A Diogneto, impropriamente detta Lettera a Diogneto, in realtà è un discorso, un opuscolo, un testo strano che c’è stato tramandato per caso
È stato scoperto nel 1436 a Costantinopoli, in un podere di un pescivendolo che stava incartando il pesce con questo manoscritto che era l’unico di quest’opera.
L’ha visto un chierico occidentale, Tommaso d’Arezzo, l’ha comprato e portato in Occidente, l’hanno trascritto e dopo di che è andato distrutto nel bombardamento prussiano di Strasburgo nel 1870 durante la guerra franco-prussiana, sicché non avremmo più il testo se non fosse stato nel frattempo trascritto da studiosi alsaziani.
L’opera è considerata la perla apologetica cristiana, ignota anche ai cristiani antichi forse perché aveva un carattere particolare, tutto suo, diverso da quello delle altre opere dei cristiani che scrivevano per difendersi, dialogavano per sopravvivere.
L’A Diogneto invece vede il dialogo come costitutiva essenza del cristiano, non come una tattica, e propone una soluzione non sacrale ma laica, anche se parte da un problema sacrale.
Di solito gli autori di questo tempo dicevano: “Io vi spiego qual è il Dio dei cristiani e come si contrappone alle altre divinità”.
L’autore dell’A Diogneto parte da un altro problema: non definisce il Dio dei cristiani, ma rintraccia il volto del Dio dei cristiani a partire dal culto che i cristiani attuano.
Quindi, piuttosto che dare una definizione teologica, propone un cammino a ritroso: il culto e il comportamento dei cristiani rivelano la natura del loro Dio.
Perciò i cristiani diventano per così dire costruttori della fisionomia del loro Dio, responsabili della trasmissione dei dati di Dio agli altri.
E comincia a dire: “prima come si configurava il culto?”
Il culto pagano dava un valore funzionale al sacrifico agli idoli, dando offerte richiedeva benefici.
Un Dio economicistico, come si dice, che risponde all’offerta con il beneficio. Il Dio più importante è quello fatto con il materiale più prezioso, pensiamo alle statue d’oro e d’avorio di Fidia ad Olimpia o alla statua d’Atena nel Partenone.
La mentalità ebraica, secondo l’autore dell’A Diogneto, ha un culto minuzioso, materiale, fatto di prescrizioni e di offerte a Dio.
Il sacrificio materiale rivela perciò un’inesatta natura di Dio perché sembra che Dio abbia bisogno dell’offerta per dare beneficio, mentre – dice in nostro Autore – Dio ha donato all’uomo i beni della natura perché le usasse a suo uso e consumo. Il sacrificio di cose materiali alla divinità è come respingere un suo dono e lo rende simile ad un idolo.
Mentre i pagani credono di fare onore a chi non è in grado di riceverlo, perché muto e sordo, i giudei credono di fare onore a chi non ne ha bisogno.
Ma allora qual è il culto dei cristiani? Di solito, anche qui, gli autori dei cristiani antichi, sgombrato il terreno su com’erano i pagani e gli ebrei, passavano a trattare i cristiani come una nuova razza; nel panorama antico i cristiani furono chiamati “terza razza”, perchè non erano né pagani né ebrei, ed era difficile collocarli per la mentalità antica.
Però il nostro Autore non imposta il discorso in un problema di razza, di stirpe, ma sceglie la strada dell’immagine non etnica ma universale del Dio dei cristiani.
Non si può parlare di una differenza etnografica fra i cristiani e gli altri uomini. Il rapporto che si stabilisce fra i cristiani e il mondo è il segno del rapporto che lega il divino al mondo, è un identità quindi alla rovescia.
Il cristianesimo non è un legame nazionalistico, linguistico, culturale in genere, è anima, come vedremo, del mondo.
Il cristiano non si differenzia per segni esteriori: “non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per modo di vestire”.
La città cristiana non esiste per l’Autore dell’A Diogneto, e del resto il Concilio non parla mai di città cristiana: “Non abitano mai città loro proprie, non si servono di un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita…. Sono sparpagliati nelle città greche e barbare, secondo che a ciascuno è toccato in sorte”.
Seguano le usanze locali nel mangiare, nel vestire e nel il modo di vivere. Quindi il cristiano non si ritaglia una propria zona franca e nemmeno fonda un sistema ideologico, deve apparire in tutto uguale a coloro in mezzo ai quali opera senza svendere il concetto del proprio Dio.
