IL DIO IMPASSIBILE DELLA FILOSOFIA CLASSICA
La riflessione dell’uomo sull’origine del male ha coinvolto fin dall’antichità Dio stesso. Lattanzio, apologeta del cristianesimo fra il quarto e quinto secolo, nel De ira Dei, cap. 13, prendeva posizione contro la visione epicurea degli dei, che sarebbero vissuti beati nelle loro sfere senza interessarsi degli uomini. Al riguardo esponeva le obiezioni degli epicurei contro la provvidenza divina secondo alternative che sono diventate classiche: “O Dio vuole eliminare i mali e non può” e in tal caso sarebbe “debole”, “cosa incompatibile con Dio” “o può e non vuole” e sarebbe “invidioso”, “cosa da escludere per un Dio”, “o vuole e può” e allora perché il male continua a sussistere?”. Secondo Epicuro, Dio non poteva intervenire nelle vicende umane poiché in tal caso la sua beatitudine si sarebbe turbata. La divinità comportava l’apateia, l’impassibilità. Possiamo dunque dire che fra le alternative presentate, Epicuro optava per la prima: Dio non poteva intervenire a togliere il male poiché ciò sarebbe andato contro la sua natura. Si trattava di un’impossibilità che non derivava da debolezza, ma dalla pienezza del suo essere. Si poteva allora concludere che la bontà di Dio era salva, anche se non aveva ricadute sull’uomo e sulla sua misera situazione. Com’è noto, nella filosofia greca è prevalsa l’idea dell’impassibilità di Dio e questo in contrasto con la visione poetica degli dei nel paganesimo che, viceversa, descriveva la loro partecipazione agli eventi umani. Gli dei però abbassandosi a livello umano finivano non solo per essere deboli di fronte al destino, così da piangere per la loro impotenza, ma anche ad essere invidiosi.
Se dunque i filosofi hanno preferito tracciare una netta linea di confine fra il Dio impassibile e beato e il mondo corrotto e mutevole, questa linea di confine ha favorito il dualismo fra la sfera celeste e quella terrena, fra lo spirito e la materia. Poteva dirsi onnipotente un Dio che, limitato dalla propria perfezione, non poteva mutare radicalmente il mondo o renderlo del tutto buono? Il mondo e la materia non diventavano un principio a lui contrapposto? Nel Timeo Platone ha descritto l’imperfetta riuscita del demiurgo nel suo tentativo per conferire ordine al cosmo: egli aveva avuto successo solo “per la maggior parte delle cose” (48 a). Questa convinzione si è poi accentuata e convalidata nella concezione dualistica del manicheismo e dello gnosticismo che hanno segnato particolari momenti della storia del cristianesimo e accompagnato movimenti radicali.
Nella sua confutazione di Epicuro, Lattanzio sosteneva che un Dio segregato nel suo cielo era tale solo di nome non di fatto. Da dove veniva la natura? Che senso rimaneva alla religione? (Epitome divinarum institutionum, c. 31). Egli allora ritornando alla questione del male replicava che Dio non aveva voluto toglierlo, poiché senza di esso non sussisteva neppure la virtù e la sapienza. “Non potest virtus sine vitio consistere” (Epitome, c. 24). “Nisi prius malum agnoverimus, nec bonum poterimus agnoscere” (De ira dei, 13). Così Lattanzio in antitesi alla visione dei filosofi greci non solo sosteneva un Dio creatore del mondo, un Dio buono, ma anche un Dio capace di adirarsi e di punire i colpevoli. La collera divina, di cui Lattanzio vedeva tante testimonianze nella Scrittura, era fondata nella sua funzione di giudice. Da qui la sua assimilazione del pater familias o dell’imperatore a Dio.
