Il tema di questa serie di incontri è etica e politica, e mi è sembrata una scelta giusta da parte degli organizzatori quella di cominciare il discorso proprio con Aristotele. Perché, a proposito di questo tema, Aristotele è effettivamente colui che per primo delinea una certa concezione che, come cercherò di far vedere, per un verso è egli antipodi di quella moderna e quindi rappresenta, per così dire, la grande alternativa al modo moderno di concepire i rapporti tra etica e politica. Ma per un altro verso, proprio negli ultimi decenni, è stata riscoperta e riproposta come una possibile via di uscita dalla crisi che caratterizza la concezione moderna. Quindi il riferimento ad Aristotele non ha soltanto valore di carattere storico, di informazione, di cultura, ma ha anche un significato attuale proprio per questa posizione antitetica rispetto alla modernità e per la funzione che può avere di possibile sbocco, di possibile esito. Con un limite, devo dire, un limite ben preciso. Non possiamo mai dimenticare che Aristotele è un pensatore vissuto quattro secoli prima di Cristo, quindi completamente estraneo alla cultura, alla civiltà cristiana – un pensatore che i cristiani definivano “pagano” – e quindi in molti casi non ci può essere d’aiuto per risolvere i nostri problemi. Ma direi che anche questa sua caratteristica, questa sua estraneità ad una visione religiosa della vita, come può essere appunto il cristianesimo, lo rende secondo me interessante perché ci fa vedere dove la ragione umana con le sue sole forze, senza l’aiuto di nessuna rivelazione divina, è potuta arrivare. E questo è interessante da sapersi anche per i credenti o comunque per tutti coloro che hanno tratto vantaggio dall’avvento del Cristianesimo e dalla nuova concezione della vita che esso ha portato.
Possiamo dire che, mentre nella cultura moderna e soprattutto nella filosofia moderna assistiamo ad una profonda divaricazione, ad una netta separazione tra etica e politica – il nome emblematico a questo proposito è quello di Machiavelli, con il quale la politica si rende del tutto autonoma, si emancipa dall’etica – dove l’etica viene relegata nella sfera del privato, nella sfera della vita privata in cui il potere politico non deve interferire. La politica viene a costituire una sfera a sé chi si presume indipendente, autonoma, dall’etica, in cui l’etica a sua volta non deve interferire. Questa è la tipica concezione moderna che poi naturalmente subisce modifiche, correzioni, nei diversi autori ma emblematicamente esprime questa separazione.
In Aristotele abbiamo la posizione opposta, cioè abbiamo l’unità di etica e politica. Non la confusione.
È proprio Aristotele il primo che introduce nella cultura la parola “etica” e la parola “politica”, che sono due parole distinte. Quindi una qualche distinzione c’è anche in Aristotele. Non dimentichiamoci che “etica” e “politica” sono i titoli di due sue opere. Anzi, per quanto riguarda l’etica, pare che ne abbia scritte anche più di una: “Etica a Nicomaco”; “Etica ad Eudemo”; ce ne è una terza di cui se ne discute l’autenticità, la cosiddetta “grande etica”. E poi ha scritto un trattato intitolato “Politica”. Quindi etica e politica sono due concetti distinti, ma, come vedremo subito, non separati, non contrapposti, perché sono due parti di una medesima scienza. Sono due parti di un medesimo discorso, che Aristotele chiama “filosofia pratica”, che a volte chiama anche con l’espressione “scienza politica”, dove la politica è il tutto che comprende sia l’etica sia la politica nel senso più particolare. E scienza politica, vedremo subito che cosa vuol dire, non è una scienza come le scienze naturali come la matematica, la fisica, eccetera, è un tipo particolare di scienza che poi viene espresso anche mediante l’espressione “filosofia pratica”.
Allora, ripercorriamo molto sommariamente il contenuto di questi due grandi trattati di Aristotele, l’“Etica Nicomachea” e la “Politica”, perché, anche con un semplice riassunto vediamo subito come si articola in questo pensatore il rapporto tra queste due posizioni.