I compagni di strada vedranno la natura del Dio dei cristiani dalle loro opere ed è bene che ignorino da quale fonte intima quelle opere provengono, proprio perché credano che quella vita sia possibile a loro anche se non credono.
Cominciano a questo punto una serie d’affermazioni dialettiche introdotte da una notissima affermazione: “Si conformano alle usanze locali nel vestire, nel cibo, nel modo di comportarsi: e tuttavia, nella loro maniera di vivere, manifestano il meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale”.
La comunanza visibile con gli altri uomini non cancella la loro specificità, ma la evidenzia una cittadinanza paradossale, in senso proprio etimologico “paradoxa”, che va contro l’opinione comune.
E in cosa consiste questo paradosso? La coesistenza dell’appartenenza congiunta alla città del mondo e alla cittadinanza celeste, et et, non scelgono l’una per abbattere l’altra, “distinte ma non separate” diceva Maritain fondandosi anche su questo testo.
Ecco allora una serie d’affermazioni: abitano i cristiani la propria patria ma come domiciliati temporanei (Matteo Perrini traduce “come immigrati che hanno il permesso di soggiorno”), “adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure portano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera”.
Stava stretta all’Autore dell’A Diogneto la grande divisione politica della polis antica, che distingueva nettamente tra i cittadini e gli stranieri; i primi, nati nella città soggiacevano alle leggi di quella città e vedevano addirittura nelle leggi il loro ideale, il loro fine di vita, come nello Stato etico hegeliano. Lo Stato antico dà ai cittadini il bagaglio di valori.
Al di fuori di esso c’erano gli stranieri, nati all’esterno che venivano temporaneamente ad abitare in quella città ma si guardavano bene dall’integrarsi, pronti a tornare a casa come estranei.
L’Autore dell’A Diogneto dice: il cristiano non si riconosce né in un concetto né nell’altro, perché non è cittadino della sua città perché la sua patria è il cielo, da là viene e là deve tornare, e però non è straniero perché lui non passa dalla città come se lui fosse indifferente alla sua vita, alla sua realizzazione. La città è il luogo in cui deve impegnarsi a trasfondere la sua cittadinanza e allora salta fuori questa categoria, gli “avventizi”, che sono persone che non sono nate in quella città, vengono da fuori, però s’impegnano a costruire quella città.
Ecco la tensione, la doppia appartenenza dei cristiani nel mondo: non riconoscono alla città, al mondo, il privilegio di dettare le regole del loro fine e, tuttavia, non si staccano da essa e cercano di collaborare con tutti a costruire a città terrena.
È un concetto nuovo: il cristiano accetta la città, ma con la riserva che gli proviene dall’appartenenza ad un altro Regno che sta prima e oltre lo Stato, che non è visibile; nello stesso tempo la città appartiene allo stesso Dio che è il Dio della città celeste.
Lo Stato non è estraneo a Dio, quindi i cristiani devono essere nel mondo per realizzare la loro vocazione, salvare il mondo e non essere di questo mondo.
Tensione drammatica non semplificabile perché se la si semplifica la si tradisce, se si enfatizza l’essere nel mondo a scapito del non essere si scade in quello che noi chiameremmo secolarismo; se invece si enfatizza il non essere di questo mondo rispetto all’essere si fugge dal mondo, “l’angelismo della fuga” come diceva Lazzati.
Poi, continua il nostro Autore, “si sposano e hanno figlio come tutti, ma non abbandonano i neonati”: nel mondo antico le classi povere esponevano i nati che non potevano mantenere e i ricchi praticavano l’aborto.
“Mettono vicendevolmente a disposizione la mensa, ma non le donne”: cibo in comune ma non comunanza sessuale.
Le leggi usuali del mondo sono accettate ma vissute con un nuovo atteggiamento; usano il mondo come tutti ma non lo usano come tutti, sono nella carne ma non vivono secondo la carne, passano la vita sulla terra ma sono cittadini del cielo, e poi un’espressione, che per me è formidabile, ha molto da insegnare a noi oggi, “obbediscono alle leggi stabilite ma con il loro modo di vivere vanno ben al di là delle le leggi”.
L’A Diogneto usa il verbo “peitomai” che vuol dire obbedire proprio perché si è persuasi, non obbedire come lo schiavo, presupponendo una certa dose d’adesione e non solo un’accettazione passiva. L’obbedienza alle leggi stabilite per il cristiano ha sempre una dose di sofferenza perché le leggi civili sono sempre inferiori rispetto alle leggi del Regno di Dio e saranno sempre costitutivamente inferiori, non ci potrà mai essere nella storia del mondo la legge civile che traduce pienamente la legge del Regno.
