Cecoslovacchia, un caso di coscienza

Essenza europea del dissenso

Il dissenso nei Paesi comunisti, specificatamente in Cecoslovacchia, ha posto con una nuova intensità la questione della tradizione europea, della sua sostanziale unità e del rapporto tra questa unità storica e la politica europea. L’ideologia dell’equilibrio del terrore, che oggi determina le azioni politiche, traccia i confini tra i Paesi secondo una logica militare. La Cecoslovacchia apparterrebbe così ad un “Est europeo”, cioè ad una Europa “diversa” da quella occidentale.

L’espressione “Europa dell’Est” è assurda dal punto di vista geografico e culturale (esistono l’Europa e la Russia, ma non una Europa dell’Est); essa costituisce in realtà una forma di deportazione.

Nel nostro secolo violento abbiamo assistito alle deportazioni fisiche di nazioni intere, all’azzeramento di culture millenarie all’interno di nuove formazioni politiche (come ad esempio nell’URSS). Ma vi sono state anche deportazioni spirituali: nell’espressione “Europa dell’Est” si cela la deportazione culturale di tutto un popolo occidentale verso uno spazio artificiale costruito per semplificare le relazioni politiche con l’Unione Sovietica. Questa semplificazione impone ad una parte dell’Europa di rinunciare alla propria identità, alla propria millenaria eredità culturale, per liberare in questo modo la politica occidentale dai vincoli morali che altrimenti renderebbero difficili le relazioni dei Paesi europei con l’URSS. Questa è la logica della coesistenza a senso unico a cui cedono tanti intellettuali e uomini politici occidentali.

E’ un momento essenziale del dissenso in Cecoslovacchia anche la consapevolezza che la Cecoslovacchia appartiene alla tradizione europea. Le lotte per la democratizzazione del sistema di potere, che hanno contraddistinto gli anni sessanta e settanta, vi hanno sempre assunto la forma di lotta per la propria identità “occidentale”, per la propria “europeità”.

Il punto più grave della crisi attuale delle democrazie europee consiste nel progressivo abbandono dei vincoli politici legati all’idea di una comune tradizione europea (in quanto fondamento imprescindibile di ogni decisione politica) a favore di una politica ispirata alla concezione oggettivistica della “ragion di Stato”: così si è giunti ad accettare sempre più passivamente la spartizione dell’Europa secondo una logica di blocchi militari indifferente alla reale identità storica dei popoli. Il dissenso implica anche una critica a questa indifferenza politica verso la tradizione comune ed esprime la volontà culturale di rimanere all’interno di una tradizione comune manifestata dai popoli del blocco sovietico, oggi confinati in una artificiale Europa orientale i cui confini sono stati tracciati (e ritracciati) esclusivamente dai carri armati. Essi indicano i confini di questa forza militare e nient’altro.

Uno dei più eminenti intellettuali cecoslovacchi, autorevole esponente del movimento Charta 77, racconta nel suo celeberrimo libro sulla resistenza cecoslovacca contro il nazismo che nel periodo del massimo pericolo per la nazione boema e slovacca, cioè durante l’occupazione nazista, egli tornava spesso allo studio della poesia medievale boema e di quella dei trovatori per rinnovare non soltanto l’energia, ma anche la ragione più autentica della resistenza ceca stessa: la lotta per la comune eredità europea, per l’identità di una civiltà travolta dalla barbarie.

Egli aggiunge che “nel profondo dell’anima sentiva di rispondere in questo modo anche ad una esigenza più universale, seppur forse non sentita con sufficiente chiarezza da tutti, nella situazione storica europea e anzitutto cecoslovacca: “tornare alle radici” della cultura europea e nazionale boema; ecco l’imperativo che si avvertiva… Studiare la affinità tra la poesia lirica della Boemia medievale e quella dei trovatori della Provence significava contemporaneamente porre la questione di quella decisione storica che più ha determinato il destino della cultura boema: la sua scelta occidentale, la sua volontà e desiderio appassionato di integrarsi creativamente nella famiglia spirituale delle nazioni d’Occidente e dunque, anche, mettere in rilievo i successi e gli insuccessi di questa scelta e di questa comunione spirituale» (V. Cerny, Plà koruny ceské, Toronto 1977, 68 Publ., p. 369).