Sin dall’inizio dell’”Etica” Aristotele dichiara che ogni azione umana ha sempre come fine un bene. L’uomo agisce in vista di un bene. Ci sono però beni che sono strumentali in vista di altri e ci sono beni che vengono desiderati per se stessi e non in vista di altri. Potremmo dire oggi “ci sono mezzi e ci sono fini”. A volte si persegue un mezzo, ma lo si persegue perché lo si giudica utile a realizzare un fine. Il bene dell’uomo, dice Aristotele, il bene supremo a cui l’uomo aspira, è un fine ultimo. Non è mezzo in vista di altro, ma è un fine ultimo. È quello che lui chiama “l’ottimo”, il bene supremo, “ariston” in greco. E dice subito che il bene del singolo uomo, del singolo individuo, è parte del bene della città, perché il singolo individuo a sua volta è parte della città. La città in greco si chiama “polis”, non è la città nel senso dell’agglomerato urbano, non sono le case, le strade, le piazze; è l’insieme di tutti i cittadini, l’insieme di tutti coloro che collaborano alla realizzazione di un fine comune. E questo fine comune è il bene, il bene della città, quello che poi la scolastica cristiana e la dottrina sociale della Chiesa chiamerà “il bene comune”. È un’espressione che si trova anche in Aristotele, “il bene comune”. E di questo “bene comune” il bene del singolo è una parte. Quindi la scienza che tratta del bene tratta del bene comune, del bene della città, per questo si chiama “scienza politica”, da polis. Ma attenzione, non è la politica nel senso moderno, cioè come dirà Machiavelli l’arte di conquistare il potere e di conservarlo il più a lungo possibile, è la scienza che indica quali cose si devono fare e quali si devono evitare, se si vuole realizzare il bene comune. Questo lo dice Aristotele all’inizio de l’“Etica Nicomachea”, e dice che la scienza che egli si accinge a esporre è la politica. Quindi vedete che già l’etica fa parte della politica, è la prima parte della politica.
E vediamo allora come il discorso sul bene del singolo, che poi prenderà il nome appunto di etica, diventa parte del discorso più generale sul bene della città. Il bene del singolo, per Aristotele, era quella che tutti chiamavano già allora “la felicità”. Ciò a cui ciascuno aspira come fine ultimo di tutte le sue azioni è la felicità. Dopo il Cristianesimo, il concetto di felicità è diventato sospetto, perché ha dato l’impressione di rappresentare una visione egoistica, in quanto ciascuno si preoccupa soltanto della propria felicità. Ma non era così per Aristotele e per i greci proprio per quello che abbiamo appena visto prima, cioè perché la felicità del singolo è parte della felicità di tutti. Non si può essere felici da soli. Uno che vivesse in mezzo a degli infelici, non potrebbe mai essere felice. Quindi non è una concezione egoistica. È la concezione che cerca di rispecchiare quella che è la tendenza propria di tutti gli uomini, in tutte le epoche, in tutti i paesi, cercare di essere felici. Per realizzare questo che secondo Aristotele è il bene dell’uomo, il fine ultimo, tuttavia sono necessarie tante cose. Qui Aristotele si rivela filosofo più realista di tanti altri.
C’erano nell’antichità molti filosofi tra cui anche Platone, poi dopo Aristotele soprattutto gli storici i quali pensavano che se uno è veramente filosofo non deve avere bisogno di niente, deve essere autosufficiente, deve essere felice in virtù delle sue stesse capacità; deve quindi disprezzare tutti i beni materiali, deve poterne fare a meno, deve sapere bastare a se stesso. Questo lo pensava in qualche misura già Platone, maestro di Aristotele, e soprattutto lo avrebbero detto gli storici, che arrivano a dire che il saggio è felice anche tra i tormenti. Aristotele non era di questa opinione. Sapeva che per essere felici sono necessarie tante condizioni che non dipendono da noi: la salute, se uno non ha la salute difficilmente può essere felice, un minimo di risorse materiali, per vivere con i beni necessari e anche con una certa dignità. Poi lui diceva che, siccome i Greci davano molta importanza all’aspetto fisico, bisognava essere anche belli, ma belli vuol dire avere un aspetto presentabile, non essere ripugnanti. È difficile essere felici se si è veramente ripugnanti. Poi diceva che bisogna avere una buona famiglia, avere dei buoni figli, figli che non degenerino. E poi diceva che bisogna avere degli amici, cioè delle persone care a cui si vuole bene e da cui si è amati. Tutte cose che non dipendono da noi, dipendono dalla fortuna, dipendono da circostanza esterne. Quindi la felicità è un bene che è a rischio, non sempre si riesce a realizzare. Anzi, lui diceva “uno non può mai dire di essere felice prima di essere arrivato alla fine della sua vita”, solo alla fine può dire se è stato felice, perché in qualsiasi altro momento gli potrebbe capitare il giorno dopo la più grande disgrazia e, quindi, come potrebbe essere felice? Dunque la nostra felicità dipende da circostanza esterne. Poi naturalmente dipende anche dalle virtù, dalle capacità del singolo, dalla capacità di realizzare se stesso, di realizzare il meglio di sé.