LO SCACCO DELLA RAGIONE FRA ONNIPOTENZA E BONTÀ DI DIO
Nell’epoca moderna gli interrogativi epicurei si sono ripresentati con veemenza. Da un lato le lotte religiose fra protestanti e cattolici, dall’altro l’affermarsi della nuova scienza nella sua autonomia dalla teologia hanno riproposto la questione del male. Fu in particolare Pierre Bayle (1647-1707), filosofo e scrittore francese, prima protestante, poi cattolico, poi di nuovo protestante a dare ampia diffusione alla problematica attraverso il suo Dizionario storico-critico, che nelle sue cinque edizioni fu letto e studiato in tutta Europa. Egli si concentrò sul tema soprattutto in due voci “Manichei” e “Pauliciani” riallacciandosi al brano di Lattanzio. Secondo lui l’apologeta del cristianesimo antico aveva addotto ragioni molto deboli. Anzi quelli che giustificavano il male attraverso la presenza nella natura di due principi opposti come il freddo e il caldo, il bianco e il nero, la luce e le tenebre non si rendevano conto di quanto grave e profondo fosse il male. Anzitutto occorreva tener presente la sofferenza degli innocenti, anche degli animali che sarebbero stati puniti per colpa dell’uomo. E poi la “malvagità dell’uomo” era “una malvagità evidente a tutti, in particolare ai viaggiatori e agli studiosi di storia”. Bayle dichiarava: “L’uomo è cattivo e infelice: tutti lo sanno” (tr. it. G. Cantelli, Roma-Bari, Laterza 1976, I, 17). Certamente si poteva addossare la responsabilità all’uomo stesso e al suo libero arbitrio. Tuttavia perché Dio, pur prevedendo conseguenze tanto negative, aveva donato all’uomo il libero arbitrio? Perché permetteva il male?
Al riguardo egli prendeva in considerazione i manichei e tutti quanti si appellavano a un principio buono e a un principio cattivo. In un ragionamento a priori che partisse dal concetto di Dio essi venivano facilmente confutati. Come tale, Dio era infinito, onnipotente e unico. Sarebbe stato dunque contraddittorio presupporre due divinità o due principi primi. Tuttavia a posteriori l’esistenza del male finiva per rimettere in discussione quel Dio. “Ci si venga pure a dire con un grande apparato di ragionamenti che non è possibile che il male morale si introduca nel mondo per l’opera di un principio buono e santo, noi risponderemo che ciò si è pur verificato e che, di conseguenza, è ben possibile. Niente è più insensato del voler ragionare contro i fatti […] I manichei si accorsero di quanto detto sopra e, per questa ragione, non vollero accettare il Vecchio Testamento” (24).
La rivalutazione dei manichei, come quelli che cercavano di esprimere la drammaticità del male e, rispetto alla divinità, preferivano salvare la bontà anziché l’onnipotenza aveva per Bayle anche uno scopo, quello di contestare quanti risolvevano la questione del male partendo dall’onnipotenza divina. Com’è noto, nel Seicento, sotto l’influenza del calvinismo, ma anche del cartesianesimo si era fatto dipendere la bontà dal decreto divino. Era bene ciò che Dio aveva ordinato. Se egli era onnipotente, ciò significava che non doveva attenersi a nessuna norma morale preesistente. Come avrebbe potuto far sì che due per due facesse cinque, così poteva imporre altre leggi rispetto a quelle esistenti. Se dunque il male esisteva, se molti erano destinati alla dannazione eterna, ciò dipendeva dalla sua volontà e quello che egli voleva era bene. Lo stesso Cartesio aveva sostenuto che perfino le verità matematiche, comunemente ritenute come eterne, erano state create da Dio che avrebbe potuto decidere altrimenti. Al Padre Mersenne egli aveva dichiarato: “Les vérités mathématiques, ques Vous nommez éternelles, ont été établies de Dieu et en dépendent entièrement, aussi bien que le reste des créatures” (15 aprile 1630, AT I, 145). Così, spiegava, Dio poteva fare un monte senza che ci fosse la valle o far sì che uno + due non fosse tre (AT V, 224).
Bayle non era d’accordo con questa argomentazione. Per lui Dio non avrebbe potuto volere quanto era contraddittorio, né imporre ciò che era contrario alla ragione morale. Tuttavia egli concludeva le due voci del Dizionario osservando come la ragione, proprio nel suo fallimento di fronte al male, diventava “pedagoga” alla fede. Osservava anzi che la sua funzione era, in un certo senso, analoga a quella di Cristo “Essa non serve ad altro che a far conoscere all’uomo le sue tenebre e la sua impotenza, e la necessità di un’altra rivelazione, quella cioè della Scrittura” (tr. it. Cantelli, I, 24). Occorreva umiliare la ragione mostrando che essa era solo un principio di “distruzione” e di dubbio. Da questo annullamento sgorgava la fede. Se Bayle sia stato davvero sincero in questa conclusione si discute fino ad oggi. Perché aveva sistematicamente distrutto ogni dogma con la ragione se poi alla fine dichiarava l’impotenza della ragione e la vittoria della fede? Che significato aveva una fede senza un contenuto razionale al suo interno? Perché gli eretici e, in questo caso, i manichei erano stati così rivalutati?