Il dissenso ripropone necessariamente la questione del senso di questa scelta occidentale, di questa identità di civiltà minacciata dal sistema di potere instaurato dal partito comunista. Da qui deriva tutto il suo pathos, il richiamo ai diritti dell’uomo – ai diritti, cioè, pre-politici – come motivo centrale dell’azione politica lanciato, con una forza assai nuova per la cultura occidentale, dal dissenso nei Paesi comunisti.

I diritti dell’uomo corrispondono ad una concezione della politica dove l’azione dello Stato è sempre limitata e insieme ispirata dal legame tra la natura umana e la politica. Lo Stato non può costruire il proprio potere sulla negazione della natura umana, sullo svuotamento dell’esistenza individuale, sulla negazione dei diritti “naturali” dell’uomo. La politica risponde a bisogni umani e non può, di conseguenza, diventare una pura tecnica di dominio. Il richiamo al concetto di “diritti umani” implica anche che il primo e il più fondamentale aspetto della tradizione europea è la partecipazione di ogni cittadino alla “vita pubblica”: soltanto in questa partecipazione egli assume la sua dimensione autentica.

Ogni potere politico deve confrontarsi con l’opinione pubblica che si forma nella “vita pubblica”. In un certo senso potremmo dire che i diritti umani sono l’insieme di quelle libertà che rendono possibile la vita pubblica. La degenerazione della vita pubblica è una delle caratteristiche più appariscenti della società contemporanea. Arendt ha messo in rilievo il legame tra la comprensione della realtà e la vita pubblica. Soltanto le esperienze capaci di diventare tema della vita pubblica, del dialogo, capaci di essere esposte ai punti di vista degli altri possono diventare “esperienze reali”. La vita pubblica nelle democrazie occidentali è entrata in una crisi radicale: essa si riduce a rivendicare l’assistenza da parte del governo.

Nei Paesi comunisti, poi, la vita pubblica è il monopolio del Partito comunista. E’ un paradosso molto indicativo della essenza dei sistemi di potere comunisti, se pensiamo che per interessarsi della vita pubblica, degli affari di tutti, bisogna nascondersi bene nelle case private – ecco che cosa significa l’espressione polis parallela – dato che tutto ciò che assume la dimensione pubblica è riservato per legge ad una classe particolare della popolazione definita come Partito comunista. Cosi tutte le Costituzioni dei Paesi comunisti specificano che l’esercizio delle libertà è subordinato al ruolo di guida che è riservato al Partito in ogni attività specifica.

Il dissenso nel suo aspetto più fondamentale costituisce un tentativo di ricostituire il senso autentico della vita pubblica. Ma dato il monopolio che il Partito comunista esercita sulla vita pubblica, questa ricostituzione assume la forma di una polis parallela. Nessuno riassume meglio il senso del lavoro dissidente di V. Havel nel suo Il potere dei senza potere: “…devo ora tentare…di vedere che cosa propriamente fanno i dissidenti, come oggettivamente si manifestano le loro iniziative e a che cosa concretamente portano. Il primo dato certo… è che l’ispirazione di partenza, quella più importante, che stabilisce a priori la sfera dei loro tentativi, è semplicemente quella di realizzare e sostenere la vita indipendente della società come espressione articolata della vita nella verità; quindi l’aspirazione di servire alla verità con coerenza e decisione – articolatamente – e di organizzare questo servizio. E dei resto è logico: se la vita nella verità è il punto di partenza elementare di ogni sforzo dell’uomo per resistere alla pressione alienante del sistema, se è l’unica base significativa di qualunque azione politica indipendente e se, infine, è anche la radice esistenziale più adatta per l’atteggiamento dissidente, è difficile immaginare che…il lavoro dissidente possa fondarsi su qualcos’altro che non sia il servizio alla verità e a una vita vera e lo sforzo di aprire uno spazio alla intenzioni reali della vita” (Havel, Il potere dei senza potere, Bologna 1979, Cseo, p. 61).

V. Benda, il promotore di questa concezione dell’attività dissidente come polis parallela, aggiunge che i dissidenti debbono “unirsi nello sforzo di creare progressivamente più e più strutture parallele, capaci, almeno in misura minima, di supplire alla mancanza delle strutture pubbliche utili a tutti”. In questo senso il motivo più profondo del dissenso è il tentativo di rinnovare i fondamenti della vita collettiva: in questo sforzo si manifesta l’essenza della tradizione europea.