Sicché la politica è sempre fare i conti con il bene possibile, renderla sempre più perfetta la legge innanzitutto mediante la testimonianza, cioè con il loro comportamento i cristiani fanno vedere che è possibile una legge migliore.
È il compito inesausto d’avanzamento della legge.
In questo testo si parla proprio di una costitutiva negoziabilità delle leggi, purché i valori si negozino non per svenderli, ma per salvarli, se questo è l’unico modo possibile.
In ogni caso la presenza del cristiano nella legge ha un compito pedagogico: bisogna portare l’uomo un po’ alla volta ad avvicinarsi sempre di più alle leggi del Regno con la convinzione che nella storia del mondo non si arriverà mai alla coincidenza fra storia di Dio e storia del mondo (basti pensare che gli “stati cattolicissimi” mi risulta che avessero la schiavitù).
Non esiste mai nel corso della storia un appiattimento della legge del Regno sulla legge dello Stato. La legge dello Stato è sempre inferiore alle istanze della legge del Regno; quindi, per molti versi il compito politico è di fare sempre i conti nel tempo con la mancanza di perfezione del mondo, che però non bisogna abbandonare a se stesso, nelle imperfezioni costitutive, per fuggire in zone di vita e comportamenti estranei.
La spiritualità dell’A Diogneto non è monastica, è una spiritualità laica.
Come ho detto il progresso della legge, in primo luogo, si declina nella testimonianza che fa vedere che è sempre possibile raggiungere equilibri più avanzati nella legislazione; stare dentro i processi mondani assumendo la responsabilità della loro imperfezione e sanarli sempre di più.
Azione pedagogica, che fa sempre i conti con la dura cervice dell’uomo.
Anche nell’economia di salvezza Dio ha graduato la sua legge per farla capire sempre di più e perchè fosse sostenibile dall’uomo che la riceveva. Vediamo, infatti, che aveva concesso il ripudio, la legge del taglione, una serie di prescrizioni che contenevano la violenza e il male ma per portare un po’ alla volta il popolo di Dio all’incontro con la pienezza del tempo.
Questa attività d’assunzione della legge del mondo e di sanazione, comporta per il cristiano inevitabilmente sempre una dose di riprovazione sociale.
È costitutivo del cristiano essere criticato dal mondo (“siate contenti quando vi perseguitano o diranno male di voi”), perché è diverso il destino dell’uomo cittadino del cielo dall’uomo cittadino della polis.
“Amano tutti, dice l’Autore dell’A Diogneto, e tutti li perseguitano. Non sono conosciuti, eppure sono condannati. Lì si può uccidere ed essi guadagnano la vita… Li si disprezza, ma nel disprezzo trovano la gloria Sono calunniati e la loro innocenza risplende luminosa. Sono ingiuriati e benedicono. Sono coperti di oltraggi, ma loro trattano tutti con onore. Non fanno che del bene e tuttavia sono puniti come malfattori. Mentre soffrono entrano nella gioia, quasi che nascessero alla vita”.
La riprovazione dei cristiani è il prezzo sacrificale che la logica dell’amore che dona paga alla logica del mondo.
Però nell’A Diogneto la riprovazione non è vissuta angosciosamente, come sindrome da accerchiamento – eppure allora era molto più forte di adesso perché siamo in tempo di persecuzioni quando la Diogneto scrive questo opuscolo – ma è occasione di testimoniare serenamente la vittoria sull’egoismo che produce la salvezza.
I tentativi d’emarginazione sono occasione non di rimostranze, di auto commiserazione ma di ricerca e di partecipazione solidale.
La conclusione sintetica di questa posizione è affidata all’inizio del capitolo sesto: “In una parola, ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo”.
La “Lumens Gentium” ha recepito, alla fine del capitolo quarto, sui laici, questa frase con una variante non di poco conto; al numero 38 dice: “ciò che l’anima è nel corpo questo siano i cristiani nel mondo”.
Il testo della Lettera A Diogneto dice “sono”, non è un esortazione moralistica, è una constatazione ontologica; per il fatto di esistere i cristiani sono anima del mondo. Non è un invito ad essere buoni, ma un invito a realizzare la loro natura di trascendenza nell’ immanenza, di convergenza vitale.
Il mondo come ‘corpo’ permette ai cristiani ‘anima’ di rendere manifesta la loro azione che sul mondo e tramite il mondo essi esercitano.