E questa è, io credo, la vita, la famosa vita teoretica, che però è possibile se ci sono prima tutte queste condizioni esterne. E tra le condizione esterne, Aristotele dice anche che bisogna vivere in una città ben governata. Perché se si vive in una città governata male, con leggi fatte male, non è possibile essere felici, non si realizza il bene delle città e non si realizza nemmeno il bene del singolo individuo.
Per questa ragione, dopo avere illustrato il suo concetto di felicità nell’“Etica Nicomachea”, ricorda che alla fine la vera felicità è la piena realizzazione di sé, che si esprime nella possibilità di svolgere attività che siano fini a se stesse. E cioè quelle che noi chiamiamo le attività dello spirito, le attività culturali, amare l’arte, la letteratura, la poesia, la musica, e per Aristotele, siccome lui era appassionato alla ricerca scientifica in tutti i campi, nella botanica, nella zoologia, nella storia, potersi dedicare con tutto il proprio tempo libero allo studio, alla ricerca era l’ideale dello scienziato. Non è la contemplazione di quello che sarà poi il significato cristiano del termine, cioè la vita contemplativa, per esempio, degli ordini religiosi, che è contemplazione di Dio. Per Aristotele non è contemplazione di Dio. C’è anche un aspetto che riguarda le cause prime e quindi Dio, ma è la ricerca in tutti i campi, che però per potere essere realizzata richiede quelle condizioni che, dicevo prima, che non dipendono da noi, senza le quali non si può essere felici. E tra queste importantissima è appunto quella che lui chiama “la giustizia”, cioè l’essere in una città giusta, in una città governata secondo giustizia e con buone leggi, con leggi giuste. All’inizio dell’“Etica Nicomachea” ha detto che si accingeva a esporre la scienza politica, ovvero la filosofia pratica; alla fine dice, dopo avere parlato della felicità, dopo avere parlato della vita teoretica, dice che cosa deve fare il filosofo per la città per far sì che la città sia una città giusta. E qui, come anche in altri punti, si distingue, si differenzia dal suo maestro, cioè da Platone. Per Platone, il filosofo deve governare. O il governante deve essere filosofo. Quindi per Platone una città è giusta, è governata bene, solo quando è governata dai filosofi. Aristotele non arriva a questo, del resto Platone l’ha detto una volta, ma poi ha fatto marcia indietro perché poi in tutti i dialoghi successivi non ha più insistito nel presentare questa tesi ed è ripiegato su tesi più moderate. Aristotele dice che non c’è bisogno che il filosofo sia un governante, ma un filosofo può dare il suo contributo indicando ai governanti quale è la costituzione migliore. Lo dice alla fine dell’“Etica Nicomachea”. Bisogna trovare qual è la costituzione migliore. E questo è il discorso che introduce all’opera immediatamente successiva che è la “Politica”. La “Politica” è appunto il trattato sulla costituzione, su quella che i Greci chiamavano “politeia”, che , tra parentesi, è il titolo della “Repubblica” di Platone, si può tradurre anche con “repubblica”. Comunque in greco il grande dialogo di Platone sulla città ideale si chiama appunto “Politeia”. “Politeia” si potrebbe tradurre anche con Costituzione. E nella politica Aristotele fa questo. Sono cose molto note, ma sono un grande contributo a questa scelta, cioè delinea tutti i possibili tipi di costituzione. La costituzione ci descrive il modo in cui una città è governata. Le città, lui dice, può essere governata da uno solo, o da pochi, o da molti. Quando è governata da uno, questo è il re, abbiamo il regno, la monarchia, la “basileia”. Ma anche qui però bisogna vedere come governa, questo uno, perché se fa il bene comune e cioè l’interesse dei governati, allora ha diritto al