Giacomo Canobbio:
In questi ultimi anni sono apparsi molti testi sulla resistenza, e anche “La messa dell’uomo disarmato”[2] sembrerebbe uno dei tanti libri su questo argomento
Al lettore attento non sfugge però che nel sottotitolo e nell’ultima pagina del romanzo “Resistenza” è scritta con la lettera maiuscola. In effetti, la trama del racconto va oltre la narrazione di una vicenda civile, si trova piuttosto nel faticoso, misterioso percorso della Parola, anch’essa con la lettera maiuscola, nel suo raggiungere l’esistenza delle persone.
Non è un caso che, soprattutto nel primo blocco abbastanza consistente di pagine, ci sia un dialogo quasi ininterrotto tra due personaggi, che riappaiono poi in forma significativa alla fine, e l’oggetto fondamentale del dialogo è appunto come la Parola possa essere compresa.
Non va dimenticato che il romanzo è la ripresa di una narrazione del protagonista Franco, il novizio, il quale nel dialogo con il suo maestro cerca di capire come la Parola entri nelle vicende umane, che cosa abbia a che fare la vita con questa Parola alla quale inevitabilmente nel monastero si attinge continuamente.
Franco appare come un osservatore che registra il percorso e si rammarica di non poter partecipare all’avvenimento; il termine “avvenimento” ritorna più volte e non a caso.
Il grande avvenimento è precisamente ciò che anche in forma anonima la Parola è riuscita a produrre, e Franco resta come lo spettatore che alla fine sembra preso da un senso di colpa per non aver avuto il coraggio, la forza o, forse, la possibilità di entrare nell’avvenimento.
Di quest’avvenimento sono protagoniste le persone più diverse, ecclesiastici ed intellettuali, persone agiate e poveracci, non credenti e fedeli cristiani, ma tutti sono coinvolti nella resistenza al male, e il male qui non è inteso direttamente come il peccato, come si potrebbe immaginare stante il riferimento alla Parola; il male è piuttosto la mortificazione della libertà, ravvisabile nella situazione storica che fa da sfondo al romanzo: gli ultimi anni del regime fascista e della guerra.
Ci si accorge così, man mano si procede nella lettura, che la Parola produce difesa di valori civili anche là dove questa Parola sembrerebbe finalizzata a costruire la comunità santa: il monastero.
Qui, nel monastero, l’abate riesce a coinvolgere tutta la comunità affinché partecipi all’avvenimento. Da questa comunità, dall’humus – potremmo dire – di questa comunità, emerge la figura di dom Luca, che partecipa attivamente alla resistenza e lascia in eredità, dentro il romanzo, un diario mirabile, nel quale si descrive il travaglio spirituale di un uomo che non ha potuto essere fedele al comando: “Non uccidere” , e si costringe a muoversi con il moschetto scarico, esposto continuamente alla morte proprio perché lui non è riuscito a fare a meno, lo dico fra virgolette, di disobbedire in una determinata circostanza alla Parola. Quel diario è un travaglio spirituale che dice la fatica a realizzare nelle congiunture della storia le alte esigenze della Parola.
Da quella comunità emerge altresì la figura dell’abate, che è la guida della comunità. L’abate per salvare gli altri si lascia uccidere: quando uno dei partigiani ha perso la pistola e le SS l’hanno trovata, egli dichiara che è la sua. Chi legge queste pagine e ha qualche dimestichezza con il Vangelo di Giovanni non può non ricordare l’inizio del capitolo 18 quando le guardie vanno ad arrestare Gesù e Gesù si erge di fronte agli astantiin tutta la sua grandezza, dicendo: “Se cercate me, lasciate andare costoro”. La figura dell’abate è quasi in dissolvenza la figura di Gesù, che si frappone fra i carnefici e i suoi, perché i suoi siano salvati.
Ma se queste due figure si stagliano all’interno della comunità, è la comunità intera che, abituata a meditare la Parola, non s’isola rispetto alla vicenda civile; si lascia piuttosto, potremmo dire, gettare nella storia: la spiritualità che si vive in questo monastero è una spiritualità incarnata.
Il monastero, nella tradizione teologica anticipo della Gerusalemme celeste, diventa rifugio, sostegno, nutrimento per chi sta combattendo la battaglia della libertà; le parole che ho scelto non sono a caso: le mura del monastero, ciò che la comunità prepara per i partigiani, stanno a dire che lì dove la Parola è ascoltata ogni giorno, è possibile trovare fondamento, forza, fiducia per la battaglia contro il male.