IL MALE COMPONENTE NECESSARIA DEL COSMO
A questa posizione rispose Leibniz nella sua Teodicea (1710). Egli sviluppò la sua difesa di Dio contro le obiezioni dello scrittore francese, verso il quale continuò a protestare la propria stima per la sua erudizione e il suo acume. Anzitutto era pericoloso annientare la ragione in nome della fede. La ragione infatti era dono di Dio e, come tale, doveva essere rispettata (tr. it. a cura di Domenico Omero Bianca, UTET, Torino, 1988, 428). Chi invocava la sola fede era facilmente preda del fanatismo o del quietismo (408) abbandonandosi ciecamente a una presunta rivelazione interiore o a un’autorità esterna, di cui non aveva accertato la credibilità. La ragione non era semplicemente distruttiva e non poteva essere paragonata a una novella Penelope che disfaceva di notte quanto di giorno tesseva (431). C’erano verità eterne o nozioni comuni che Dio stesso non poteva violare o distruggere giacché sarebbe caduto in contraddizione (402, 436).
Fra onnipotenza e bontà divina Leibniz optava decisamente per la seconda. Fra gli infiniti mondi che Dio avrebbe potuto scegliere, egli aveva scelto il migliore. Infatti se ne avesse scelto un altro, uno meno buono, avrebbe scelto male e ciò sarebbe andato contro la sua bontà (462). Posta questa scelta, ne era derivata una determinata connessione di cose, un ordine, nel quale rientravano necessariamente le imperfezioni e il male (529, 531). Il Dio architetto o il Dio pianificatore doveva dunque egli stesso aver fatto i conti con il “possibile”, un termine che ricorre continuamente nell’opera del filosofo (507, 527). Anzi una volta che egli avesse scelto un determinato piano non poteva più cambiarlo. “Al presente non c’è dubbio che non possa cambiare il mondo, salva la sua saggezza, poiché egli ha preveduto l’esistenza di questo mondo e di quanto contiene ed anche perché ha preso la decisione di farlo esistere; infatti egli non può né sbagliarsi, né pentirsi, e non gli si addice prendere una decisione imperfetta” (489). Gli stessi miracoli erano possibili solo perché previsti dal principio e rientravano nel piano stesso di questo mondo.
Poiché in questo piano erano implicati il limite, l’imperfezione e il male, bisognava distinguere in Dio fra la volontà antecedente, che avrebbe voluto solo il bene, e la volontà conseguente, che di fronte a una determinata connessione di esseri aveva accettato anche il male. Per spiegare tale volontà conseguente Leibniz ricorreva al principio fisico della composizione di forze o al conflitto delle volontà (472). Tuttavia per rimarcare l’armonia dell’universo e la bontà divina egli a più riprese sottolineava il fatto che dal male spesso derivava il bene, che esistevano errori fortunati, che l’uomo era spesso stimolato dal negativo, come quando ci si compiace ad ammirare i danzatori che su una corda sfidano il pericolo e incutono anche in noi terrore (463, 473, 464). Il male rientrava dunque nell’armonia del bene. Se noi eravamo più colpiti e sconvolti dal male, era perché questo attirava maggiormente la nostra attenzione, come quando ci si ammalava e ci si lamentava di quello stato. Eppure la malattia era molto meno frequente e duratura della salute (465).
E il male morale? Anche qui Leibniz introduceva il concetto di possibile applicandolo alla prospettiva della giustificazione: “Tutti convengono che Dio è buono e giusto nel modo più perfetto, che la sua bontà lo fa contribuire il meno possibile a quanto può rendere colpevole gli uomini e il più possibile a quanto serve a salvarli” (507). Il male era il prezzo della libertà. Alla domanda perché Dio avesse dato all’uomo il libero arbitrio sapendo che ne sarebbe venuto il peccato e quindi la dannazione per molti, Leibniz rispondeva che anche il libero arbitrio rientrava nella connessione di questo mondo. O creava uomini e questi dovevano avere il libero arbitrio, o non li creava (531-533). In altri termini non si poteva separare l’uomo dalla libertà. Rispetto alla tesi secondo cui i dannati sarebbero stati ben più numerosi degli eletti, egli si dichiarava d’accordo, ma aggiungeva che rispetto alla bontà della città di Dio il peso dei dannati non era nullo (538). Come si vede Leibniz si poneva nella scia di Lattanzio e giungeva ad affermare: “Poiché Dio ha permesso il vizio, bisogna che l’ordine dell’universo trovato preferibile ad ogni altro piano, l’abbia richiesto” (539). “La pena serve spesso per l’emendamento e per l’esempio; il male serve spesso per far meglio gustare il bene” (473).