Un sostegno dei cristiani al mondo – qui cito Lazzati – che non è d intendere solo in senso morale, volto a mettere in luce l’esempio che essi danno sul piano morale, l’apporto della loro preghiera, ma ben di più; e per questo il loro ruolo è espresso all’indicativo essi “sono”, non “siano” anima.
Infine, alla fine del capitolo sesto, il posto che i cristiani hanno nel mondo è un posto assegnato loro da Dio e qui, l’Autore dell’A Diogneto usa una terminologia di carattere militare: Dio ha dato loro una consegna, ha assegnato loro un posto tanto importante che “a nessuno è permesso disertare”.
La diserzione potrebbe verificarsi in due modi: con il ricadere in una posizione mondana, inginocchiandosi di fronte al mondo in nome di una malintesa legge di incarnazione, o nel isolarsi in un angelismo infecondo in nome di una legge di trascendenza.
Né fuga né appiattimento sul mondo, una presenza che ama il mondo e testimonia che esiste un’altra legge, che proviene non dal culto ma dall’uomo vivente.
L’A Diogneto non si pone come evangelizzazione per annuncio, non espone in maniera sistematica le principali idee di dottrina cristiana ma, diremmo così, è un evangelizzazione fatta, è resistenza.
I cristiani nel mondo salvano il mondo con la loro azione.
Questa tensione che a mio avviso è molto feconda anche per il nostro tempo.
L’A Diogneto si pone anche un altro problema, al quale vorrei accennare prima di chiudere: come era presente Dio prima della venuta nel mondo di Cristo, prima della testimonianza dei cristiani.
La domanda che facevano molti pagani ai cristiani era: “perché il vostro Dio se è buono e sapiente è arrivato così tardi?”.
La storia precristiana non è assenza di Dio, dice l’A Diogneto, ma rientra anch’esso in un piano di magnanimità, cioè Dio aspetta che l’uomo trasferisca il suo centro d’interesse da sé a Dio.
Dio non è stato buono solo quando è venuto a rivelarsi, ma anche prima, è sempre stato e sempre sarà amorevole, buono, dolce, veritiero.
“Allora perché il vostro Dio è arrivato così tardi?”. È la domanda che con un’altra formulazione serpeggia sempre nella storia del cristianesimo: “perché il vostro Dio stenta ad imporsi ai falsi idoli?”
Dio onnipotente ha tardato e tarda tollerando la resistenza dell’uomo, perché ha voluto che l’uomo sperimentasse la vanità delle sue opere d’auto-salvezza, per far capire all’uomo che non ce la faceva da solo e che accettasse alla fine che la salvezza diventasse possibile per la potenza di Dio.
Inizio del capitolo nono: “quando la nostra perversione giunse al colmo e divenne evidente che la ricompensa che ci si poteva attendere era il castigo e la morte, allora venne finalmente il tempo che Dio aveva scelto per manifestare la sua bontà e potenza”.
È una visione che per certi aspetti potremmo definire pessimistica della storia cristiana, la storia lasciata a sé va a finire male, fa nascere il bisogno che Dio intervenga.
L’Autore dell’A Diogneto si fa interprete della coscienza di uno scacco della storia mondana che deve prendere coscienza della necessità dell’abbandono a Dio per ricevere giustizia.
Ma il giudizio è anche più complesso, dentro questo quadro resta comunque immutabile l’atteggiamento della volontà di Dio.
Dio ha esercitato la pazienza con l’uomo e vuole che anche l’uomo, suo discepolo eserciti analoga pazienza con quelli che ancora non credono.
Non impazienza di chiudere la storia, di convertire tutti, della soluzione finale, “il grano sarà separato dalla zizzania a suo tempo” dirà Agostino e Cipriano prima ancora.
Il cristiano ha di fronte l’esempio della magnanima pazienza di Dio, nel tempo precedente Dio ha dimostrato l’impossibilità della nostra natura di ottenere la vita, mentre ora ci indica che il Salvatore è in grado di salvare la stessa impossibilità.
In entrambe gli atteggiamenti egli volle che noi avessimo fede nella sua bontà.
Ecco quindi la paziente attesa che pervade sia la storia prima di Cristo sia la storia di Cristo, sia quella cristiana ed extra cristiana dopo la venuta di Cristo.
Atteggiamento che deve guidare il comportamento dei cristiani è il medesimo: Dio sa attendere senza impazienze, l’uomo non sia più impaziente di Dio.
NOTA: testo non rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 21.5.2007 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura. Le citazioni dell’A Diogneto sono tratte dall’edizione dell’Editrice La Scuola curata da Matteo Perrini.