Ma la Parola penetra con la sua potenza anche là dove nei suoi confronti non c’è attenzione tematizzata o vi è resistenza intellettuale. A questo riguardo vorrei richiamare due figure che mi sembrano particolarmente significative: Stalino, così chiamato perché aveva partecipato alla guerra di Russia, che ad un certo punto decide di andare in montagna, e quando i partigiani scendono in paese difende la guardia fascista di fronte a quel gruppo di giovanotti con le divise stirate che vengono dalla città e pretendono di essere il tribunale che giudica i fascisti. Stalino ha il coraggio di opporsi: una volta che il male è stato debellato non c’è più spazio per la violenza.
La seconda figura è quella di Piero, il medico, che incarna la resistenza intellettuale del mondo scientifico. Cresciuto in una famiglia tipicamente cristiana, Piero ad un certo punto sperimenta la fatica di aderire alla Parola. Eppure è il medico che non cura soltanto i partigiani del suo gruppo, ma si rende disponibile a curare chiunque sia ferito, anche di gruppi diversi, diventando così, lui resistente intellettuale alla Parola, fonte di riconciliazione, perché, in seguito alla sua dedizione aperta, fra le bande cadono i sospetti e nasce la solidarietà.
La Parola passa anche dai meandri della vita, quella di tutti i giorni, là dove sembrerebbe non possa attecchire.
Vorrei qui ricordare altri due personaggi: Toni e Rondine.
Toni è l’uomo immediato, il tipico uomo della campagna, non abituato a grandi speculazioni ma di una generosità ammirevole. Rondine – così chiamato poiché prima dell’inverno rubava per essere messo in prigione, sicché almeno là aveva un riparo e qualcosa da mangiare, e riappariva alla primavera – si manifesta non solo come colui che è capace di lavorare quando gliene danno l’opportunità, ma è di una dedizione irraggiungibile nei confronti di tutti, anche nei riguardi dei morti con i quali parla.
Nella vita ordinaria, nella quale la Parola passa, ci sono due punti d’irradiazione nel paese: l’arciprete e la casa della Campanella.
L’arciprete, uomo sapiente, dotto, che condivide totalmente la vita del popolo, non chiude le porte a nessuno, anche ai non credenti; la famiglia della Campanella è una famiglia aperta, accogliente, nella quale la madre occupa un posto del tutto singolare, e accanto a lei Maria, la dolcissima moglie di Piero.
Alla fine il lettore è posto di fronte a due sfide.
La prima: verificare i parametri con i quali lui, il lettore, legge la vicenda umana. La legge rompendo gli schemi per scorgere con stupore i segni di un’umanità nuova, non nella visibilità eclatante ma nella vita ordinaria, oppure continua a leggere la vicenda umana con schemi rigidi che non permettono di accogliere il percorso molte volte anonimo della Parola?
In qualche recensione si è parlato d’elogio della vita contadina e ci sono alcune pagine mirabili a questo riguardo. A me pare che più profondamente ci sia una sottolineatura del legame con la ‘buona terra’. All’inizio c’è una pagina nella quale si descrive Franco sdraiato sul raccolto della giornata, che guarda il cielo e ripensa alla terra: questo legame con la buona terra non è semplicemente elogio della vita contadina, è come lasciarsi modellare nuovamente dalla creazione di Dio.
La seconda sfida: domandarsi che n’è oggi della resistenza al male?
Il romanzo racconta il passato, ma lascia intravedere un rischio: man mano l’avvenimento si distanzia nel tempo si tende a dimenticare. Il discorso del tenente Manfredi ai funerali di Rondine lascia intendere che c’è questo grosso rischio, e la sera del funerale di Rondine, Piero, tornato alla Campanella, lui così restio a parlare di quello che hanno vissuto in montagna, paventa che presto ci si dimenticherà dell’avvenimento.
Il romanzo diventa allora un invito a tenere desta la memoria perché questa è l’antidoto all’omologazione, la quale produce rassegnazione e alla fine assoggettamento; quando si perde la memoria dell’avvenimento, allora si è in balia di qualcuno che è in grado di assoggettare.
Un appello finale mi pare traspaia da tutto il romanzo: non resistere alla Parola è condizione per resistere al soggiogamento. La Parola è ancora capace di far sorgere un’umanità nuova e l’umanità nuova è quella riconciliata, dove la risoluzione dei problemi non è più lasciata alla violenza, ma all’amicizia, quella che intesse le relazioni degli abitanti dell’anonimo paese che fa da sfondo alla vicenda narrata.