titolo di re e ha diritto di essere amato dai suoi cittadini. Ma se invece fa solo il proprio interesse e non quello dei governati, allora non è un re, ma è un tiranno. E la costituzione non è più il regno, ma è in questo caso la tirannide. Quando invece i governanti sono pochi, anche qui se sono buoni, se governano per l’interesse di tutti, abbiamo una aristocrazia (da “Ariston”, i migliori). Se invece fanno solo il proprio interesse, abbiamo una oligarchia, che vuol dire il “governo di pochi”, in genere voleva dire “il governo dei ricchi”. E infine, quando c’è il governo di molti, qui, in greco, c’era la parola giusta, ma indicava solo il cattivo governo dei molti, ed era “democrazia”. In greco “democrazia” vuol dire il “governo del demos”, e per Platone e per Aristotele il demos non governa bene. Il demos governa soltanto, anche quello, nel proprio interesse e non per il bene comune. Per indicare il governo di molti orientato al bene comune, Aristotele non trova nessuna parola, e allora lo chiama con la parola generale che indica la costituzione, che sarebbe “politeia”, e quindi viene tradotto di solito con “politica”. Parola nuova, che non appartiene al lessico tradizionale.
Qual è, tra tutte queste forme di governo, la migliore?
Dipende, dice Aristotele. Per alcuni popoli può andare bene la prima, perché sono i popoli, oggi diremmo, in via di sviluppo, non ancora del tutto sviluppati, che non sanno governarsi da sé. E questi, secondo Aristotele, erano quelli che i Greci chiamavano barbari, Persiani, Traci, eccetera, che infatti avevano delle monarchie. Ma i Greci no. Secondo Aristotele i Greci sanno governarsi da sé. Quindi per i Greci la costituzione migliore è quella a cui tutti partecipano. Sarebbe quella che prima abbiamo chiamato “politeia”: e qui si rivela anche una volta di più l’intreccio tra etica e politica.
Scusate se faccio un passo indietro: nell’etica, parlando delle virtù, Aristotele aveva enunciato la famosa teoria del giusto mezzo, secondo la quale la virtù è sempre il giusto mezzo tra due vizi opposti. Un vizio può essere l’avarizia, un altro vizio opposto può essere la prodigalità. La virtù è la giusta via di mezzo, cioè essere generosi, ma non prodighi, non spendaccioni. E così via in tutti i campi. Questa idea che la virtù, cioè il bene, sta nel giusto mezzo, lui la applica anche alla costituzione. E dice che la costituzione ideale è il giusto mezzo tra oligarchia e democrazia, che sono due vizi, sono due estremi. E allora risulta quella che oggi chiameremmo una democrazia moderata. Una democrazia in cui tutti possano partecipare al governo. Ovviamente non tutti in una volta, perché ci devono essere quelli che governano e quelli che sono governati. Anzi, per Aristotele, se il governo funziona bene, se è un buon governo, è molto più vantaggioso essere governati che governare. Perché essere governati bene vuol dire ricevere tutti i benefici che derivano dal buon governo, mentre quelli che governano devono darsi da fare, devono mettersi al servizio degli altri. Questa idea che il buon governo è un servizio è anche un’idea cristiana, ma prima ancora di essere un’idea cristiana si trova in Aristotele. Lui lo dice chiaro. Il governante è al servizio del governato. E quindi il governo, la costituzione ideale è quella in cui tutti possono partecipare al governo, cioè trovarsi nella condizione di essere governanti e anche di essere governati. Ma siccome non si possono fare le due cose contemporaneamente, le si dovranno fare a turno. Cioè tutti i cittadini, a turno, devono partecipare al governo, devono quello che oggi diremmo “prestare il loro servizio al bene comune”. E dopo che hanno prestato il loro servizio, hanno diritto di ritirarsi e godersi i vantaggi dell’essere ben governati.
