Bevilacqua scriveva: «Non si domina il proprio tempo che appartenendogli; non da schiavi, ma da fratelli e da figli di Dio; non subendone gli errori e le illusioni, ma avviluppandolo nel cuore di una simpatia tutta cristiana» (p. 199 dell’ed. del 1968).
[10] Cfr. Le milieu divin, Seuil, Paris 1957, pp. 53-62 ; cfr anche L’avvenire dell’uomo, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 412.
[11] Cfr. p. 160 dove si allude alla crescita ininterrotta della realtà verso l’ora misteriosa in cui Dio sarà tutto in tutti. L’accento teilhardiano rimanda a san Paolo.
[12] Sullo sfondo stanno le opere di K. Adam, Gesù il Cristo, Morcelliana, Brescia 1934, del quale nella biblioteca di Bevilacqua si sono trovate tre successive edizioni tutte annotate (cfr. G. Stella, Appunti sulle fonti del pensiero religioso di Padre Giulio Bevilacqua, in CEDOC, L’impegno religioso e civile di P. Giulio Bevilacqua, CEDOC, Brescia 1983, p. 80), e Gesù, nostro fratello, Morcelliana, Brescia 1931, che, come già si diceva, aveva una Prefazione di Bevilacqua. Questa è riprodotta, in parte, nella ed. del 1968 alle pp. 197-201.
[13] Cfr. una illustrazione delle contrapposte visioni escatologista e incarnazionista in B. Besret, “Incarnation” ou “eschatologie”. Contribution au vocabulaire religieux du XX siècle, Cerf, Paris 1964.
[14] Cfr. Le due fonti della morale e della religione, capp. 2-3. L’opera era apparsa nel 1932. La distinzione non è però sviluppata da Bevilacqua seguendo pari pari l’illustrazione di Bergson.
[15] La valorizzazione della liturgia viene a Bevilacqua dalle sue giovanili frequentazioni lovaniensi e dall’accostamento di R. Guardini, in particolare de Lo spirito della liturgia, tradotto in it. dalla Morcelliana già nel 1930 con una Prefazione di Bevilacqua. Da Guardini P. Giulio «assume una visione della liturgia come strumento di educazione alla maturità cristiana» (G. Stella, Appunti sulle fonti del pensiero religioso di Padre Giulio Bevilacqua, cit., p. 73).
[16] Nella Prefazione a Lo spirito della liturgia, Bevilacqua presenta la liturgia come il baluardo contro la propaganda protestante che sta giungendo in Italia con finanziamenti americani; e il valore della liturgia consiste nel fatto che fa uscire dall’io soggettivo tanto accentuato dal protestantesimo: «La liturgia abitua a mettere, nei rapporti più sacri, l’io sotto il noi, le membra sotto il Capo invisibile e sotto il Capo visibile; la liturgia ci abitua a vedere nell’io staccato dalla società gerarchica quale la volle il Cristo, la sterilità, nell’io, unito a tutta la Chiesa, la ricca fecondità della vita divina. E tutto ciò è meno insegnato che vissuto, inserito e sottinteso nella parola, nel gesto, nel simbolo, nella preghiera liturgica» (pp. XI-XII dell’ed. 1930).
[17] «Il Cristianesimo condanna capitalismo e comunismo: per l’assoluto primato che ambedue accordano alla materia nella vita dell’uomo»: p. 149
[18] «è un falso e un sacrilegio contro la storia e contro la vita fare del messaggio evangelico l’aroma spirituale del mondo capitalistico, come è un falso elencarlo nella lunga serie di retoriche, torbide rivolte di chi odia perché invidia, di chi maledice solo perché incapace di passare dalla categoria di coloro che lavorano mangiando scarsamente in quella dei permanentemente sazi che non lavorano mai»: p. 146.
[19] Cfr. p. 163, p. 175; la metafora è sintomatica: i due potenti che si rimandano Gesù Cristo sono ora i due movimenti che si rimpallano l’uomo sofferente, che con Cristo si identifica: cfr. p. 160.
[20] «è il più generoso ideale di giustizia e di riconciliazione umana aggiogato al carro di un imperialismo insaziabile; è l’ideale più categoricamente smentito dalla realtà» (p. 181).
[21] Alla celebrazione del centenario della sua pubblicazione Bevilacqua dedica un saggio: pp. 165-182, nel quale illustra la tensione verso la verità e la giustizia che vi si trovano.
[22] Dal punto di vista esegetico Bevilacqua aveva il limite di non conoscere il greco né le lingue orientali. Si affidava a commentatori italiani e soprattutto francofoni. Del resto, nella lettura dei libri in genere, P. Giulio non procedeva con metodo e intenti scientifici: lo rileva G. Stella che ha preso visione della biblioteca di Bevilacqua: cfr. G. Stella, Appunti sulle fonti del pensiero religioso di Padre Giulio Bevilacqua, cit., p. 58. Il medesimo Stella osserva che nel campo esegetico P. Giulio privilegiava non le ‘quaestiones disputatae’, ma il cammino sicuro (Ivi, p. 70).
[23] Cfr. tr. it. in Natura, cultura, cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1983, pp. 251-295; ora in Scritti politici, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 293-345. Non sono in grado di dire se Bevilacqua ne fosse a conoscenza, ma non si possono non notare assonanze.