Come noto, questo ottimismo fu sarcasticamente contestato da Voltaire in occasione del terremoto e maremoto di Lisbona che il 1 novembre 1755 aveva annientato nei quartieri bassi della città più di 60.000 persone. Egli il 24 novembre parlava di “centomila formiche” spazzate via, in particolare delle donne e dei bambini, il cui dolore non poteva ricomporsi in nessuna armonia. Il male c’era sulla terra e non poteva essere spiegato. Anche Kant muoveva dall’enigma del male radicale e Kierkegaard scrive nel Diario: “Per l’uomo è veramente un peso molto grave dover soffrire tanto, eppure credere che Dio nondimeno è amore. È cosa da far perdere la ragione; e per un uomo è molto più facile disperare, fare il punto e basta” (vol. I, Morcelliana, Brescia 1962, 887).
LA SOFFERENZA DI DIO?
La difficoltà di conciliare un Dio buono col male è diventata estrema in seguito agli stermini di massa, pianificati e giustificati nel Novecento. Si pensi all’eliminazione dei 6 milioni di ebrei, fra cui un milione e mezzo di bambini. Giacomo Canobbio parla anche della miseria e violenza nell’America Latina, per esempio ad Ayacucho, la città della morte (Dio può soffrire?, Morcelliana, Brescia 2005, 19-20. Soprattutto in campo ebraico si è fatta strada una nuova interpretazione di Dio. Non bastava fra l’onnipotenza e la bontà scegliere la seconda, bisognava dire che Dio si era fatto fragile, sofferente con l’uomo. Canobbio espone la visione del teologo ebreo Abraham Joshua Heschel e del teologo cristiano Moltmann. Questi anzi ha aggiunto come un Dio non impassibile, ma sofferente sia ancor più comprensibile per i cristiani che lo vedono sulla croce e riconducono il dolore in seno alla Trinità (25-42, 51-80). In campo filosofico merita attenzione Hans Jonas secondo il quale Dio nella creazione si sarebbe fatto debole precludendosi interventi successivi per rimediare alle situazioni negative, provocate dalla libertà umana. La kenosi, l’abbassamento della divinità, da Paolo individuato nel Cristo, sarebbe da anticipare alla stessa creazione, l’atto mediante il quale Dio si sarebbe limitato, come afferma nel libro Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Melangolo, Genova 1991, 36.
Com’è noto, Jonas si è a lungo occupato del problema del male in relazione a Dio. La sua opera sulla gnosi è diventata classica. Nella gnosi egli ha visto un atteggiamento spirituale tornato prepotente nel Novecento, in particolare fra gli anni Trenta e Quaranta. Il suo maestro l’aveva espresso in Essere e tempo. Già negli gnostici egli ha ravvisato l’idea che l’uomo sia gettato nel mondo, che vi si senta come straniero e abbia la nostalgia di un ritorno a casa (Lo gnosticismo, Sei, Torino 1991, 349). Una caduta sarebbe avvenuta e solo un salvatore potrebbe porvi rimedio. Il senso di negatività del mondo, sul quale gli gnostici tanto avevano insistito, è stato da Jonas avvicinato al nichilismo di Nietzsche e alla sua attesa di un salvatore: “Gli Gnostici, se richiesti di riassumere in modo simile la base metafisica del loro nichilismo, avrebbero detto semplicemente “il Dio del cosmo è morto”, ossia è morto come dio, ha cessato di essere divino per noi e perciò di fornirci la stella polare per le nostre vite” (346). Al di sopra del mondo c’era per loro il Dio inconoscibile, dal quale l’anima del mondo, sedotta dall’amore per la materia, si era staccata e che rimaneva come meta agognata. Jonas riporta una poesia mandea: “Dal giorno in cui ti abbiamo contemplato i nostri cuori furono colmi di pace. Noi abbiamo creduto in te, Unico Buono, abbiamo contemplato la tua luce e non ti dimenticheremo. In tutti i nostri giorni non ti dimenticheremo, nemmeno per un’ora ti lasceremo fuori dai nostri cuori” (105). Nelle sue analisi Jonas sottolinea come la trascendenza di Dio abbia alimentato da un lato la nostalgia di lui, dall’altro abbia dato origine a un dualismo negatore del mondo. Certamente gli gnostici avevano avuto ragione nel contestare il carattere divino del cosmo, ma insieme erano caduti nel nichilismo. Anche Heidegger aveva avuto ragione nel criticare le scienze naturali, ma in lui la negatività era prevalsa. Così in Essere e tempo il passato e il futuro avevano avuto un netto predominio sul presente (349-353). Da qui lo sforzo di Jonas per superare il dualismo fra Dio e mondo mantenendo la tensione verso la salvezza, presente negli gnostici e nella filosofia esistenziale del Novecento.