E in questa costituzione ideale, che è la proposta che egli fa nella sua politica, è interessante vedere quali sono scopi che egli propone alla città, alla polis, e ai governanti. La sicurezza, la difesa, la guerra. La guerra per i Greci era qualche cosa di inevitabile. Non potevano vivere senza la guerra, sia perché avevano i barbari, i Persiani, avete presente tutte le guerre contro i Persiani, sia perché le stesse città greche spesso lottavano per l’egemonia. Sparta, Atene, Tebe, quindi erano in guerra. Quindi, dice Aristotele, ci vuole qualcuno che faccia la guerra. Però, dice subito, la guerra non per dominio, non per conquista, non per stabilire l’egemonia, ma la guerra solo per quel tanto che è necessario al fine di ottenere la pace, al fine di vivere in pace. Quindi la guerra non è il fine. La guerra può essere un mezzo necessario, ma il fine è la pace. E quindi lo scopo della polis, del buon governo, è anzitutto di garantire la pace. Poi oggi diremmo l’ordine, ma vedremo che queste sono categorie più moderne.
Subito dopo avere parlato della sicurezza, Aristotele introduce il discorso sulla educazione, la scuola. E l’educazione per Aristotele come per tutti i Greci era compito non della famiglia, era compito della polis. La polis doveva garantire a tutti l’educazione. E cioè doveva organizzare, come diciamo noi oggi, le scuole, le scuole pubbliche. E Aristotele si diffonde anche nell’illustrazione di quello che si deve fare nella scuola. L’ultimo libro della “Politica”, il libro ottavo, è totalmente dedicato all’educazione, a quella che lui chiama la “paiedeia”, che sarebbe il modo di trattare i bambini, i “paides”. E spiega che bisogna abituarli a cantare, a danzare, ad amare la musica, ad amare la poesia. E poi continua dicendo che tutte queste attività sono quelle che purificano l’animo dalle passioni, e che conducono alla felicità. A questo punto il libro poi si interrompe, probabilmente una parte è andata perduta perché è un libro molto più breve degli altri, ma si capisce dove andava a parare, cioè il compito fondamentale della polis è garantire le condizioni che permettano a ciascuno di realizzare la propria felicità attraverso l’esercizio delle attività fini a se stesse. E queste sono quelle che si apprendono per mezzo della “paideia”, per mezzo della cultura. Se uno non ha avuto nessuna educazione non potrà mai gustare l’arte, non potrà mai gustare la musica, la poesia, la letteratura, la scienza, la filosofia. E quindi se la felicità consiste nel godere di queste attività, compito fondamentale della città è di offrire a tutti la possibilità di godere di queste attività. E quello che oggi chiameremmo “un fine di carattere etico”, di carattere morale, che è il bene, il bene del singolo come parte del bene della città. Per un verso si ha l’impressione che in questo modo il singolo, l’individuo, venga come dire sottomesso alla città, che la città sia più importante del singolo. E questo suscita una certa difficoltà in noi moderni perché, grazie anche al cristianesimo, abbiamo imparato che il singolo, il singolo individuo è portatore di una dimensione che va oltre la sfera politica, le sfera terrena. E quindi non ci sentiamo soltanto parte della città, ovvero della società politica. Però anche Aristotele non è che riducesse il singolo soltanto alla dimensione del cittadino. Sì, questa è fondamentale. Aristotele diceva “l’uomo è per natura animale politico”, che vuol dire “fatto per vivere nella polis”, che fuori dalla polis non può realizzare se stesso. Fuori dalla polis, diceva Aristotele, possono vivere soltanto le bestie o gli dei. Le bestie perché sono inferiori all’uomo e non hanno il logos, la parola, e la polis si fonda sulla possibilità di discutere insieme che cosa è bene e che cosa è male, che cosa è giusto e che cosa non lo è. E questo richiede la parola, e questa le bestie non ce l’hanno, quindi nelle bestie non c’è polis. E non c’è nemmeno per gli dei, perché gli dei non hanno bisogno di discutere, hanno già tutto, e quindi sono autosufficienti.