Domanda di Giacomo Canobbio:
Ad un certo punto del libro c’è come l’itinerario di Franco, che ritorna ad immergersi nella vita della sua famiglia, dei suoi compaesani e si trova quest’espressione: “Non mi ero tolto i calzari che mi separavano da Toni, da mio padre”. Che significato può avere questo reimmergersi nella vita contadina per uno che è stato in monastero e che si accorge che nel mietere, nel lavorare la terra, nel bere al fiasco di vino annacquato si può cogliere la Parola che passa dentro l’esistenza?
Risposta Luisito Bianchi
Io non lo so come sia capitato che abbia scritto questo romanzo, è che sentivo il bisogno di riflettere sulla mia vita, essendo giunto ad una boa della mia esistenza, intorno ai 50 anni.
Il marchio del separato mi era risultato ancora più evidente in certi momenti di vita molto intensa, soprattutto quando ho lavorato in fabbrica e in una clinica come facente funzione d’infermiere; questa separazione, questo essere cresciuto – diciamo pure – al di fuori della crescita della gente comune, mi ha fatto sentire la necessità di superare i confini di questa separazione.
Riandando a tutta la mia vita, io non feci il lavoro del contadino ma ebbi memoria della terra, attraverso le vicende famigliari e nella felicità dell’infanzia, a contatto con le stagioni. Poi, ecco, la separazione: andare in seminario, rivestirmi di una vita che non era quella che avevo lasciato nell’infanzia e sentire addirittura la necessità di nascondermi quando arrivava qualcuno in casa, durante le vacanze e, magari, non avevo le calze nere o la sottana prescritte.
E poi il contatto con la vita reale, quando, per una felice combinazione di eventi, mi trovai non più come un separato ma sullo stesso piano degli altri, senza più privilegi di stato sociale e nell’accettazione del passaggio come la condizione della mia umanità, giacché avevo sempre cercato di fare unità fra il mio essere prete e il mio essere uomo.
Credo di avere descritto nella prima parte, cui segue con più nitidezza il senso dell’estraneità nel non partecipare al grande avvenimento della seconda parte del libro, questo senso di essere escluso dalla vita della gente che perdurava in me. Di qui lo sforzo di superare questa barriera, di immergermi nella vita cercando la presenza della Parola che permea tutto; una Parola che non dipendeva da me, dalla mia interpretazione, ma che era al di sopra di me.
Insomma io ero un separato che sentiva d’essere Chiesa; e allora puntavo sull’ecclesiale pur essendo un ecclesiastico, accettandolo come condizione per far emergere in me l’ecclesiale, immergendomi in un popolo di salvati come annunciatore di tale notizia.
tutto qui. Che poi abbia scritto in un modo o in un altro ha poca importanza. Per me lo scrivere era un trasmettere la fatica e la gioia di immergermi nella vita di ogni giorno e trovare la realizzazione di quella Parola che – ci ha garantito il Padre – lavora sempre, di notte, di giorno, come chicco di grano caduto nella terra e nessuno sa come fa a crescere, a germogliare. E pronunciare il mio grazie per quanto mi era stato dato di vivere. Lo scrissi anche, come postilla dopo l’ultima riga, che il libro poteva essere intitolato “grazie”.
E grazie a don Giacomo che ha messo in risalto qualcosa che a me sembra molto bello e profondo, ma anche quasi estraneo. Io sono e appaio proprio così? Ho vissuto intensamente, certo; un bel momento ne ho cercato il senso; ero ancora in tempo, sui cinquant’anni, a dare un senso alla mia vita, e ho scritto pagina su pagina per trovarlo, attraverso tutti gli avvenimenti che mi avevano permeato e fatto crescere com’ero. Ripeto, tutte queste pagine altro non sono che un dire grazie per il vivere nel modo in cui sono stato costruito, sono stato formato e modellato.
E lo specifico narrando: quindi attraverso la descrizione dell’avvenimento, attraverso una presenza femminile, attraverso il dubbio, il dono di sé, l’amicizia, e anche attraverso ogni resistenza nel buio in questa Parola (re-stare) che chiede di essere accolta, non nonostante ma a causa del buio in cui siamo immersi.
Domanda di Giacomo Canobbio
Nel romanzo, come ho già accennato, l’arciprete occupa un posto rilevante. Lei prima, parlando del suo desiderio di superare la distanza fra l’ecclesiastico e la gente comune, ha fatto percepire il suo desiderio di immergersi nella vita normale; quest’arciprete resta al suo posto, condivide la vita della gente, però non fa il mestiere della gente.
Allora per condividere la vita delle persone, i dubbi, le resistenze alla Parola, è necessario fare proprio questo passaggio e, se sì, come si colloca la figura di questo arciprete?