In questo senso egli si sforza di ripensare Dio dopo Auschwitz. “Auschwitz e non Lisbona”, dice, “Di fronte alle cose veramente inaudite che, nel creato, alcune creature, fatte a sua somiglianza, hanno fatto ad altre creature innocenti, ci si dovrebbe aspettare che il Dio, somma bontà, venga meno alla regola che si è imposto di trattenere in sé la propria potenza e intervenga con un miracolo di salvezza. Ma questo miracolo non c’è stato; durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz Dio restò muto” (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 37, 35). Fra onnipotenza e bontà Jonas sceglie decisamente la seconda, mentre della prima dice che, come possibilità di ogni cosa, non ha senso. “Tutto”, afferma “è uguale a zero”. “Potenza”, aggiunge, “è concetto di relazione ed esige perciò un rapporto multipolare… Potenza è tale solo se in relazione con qualcosa che ha potenza” (32). Se dunque secondo Jonas si può parlare di relazione solo dal momento della creazione, è proprio qui che Dio si è limitato. “Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza” (36). Da un lato Dio ha richiamato l’uomo alla sua responsabilità facendogli capire come da lui dipendesse il bene e il male e non potesse contare su un Dio pronto in ogni momento a rimediare alle sue malefatte. I rimedi dovevano venire dall’uomo stesso. In questo senso Jonas ricorda i giusti delle nazioni che nella shoà non hanno esitato a mettere a repentaglio la loro vita per salvare gli innocenti (35). In loro si potrebbe dire che Dio ha agito. D’altro lato nella sua autolimitazione Dio ha sofferto e soffre. Così Jonas non esita a dire che la sua spiegazione è opposta a quella del libro di Giobbe. “Mentre la spiegazione di Giobbe si richiama alla pienezza di potenza del Dio creatore, la mia si richiama alla sua rinuncia alla potenza” e aggiunge “Anche questa, almeno così a me pare, è una risposta a Giobbe: il fatto che in lui Dio stesso soffre” (39).
Jonas è consapevole di appoggiarsi al mito nel suo discorso e nomina la tradizione ebraica della Kabbalah. Nello stesso tempo dobbiamo chiederci se il linguaggio mitico a cui ricorre non conceda troppo alla rappresentazione antropomorfica di Dio. Già Sant’Agostino nella spiegazione della creazione aveva messo in guardia dal concepire quell’atto come un atto nel tempo e come una trasformazione intima di Dio stesso. Come può l’essere immutabile avere in sé cambiamenti, sottostare al tempo e sentirsi come obbligato da una decisione che avrebbe preso precedentemente? Questa domanda riguarda anche Leibniz quando dice che i miracoli sarebbero stati previsti al momento della creazione come se in Dio ci fossero momenti. Nel mondo cristiano si è generalmente preferito la bontà all’onnipotenza divina, tuttavia l’idea di un potere che resista al potere divino reintroduce il dualismo e il manicheismo.
Certamente ogni discorso su Dio è antropomorfico e quando parliamo della sua bontà o della sua onnipotenza la poniamo in rapporto a noi. Tuttavia dobbiamo anche pensare che la relazione con noi non è essenziale per Dio. Diversamente egli diventa la nostra proiezione. Le nostre immagini vanno dunque prese come tali nella convinzione che non afferrano la realtà divina come tale. Dio può soffrire? Se l’amore sofferente è amore vero di fronte alle sofferenze altrui l’immagine può servire per dire appunto che Dio ama veramente. La capacità di soffrire con gli altri è una virtù e una virtù importante poiché implica la capacità di uscire da sé. In questo senso si può attribuire a Dio. Ma la sofferenza implica anche un patire, un essere deboli, incapaci, e in questo senso non può essere attribuita a Dio. Come potrebbe ancora rimanere Dio un Dio simile o essere fonte di speranza?
La conciliazione fra sofferenza e impassibilità di Dio non è facile. Fra un Dio impassibile e beato, secondo la visione epicurea, e un Dio fragile e sofferente forse è possibile trovare una via di mezzo come suggerisce il libro di Canobbio. Del resto se Dio è infinito, non può essere imbrigliato in nessuna alternativa. Canobbio parla di un Dio appassionato (111), ma anche questa è un’immagine e si tratta di capire come questa passione, questo pathos di Dio si concili con l’idea di Dio atto puro, somma perfezione che egli sottolinea riprendendola da Tommaso d’Aquino (86).
NOTA: testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 13.10.2005 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura.