Quando, nel 1945, a guerra finita, bussai all’Oratorio della Pace (lo avevo frequentato dagli otto anni in su) P. Giulio Bevilacqua ne era il Preposito. Aveva 64 anni e un prestigioso passato alle spalle: laureato a Lovanio, due guerre e tre medaglie al valor militare; la dura, intrepida lotta al fascismo locale; due libri e innumerevoli altri scritti; l'”esilio” romano, dopo l’invasione fascista della ‘Pace’
Alla ‘Pace’ era approdato, studente irrequieto, per un “buffo equivoco” (A. Fappani), avendo il padre scambiato per un normale collegio, quello che, in realtà, era un seminarietto ad uso interno. I pochi mesi passativi, comunque, furono sufficienti per affascinarlo dello stile oratoriano, rappresentato, specialmente, da singolari figure sacerdotali come P. Antonio Cottinelli e P. Luigi Carli, preti fedeli alla loro vocazione, disinteressati, dediti e sovranamente schietti e liberi.
La lotta al fascismo era cominciata nel 1922, in appoggio al Vescovo bresciano Giacinto Gaggia, il quale aveva bollato le bravate fasciste con termini inequivocabili: “Teppisti, Vandali, Unni!” (A. Fappani). I fascisti reagirono con la loro caratteristica violenza, dalle pagine del “Popolo di Brescia”; la polemica perdurò contro A. Turati e contro l’on. A. Giarratana (“Le idee valgono non per ciò che rendono, ma per ciò che costano!”). Lo surreggeva la motivata convinzione che il fascismo fosse un’ideologia idolatrica paganeggiante (come evidenziava l’ideologo del regime J. Evola).
A Roma (1928-1933) abitava la casa, dove, quale assistente della f.u.c.i., alloggiava anche il bresciano mons. G.B. Montini, di sedici anni più giovane di lui. Fu per entrambi l’occasione di riprendere e approfondire quel colloquio iniziato alla ‘Pace’, mediante il quale P. Giulio aveva orientato l’interesse del futuro Papa alla cultura, filosofica e teologica, francese… (Una curiosità: fu a Roma che, da Montini, P. Giulio imparò a farsi la barba da solo!).
Poi tutto quello che si sa. Cappellano nella Marina, in licenza a Brescia dopo il 25 luglio del 1943 scrisse sulla “Voce Cattolica” il noto, vibrante manifesto programmatico per la ricostruzione morale del paese. Pensava, evidentemente, che tutto ormai fosse finito… Per grazia di Dio, fu richiamato a Venezia, da cui l’8 settembre partì con la sua nave raggiungendo Brindisi già libera.
Dunque, nel 1945 divenne il mio Preposito. Passava ore e ore nella sua cella, studiando e scrivendo. Il suo campo privilegiato di attività era la Chiesa, la Liturgia. (Mi fece passare l’intera notte di Natale del 1945 – il mio primo Natale di pace dopo la Resistenza – nella fredda oscurità della nostra chiesa come custode, armato, dei preziosissimi candelabri d’argento dello scultore Grossi…).
P. Bevilacqua era il nostro indiscutibile maestro, la nostra guida. Ascoltavamo rapiti le sue omelie, i suoi quaresimali, le sue lezioni (il mercoledì per laureati e professionisti, al venerdì per gli studenti del triennio superiore, al sabato per gli universitari), i suoi sapidi Tischreden…
Nel 1947, diventato Preposito P. Carlo Manziana, fu il mio ‘maestro dei novizi’, non fece che consegnarci, eravamo in due, a noi stessi.
Nel 1950 chiese e ottenne l’incarico di erigere la parrocchia di Sant’Antonio in periferia, come ci aveva chiesto il Vescovo. Si era sempre occupato del ceto colto, ora voleva dedicarsi alla gente che lavora e che fa fatica ad arrivare alla fine del mese.
Quanta sia stata grande e appassionata la sua dedizione alla parrocchia è ben noto. Accettò il cardinalato a patto che lo si lasciasse là, tra la gente che amava. Mi capitò di doverlo portare dalla Pace a Sant’Antonio. Lo portavo con la mia motoretta (una AerMacchi 125) non senza problemi, in quanto l’anziano parroco non aveva mai imparato a stare in bicicletta e quindi gli mancava in modo assoluto l’equilibrio necessario. Laureato in scienze sociali, arrivava a prendere per provvidenziali assegni quelle che invece erano tratte da pagare. Per converso, pur non avendo mai studiato musica, si metteva all’organo e accompagnava in modo impeccabile il canto del suo popolo in preghiera … Lo fece (come ricorda il nostro fratello Mario Colossi, che fu al suo aiuto per molti anni) anche da cardinale.
Tra i tanti collaboratori non posso non ricordare don Gennaro Franceschetti, il futuro Vescovo di Fermo, il quale seppe morire con la stessa serena e forte coerenza di fede, con cui aveva visto morire il suo amatissimo Parroco e Padre nella povera anzi misera stanzetta di Sant’Antonio.