Risposta Luisito Bianchi
Il 26 luglio del 1943 ero al paese, accanto all’arciprete. La figura dell’arciprete è filtrata attraverso la memoria, che ne ha sedimentato limiti e difetti, facendo emergere la mia riconoscenza per lui. Fin da ragazzo ebbi frequentazione con lui. Mi raccontava dei suoi professori, dei suoi tempi di seminario: portava certamente in sé l’impronta del separato; però riusciva a comunicare ad un ragazzo, come fui io, il mistero della bellezza, per esempio, e anche del senso della natura. “Vedi le stelle, mi diceva, vedi questo dito? Se lo muovo, è il mio cervello che lo fa muovere”; e io, ragazzo che cresce, rimanevo incantato, tanto per fare un esempio fra i molti che emergono in me.
Faceva il salto dalla sua condizione di letterato, di separato, attraverso una trasmissione che si adeguava all’altezza degli altri. Parlava con me, ragazzo, adeguandosi a quello che io potevo capire, ossia capere, contenere.
È una figura reale che molti hanno frequentato; il mio professore di liceo, che l’aveva conosciuto, mi aveva scritto che avevo fatto l’apoteosi di Don Gusberti. Dico grazie a quest’uomo che mi ha dato la possibilità di crescere in quel momento al punto tale da poterne far memoria e quindi trasfigurare il dono che ho ricevuto e che a mia volta – ecco il senso del tradere – sento l’urgenza di trasmettere.
Credo che la separazione, che è insita allo stato sociologico in cui il prete si trova (il levitismo era la tribù che aveva come sorte il servizio del tempio) venga superata da questa fatica e anche gioia della trasmissione.
Certo ho trasfiguro il mio arciprete, perché in realtà aveva dei limiti – lo riconosco, come riconosco i miei limiti – ma essi erano superati da questa necessità del tradere. In fondo tutta la vita è un tradere, una generazione che lascia all’altra generazione quello che faticosamente ha ricevuto dalla generazione precedente. Per stare a livello ecclesiale, prima ancora che esistessero i vangeli, Paolo afferma che trasmette quello che ha ricevuto.
Ed è una cosa straordinaria poter riflettere per individuare anche nella fatica, nel buio, questo filo della trasmissione che poi si ricongiunge al momento, credo centrale, del Vangelo: avete ricevuto trasmettete; ma con un avverbio che dà senso al ricevere e al trasmettere: “gratuitamente”, gratis. È su questo questa modalità che ogni trasmissione riceve forza, riceve lo smalto dell’essere uomo, riceve soprattutto il senso del vivere.
Ecco rispondo in questo modo: è la trasmissione che ci rende uguali; l’impedire la trasmissione è la strumentalizzazione da parte del levitismo, perché non è affatto detto che sia facile per la Chiesa trasmettere la sua dimensione essenziale che è la gratuità del sangue gratuitamente sparso per tutti gli uomini, essere veramente ecclesiale, non ecclesiastica.
In questo sta la ragione profonda della resistenza: la Parola contenuta nel grande Avvenimento era che il sangue gratuitamente sparso di Cristo si congiungeva con quello dei martiri e richiamavano, l’uno e l’altro, il mondo nuovo, la realizzazione delle speranze ch’esso aveva suscitato.
La Chiesa, quando manifesta un interesse, impedisce la trasmissione nella sua verità, di qualche cosa che ha ricevuto gratuitamente e deve gratuitamente trasmettere. Se non trasmette gratuitamente, ma per raggiungere altre finalità, entra nell’antigratuità, impedisce il libero fruire di questo tradere che ha la sua pietra fondamentale nella gratuità.
Ogni uomo nasce gratuitamente e gratuitamente termina la sua esistenza. Su questo gratis che si gioca Dio stesso, la sua stessa vita: si fa uomo gratuitamente, nasce come sappiamo, non chiede nessun privilegio, quindi muore in croce all’ultimo posto. Ecco la gratuità di questo corpo che viene trasmesso. Me ne resi conto un giorno, dopo tanti anni che dicevo: “Fate questo in memoria di me”. Era appunto il fare memoria e rendere attuale l’avvenimento, questo corpo crocifisso e risorto, che costituisce la Tradizione e diventa allo stesso momento rendimento di grazie. In questa visione la separazione viene eliminata nell’unità dell’unico Popolo dei salvati.
Domanda di Giacomo Canobbio
Che cosa ha voluto dire tracciando la figura di Rondine, questo personaggio originale, estremamente simpatico ma fuori da qualsiasi schema, che ha un rapporto del tutto particolare con i morti?