L’uomo è per natura animale politico. Questo però non vuol dire che la sua felicità si esaurisca nella vita politica. La vita politica è la condizione per realizzare la felicità, ma, come ho detto ormai più volte, la felicità consiste nell’esercizio di attività che siano fini a se stesse, come l’arte, la filosofia, la scienza, che dunque vanno oltre la dimensione politica. E quindi in un certo senso c’è già qui la consapevolezza che l’uomo non si esaurisce tutto soltanto nelle relazioni politiche. Ora, questa concezione che ho delineato in maniera molto sommaria, è appunto agli antipodi di quella moderna. E allora consentitemi di dedicare ancora qualche minuto, per parlare non più di Aristotele, ma di quello che è successo dopo, di come ci si è allontanati dal suo pensiero, e di come in qualche misura oggi lo si sta recuperando, lo si sta riscoprendo.
La politica di Aristotele non ha avuto molta fortuna nell’antichità, non si sa bene perché, nemmeno tra gli Arabi, che sono stati i primi a scoprire le opere di Aristotele nel Medioevo (sono loro che poi le fanno conoscere ai cristiani). Averroè, per esempio, il più grande commentatore arabo di Aristotele, dice che sa che Aristotele ha scritto la “Politica”, ma non gli è arrivata, non ce l’ha, non l’ha letta. La “Politica” viene riscoperta nell’Europa Occidentale tardi, precisamente nel 1265. È l’anno di nascita di Dante Alighieri. Quando San Tommaso già da tempo che insegnava filosofia a Parigi. Nel 1265 la “Politica” di Aristotele viene tradotta per la prima volta dal greco in latino. E quindi l’Europa cristiana scopre la “Politica” di Aristotele. E questa scoperta imprime una svolta nella filosofia politica europa, che sino a quel momento era stata dominata da Sant’Agostino, dall’agostinismo. Sant’Agostino aveva una concezione profondamente religiosa, ma anche pessimistica. Cioè per Sant’Agostino, l’uomo in seguito al peccato originale è stato vulnerato. La natura umana è ferita, è vulnerata. Quindi non tende più spontaneamente al bene, ha bisogno della grazia divina per salvarsi. L’uomo tende al male. E quindi, dice Sant’Agostino, ci vuole un parere che lo freni, che lo tenga, che lo disciplini. Questa è la ragion d’essere della politica secondo Agostino. Il potere si giustifica come una forza necessaria per tenere a freno gli istinti dell’uomo definitivamente traviati dal peccato originale. Quindi è una concezione negativa della politica. La politica, in fondo, è un male minore.
Quando scoprono nel 1265 la “Politica” di Aristotele, si trovano di fronte a una concezione totalmente diversa. Aristotele non sa niente del peccato originale. Per Aristotele l’uomo per natura è animale politico, e per natura tende al bene.
San Tommaso, che capì la grandezza di Aristotele, e capì l’utilità per la cultura cristiana di rifarsi ad Aristotele, cioè ad un pensatore che in quel momento rappresentava la scienza, rappresentava la cultura che oggi chiameremmo “laica”, aderisce alla concezione di Aristotele. E quindi, anche da un punto di vista cristiano, dà alla politica una giustificazione in termini positivi. Non è più la forza necessaria. Pensate che il pensatore della scolastica precedente è San Tommaso, che non aveva letto la “Politica” di Aristotele, Giovanni di Salisbury, che era un inglese, aveva detto che in fondo il potere politico era rappresentato soprattutto dal boia, il boia è quello che dà la morte, che esegue le sentenze di morte. Cioè la politica è soltanto con funzione coercitiva.
No, per San Tommaso, che aderisce ad Aristotele, la politica diventa qualche cosa di positivo. E qui alcuni secoli più tardi, nell’Ottocento, nasce da San Tommaso la dottrina sociale della Chiesa. La dottrina sociale della Chiesa cattolica si fonda tutta su San Tommaso, e si fonda quindi su Aristotele, attraverso San Tommaso.
E così attraverso San Tommaso ritorna Aristotele.