Mi fermo qui: vorrei trarre però qualche conclusione sintetica, il messaggio che mi sembra di maggiore attualità.
Innanzitutto il suo cristocentrismo. Era una convinzione, una passione; non lo diceva, lo gridava, era una vibrazione spirituale; per questo riusciva a farlo capire, a trasmetterlo. “Il Cristo solo, il Cristo vivo” (card. G.B. Montini). Solo nei confronti di devozionismi che, senza di lui, non sono che mistificazioni; non solo però rispetto alla Chiesa, in quanto non ci può essere Cristo senza la sua Sposa – così come non ci può essere vera Chiesa senza Cristo Vivo cioè non astratto, non nel frigidaire (sic!) -, ma nella realtà, il Cristo in colluttazione con l’uomo così come esiste di fatto oggi, fatto, come sempre, di grandezza e di miseria (B. Pascal).
Questo Cristo lo cercava, P. Giulio, nelle sue lunghe ore di studio, nel pensiero dei contemporanei, anche nei negatori.
Bevilacqua non era un accademico, uno specialista. Se leggeva A. Malraux o A. Camus non era tanto per radiografare il loro pensiero in modo sistematico, quanto per vedere come rispondere alle loro obiezioni e difficoltà sul Cristo, sul Dio di Gesù Cristo. Era convinto che fra il Cristo e il mondo contemporaneo (o post-moderno) ci fossero degli equivoci che potevano essere dissipati e che da certe negazioni si potessero trarre delle affermazioni più convinte e convincenti. Con Dostoevskij pensava che un certo ateismo – quello inquieto, agostinianamente alla ricerca di un Dio più grande, non quello frivolo, alla Lessing (la ricerca meglio della verità!) – occupasse il penultimo gradino della fede nel vero Dio. Da qui la sua innata simpatia verso i lontani, gli irrequieti e il poco gradimento verso i primi della classe, i devoti, i tranquilli possidenti, i clericali.
Un’ultima annotazione. Da buon discepolo di J. H. Newman, ma anche di H. Bergson – che citava molto spesso – concepiva il cristianesimo e la Chiesa come un processo dinamico-evolutivo: cristiani non si è, si diventa e anche la Chiesa deve continuamente farsi – incarnarsi – nel mondo e nel tempo per essere veramente se stessa, fedele al suo Signore. Non per niente il suo primo articolo, sulla rivista della Morcelliana “Humanitas”, da lui fondata nel 1946 insieme a M. Bendiscioli, M. Marcazzan e M.F. Sciacca, era intitolato, bergsonianamente, “Religione statica e religione dinamica”.
Negli anni del Concilio (1962-1965) P. Bevilacqua portò alla Pace autorevoli voci di teologi e filosofi cristiani. Venne anche fr. Roger Schutz, il fondatore di Taizé, recentemente scomparso. Ebbene, fr. Schutz ebbe poi a dedicare proprio “ai Padri dell’Oratorio della Pace” la traduzione italiana del suo libro forse più stimolante, “Dinamica del provvisorio” (Morcelliana, 1965)!
Non so se P. Bevilacqua abbia mai letto Teilhard de Chardin, dato che le opere del gesuita alsaziano poterono uscire soltanto postume e cioè dopo il 1955. E’ molto probabile che il futuro cardinale si sia potuto confrontare col “teologo proibito”. E’ comunque certo che un capolavoro di spiritualità come “Le milieu divin” lo avrebbe entusiasmato, come è avvenuto per tanti cristiani pensosi. Vi avrebbe trovato molto di sé, del suo modo di vivere il Cristo nel tempo, nella storia.
Se mi si consente, vorrei, in nome della tanto conclamata parresia, concludere col dire che proprio questo è il più grosso problema, la sfida che deve affrontare la Chiesa oggi, chiamata com’è ad annunciare, anzi a comunicare il Vangelo di sempre “in un mondo che cambia”. Potrà farlo senza cambiare nulla di sé, lasciando tutto inalterato anche quanto dei suoi ordinamenti è nel segno del variabile, del provvisorio?
Lo Spirito che la sta spingendo alla “verità tutta intera” (Gv 16, 13) non le riconosce il diritto di rapportarsi in modo nuovo, più evangelico, a situazioni umane sempre più frequenti di sofferenza e di crisi?
Personalmente – ma mi sento abbastanza figlio dell’Oratorio in questo – penso che l’insostituibile “farsi a tutti” della Chiesa, questo suo rinnovarsi in Cristo, le risulterà più facile se, come ha suggerito il Concilio, essa darà ancora più spazio ai cristiani laici (oltre che, naturalmente, ai cristiani preti), accettando il dono del loro amore vero e quindi sofferente e talvolta scomodo, e valorizzandoli come persone ecclesialmente corresponsabili, “pietre vive”, degne di essere ascoltate con attenzione e fiducia, degne di essere “consultate” (J.H. Newman).
NOTA: Testo predisposto dall’Autore. I contributi del convegno del 16.9.2005 sono stati pubblicati nel volume degli atti a cura del Ce.Doc. e della Morcelliana.