Risposta Luisito Bianchi
Mi è difficile parlare di Rondine perché Rondine mi nasce con la decisione di diventare prete. Proprio in quegli anni in cui fui escluso dall’avvenimento, matura la decisione di scrivere sull’immaginetta della mia prima messa scrissi il versetto in latino del salmo 11 (avevo un po’ di pudore a dirlo in italiano): propter afflictionem humilium et gemitum pauperum. Era la verità, diventavo prete non per le anime, non per salvare, ma propter afflictionem – un propter con valore causale e finale -, per la sofferenza degli umili e il gemito dei poveri.
La figura di Rondine mi nasce in questa decisione: era il povero di Jhavè, l’escluso dalla società, era il povero per cui erano stati deposti i potentes de sede ed esaltati gli umiles, che sa ascoltare la Parola a suo modo, attraverso i morti, ad esempio. È la figura di quello che avrei voluto essere per poter incarnare quell’epitaffio che scrissi sull’imaginetta della prima messa, il povero di Jhavè che assomma in sé ogni grandezza nella condizione dell’umile, colui che sta con la bocca sulla terra e che riesce ad udire la Parola attraverso i morti. Rondine, anche senza saperlo, si unisce così al mistero della morte e risurrezione di Cristo, perché dà la sua vita per salvare quella di Piero.
È il momento supremo della testimonianza del discepolo.
Ho voluto dire questo: è il segno di quello che dovrebbe essere la Chiesa nell’ascolto della Parola in qualsiasi situazione, in qualsiasi momento; e dico Chiesa per dire chi ha udito la parola e la deve trasmettere. Rondine l’ha udita a suo modo e l’ha trasmessa a modo di Cristo, dando la sua vita e facendo quindi del suo corpo il segno dell’amore infinito di Dio.
Domanda di Giacomo Canobbio
Come mai ha voluto inserire nel romanzo le figure di dom Luca e dell’abate, e più in generale la vita del monastero che diventa ad un certo punto vita condivisa con quelli che lottano per la libertà in vista della riconciliazione?
Risposta Luisito Bianchi
Dom Luca scrive nel suo diario: “Ho celebrato la messa col dubbio, mai prima sperimentato, se mi fosse lecito, in questo tempo di morte voluto degli uomini, rinnovare la memoria della morte di Cristo come segno efficace d’amore e di riconciliazione”. Vi confesso che molte volte ho sentito quest’interrogativo dentro di me.
Allora non sapevo nemmeno che cosa comportasse celebrare messa, ma adesso conosciamo la menzogna della guerra. Com’è possibile non gridare questa menzogna e quindi sovrapporre il sangue gratuitamente sparso a quello che viene sparso, strumentalizzato da ogni potere? E la Chiesa che fa? Non dovrebbe essere la Chiesa ad urlare, a gridare?
Ecco, il monastero è non è tanto un luogo, è una parabola che vorrebbe significare quello che dovrebbe essere la Chiesa.
La Chiesa finché rimane invischiata nel potere diventa un non luogo, quando si fa annunciatrice di gratuità diventa “caris-topia”, il luogo di gratuità.
Le domande che si pone Franco attraverso il diario di dom Luca, attraverso il suo ripensamento del sangue gratuitamente sparso dall’abate, che fu il suo abate quando bussò per la prima volta al monastero, vorrebbero indicare l’attualità d’ogni giorno di questa Chiesa che deve farsi annunciatrice della gratuità. La Chiesa finché non è così, sarà sempre un non luogo, sarà sempre un fatto d’utopia, e anche la messa potrebbe essere vista come la copertura della buona coscienza.
Mi sono confessato con voi: ogni giorno mi abbandono alla potenza della Parola che dice questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, e in quel momento c’è il mondo nuovo. Il sangue gratuitamente sparso mi dice che è possibile in quel momento il mondo nuovo, altrimenti ci sarebbe da vergognarsi d’essere uomini e anche da vergognarmi come prete di giocare alla messa.
Voi capite che non è facile dire queste cose, ma le dico con molta pace, con molta serenità, dando il primato assoluto a questa Parola che sa emergere anche attraverso i poteri che alle volte si camuffano di Dio e della Parola di Dio, come se Dio non bastasse a se stesso e non trovasse la sua gloria là, sul trono della gratuità.
Per me, io posso anche concludere stasera la mia vita, e la concluderei così: fu (è) qualcosa che valeva (che vale) la pena di vivere per arrivare a quest’essenzialità della Parola che diventa efficace nel momento in cui la si proclama.
NOTA: testo rivisto dagli Autori della conversazione tenuta a Brescia il 24.11.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Bianchi, La messa dell’uomo disarmato. Un romanzo sulla Resistenza, Sironi Editore, Milano, prima edizione ottobre 2003.