Nella cultura moderna, invece, dicevo prima, con Machiavelli entra una concezione completamente diversa. Machiavelli (era un repubblicano) pensava che la politica doveva avere come fine il bene comune. E lo scrive nei suoi discorsi sopra la prima decade di Tito Livio. Però era anche un intelligente, anzi un geniale osservatore della realtà. Machiavelli vive nel momento in cui nasce una realtà storica del tutto nuova, che non c’era mai stata né nell’antichità né nel Medioevo: lo stato moderno. Guardate che lo stato è una tipica creazione moderna. Certi dicono che la polis era la città stato: non è vero, è qualcosa di completamente diverso. Non è corretto tradurre “polis “con “stato”. La polis è la città, cioè l’insieme dei cittadini che cooperano alla realizzazione del bene comune. Lo stato è un’altra cosa. Lo stato non è l’intera comunità, l’intera società; è una parte di essa, una parte che può comprendere alcuni individui, tanti o pochi, che sono oggi diremmo gli statali, quelli che operano per conto dello stato. Naturalmente nelle sfere più alte è il luogo in cui si esercita il potere. È, per riprendere la definizione di stato data da Max Weber, l’istituzione che detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza. Nella società moderna lo stato nasce, e chi ne descrive genialmente la nascita è Thomas Hobbes (il filosofo inglese del “Leviatano”). Anche lui parte da una concezione opposta a quella di Aristotele: gli uomini sono tutti in guerra gli uni contro gli altri, “homo homini lupus”. Per porre fine a questa guerra di tutti contro tutti, è necessario che tutti depongano le armi, le depongano ai piedi di un sovrano, e che l’uso delle armi sia consentito a uno solo, il sovrano appunto. Ecco il Leviatano, il quale ha un unico compito: garantire l’ordine, garantire la pace, non la felicità. Ormai lo stato moderno non si pone neanche il problema della felicità.
E questo come si ottiene? Togliendo a tutti gli altri qualunque potere, qualunque uso della forza, cioè disarmando tutti, togliendo le armi a tutti, affidandole solo al sovrano. Per questo, con la nascita dello stato moderno, nasce anche la figura del privato. Che cosa vuol dire “privato”? Letteralmente, “che è stato privato di qualcosa”, che aveva qualcosa che gli è stato tolto. Che cosa gli è stato tolto? Il potere: il potere è stato tutto concentrato unicamente nello stato. All’inizio lo stato è un singolo individuo, è il sovrano assoluto per Hobbes, ma poi può essere anche un’assemblea. Con Rousseau, che era un democratico, sarà l’assemblea del popolo, l’assemblea dei rappresentanti del popolo. Ma è sempre un sovrano assoluto, e il potere è solo lì. Non è sparso dovunque, i cittadini non hanno più potere, diventano privati, nasce il cittadino privato. E quindi la società, per così dire, è divisa in due: da una parte c’è lo stato, e dall’altra c’è quella che poi viene chiamata la società civile, che è la società dei privati. E così nasce il dualismo di etica e politica. La politica è compito dello stato, va lasciata solo allo stato. E il privato si darà delle regole che in genere gli vengono dalla religione e costituiscono l’etica, ma l’etica diventa qualche cosa che vale solo nella sfera della vita privata. Cioè i rapporti familiari, i rapporti tra i singoli. È tutt’altra cosa rispetto alla politica.
Certo la politica non deve interferire nella vita privata, e qui si fa un passo avanti rispetto a Hobbes, perché nasce il liberalismo, con Locke, con Montesquieu e poi con Kant. Kant è il grande esponente del liberalismo moderno, che riconosce alla sfera privata una sua autonomia entro la quale lo stato non deve interferire, non spetta allo stato dire qual è il mio dovere morale. È la mia coscienza che me lo dice, secondo Kant. Non tocca allo stato realizzare la mia felicità, ci penso io. La concepisco come pare a me, non come vuole lo stato. E capite allora il dualismo tra etica e politica, la separazione completa. La politica non interferisce nella vita privata, ma nel suo campo non riconosce nessun’altra legge, nessun’altra regola. Non c’è quindi religione che tenga, non c’è etica che tenga. Il fine giustifica i mezzi. E qual è il fine? Machiavelli l’aveva detto, nel “Principe”, come si conquistano e come si conservano i principati, cioè il potere.
Ecco la politica nel senso tipicamente moderno: l’arte di conquistare e conservare, con qualsiasi mezzo, il potere. È proprio la separazione completa di etica e politica. Naturalmente questa fase, che comincia nel Cinquecento con Machiavelli e dura quasi fino a tutto il Novecento, perlomeno fino alla metà, a un certo punto entra in crisi nel Novecento, il secolo delle più grandi e delle più tragiche guerre mondiali. Il sistema degli stati non è stato capace di produrre se non guerre, e le più gravi, le più tragiche sono state quelle, specialmente la seconda guerra mondiale, condotte in nome dei totalitarismi: il fascismo, il nazismo, il comunismo. E questo ha messo in crisi la concezione moderna della politica. Non a caso nei primi anni del dopoguerra, negli anni Cinquanta, alcuni pensatori e alcuni filosofi significativamente ebrei, esuli dalla Germania, Leo Strass, Eric Voegelin, Hannah Arendt (sono tutti filosofi che lasciano la Germania per sottrarsi alla persecuzione nazista degli ebrei), vanno in America, vanno negli Stati Uniti e comincia una nuova fase della filosofia politica, che tenta un recupero dell’unità antica di etica e politica, perché le guerre scatenate dai totalitarismi avevano mostrato a quali conseguenze tragiche va incontro una politica totalmente sganciata dall’etica. Una politica che si basa unicamente sul potere, sulla conquista del potere, va incontro alla distruzione del genere umano. Ecco allora il ritorno, e Leo Strass si richiama a Platone, così come Eric Voegelin, perché anche in Platone c’era quall’unità di etica e politica che poi rimane in Aristotele (e Hannah Arendt si richiama ad Aristotele). E poi questo richiamo alla filosofia pratica degli antichi si afferma con la cosiddetta “riabilitazione della filosofia pratica”, la riscoperta di virtù come la “phronesis” (la saggezza); la riscoperta dell’etica delle virtù, quando un pensatore americano come McEntire scrive il libro “Dopo la virtù” in cui dice che la grande scelta che si fa oggi è fra Nietzsche o Aristotele. Nietzsche rappresenta la fine della morale, Aristotele rappresenta la morale della virtù. E quando con pensatori come Martha Nussbaum si riprende il concetto aristotelico di felicità come piena realizzazione delle capacità umane, come vita fiorente, e addirittura con un economista come Amartya Sen si riprende la concezione aristotelica, anche qui, della felicità come “dare a ciascuno la possibilità di realizzare le sue capacità”.
C’è questo massiccio ritorno alla concezione antica dei rapporti tra etica e politica, che ancora non ha inciso profondamente nel modo di vivere, nel modo di pensare della società contemporanea perché è recente, ma si è manifestato sia in Europa sia in America e ha trovato per esempio altre convergenze molto significative da parte della filosofia cristiana. Un filosofo come Jacques Maritain, nel 1951, scrive “L’uomo e lo stato”, e lo scrive in America, a contatto con questi altri filosofi americani, quelli che hanno fatto il progetto di costituzione mondiale, immaginando che il mondo possa arrivare a unificarsi in un’unica società politica. Maritain era tomista e attraverso San Tommaso recupera il concetto aristotelico di società politica come polis avente per fine il bene comune, e lo contrappone al moderno concetto di stato, diagnosticando in maniera secondo me profetica la crisi e il declino dello stato moderno dello stato moderno, che lascia prevedere la sua fine, la sua scomparsa, prima o dopo.
Del resto, tutto ciò che nasce nella storia è destinato prima o dopo a morire, a scomparire. Lo si vede subito rilevando che nessuno stato al mondo ormai è autosufficiente. Il fenomeno della globalizzazione non è il segno del declino dello stato sovrano che pretendeva di essere autosufficiente? E quindi si va sicuramente verso una nuova organizzazione anche dei rapporti politici che oggi è difficile prevedere poiché nessuno di noi è profeta, ma che probabilmente ricomporrà la scissione moderna tra etica e politica. Almeno io me lo auguro.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 23.2.2007 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.