In realtà, ciò che chiamiamo “tradizione europea” consiste nell’irriducibilità della coscienza alle istituzioni, della società allo Stato, dell’individuo alla collettività, della legittimità alla legalità. La tradizione europea è proprio questa dialetticità, questa diarchia che E. Voegelin chiama “principio antropologico”, secondo cui il potere collettivo non può mai risucchiare l’individuo, il senso personale della sua esistenza.

Ciò che l’uomo europeo chiama “storia” non è altro che la continua tensione tra la coscienza e le istituzioni, tra la società e lo Stato, tra la legittimità e la legge. Quando una nuova legittimità, una nuova concezione della vita, un nuovo senso dell’esistenza personale entra in contrasto con la legalità e con le istituzioni dello Stato, sorge un conflitto che rende dinamica la nostra civiltà, la fa crescere. Possiamo dire che la storicità, se concepita in questo modo, costituisce la vera essenza della tradizione europea: lo spirito europeo trascina tutte le culture verso la storicità. In contatto con la tradizione europea si sviluppa il senso dell’irriducibilità della società allo Stato e al potere collettivo che innesca una serie di conflitti all’interno di altre civiltà. In questo forse possiamo anche riconoscere un ruolo universale dell’Europa.

La minaccia alla tradizione europea proviene da quel processo che voglio chiamare la banalizzazione: per “banalizzazione” intendo tutto quell’insieme di ideologie e di strategie politiche volte a ridurre la società ad uno Stato onnipotente, la legittimità ad una legalità perfetta. Il comunismo non è altro che la fase finale della banalizzazione, della distruzione della vita sociale autonoma.

Che cosa dà all’uomo europeo la salda integrità che lo rende autonomo rispetto al suo Stato? L’uomo europeo è rappresentato nel suo Stato piuttosto che esserne inghiottito senza lasciare tracce come succedeva negli imperi dell’Oriente. La tradizione europea in questo senso più specifico costituisce una intrinsecazione di tre tradizioni di civiltà.

In primo luogo, l’eredità greca dell’uso dialogico del linguaggio per cui la comunità è fondata su una comune esperienza della verità che si fa evidente e riconoscibile a tutti nel dialogo, nell’argomentazione. La comunità greca si articola dunque attorno ai significati che appartengono alle parole in virtù di una necessità universalmente riconoscibile e vincolante.

In secondo luogo, l’eredità cristiana che conferisce all’uomo una identità nuova: egli trae dal rapporto verso un Dio trascendente a cui nessun potere collettivo può strapparlo anche una radicale autonomia rispetto alle istituzioni. Il potere è dedivinizzato. Lévy ha mostrato nel suo libro Il testamento di Dio che la fonte più profonda dell’energia con cui l’uomo europeo s’oppone alla manipolazione, all’asservimento alla politica sta proprio nella permanente discordanza tra il mondo e il potere, da una parte, e la Legge di Dio dall’altra. L’uomo cristiano vive in una dissidenza perpetua in rapporto al potere politico. In breve: la tradizione cristiana ha introdotto un motivo radicale nei rapporti dell’individuo con il suo Stato, per cui il principe si trova nella stessa posizione davanti a Dio come l’ultimo dei suoi servi.

In terzo luogo, vi è la tradizione borghese della “società civile”. In questo contesto intendo per “società civile” l’insieme delle forze autonome rispetto allo Stato e profondamente positive in quanto produttive di senso, di valori, di legami comuni capaci di garantire alla comunità un’unità di fondo. La convinzione borghese sulla positività della società civile verte sul sentimento della simpatia considerato da Hume (e da tutti i moralisti borghesi) come una tendenza innata a partecipare alla sofferenza e alla felicità altrui.

Vediamo dunque che l’irriducibilità dell’individuo alle istituzioni collettive poggia sulla razionalità greca in cui l’uomo è vincolato al rispetto di un ordine naturale; sulla esperienza cristiana della trascendenza, per cui la persona umana trae la sua identità dalla relazione a un Dio trascendente che gli garantisce un’autonomia assoluta dallo Stato; sulla società civile in cui operano le forze positive dei buoni sentimenti. Queste sono le fonti dell’europeità.

Quest’analisi ci permette di definire ora in una luce più autentica l’azione del dissenso nei Paesi comunisti. In tutte le sue manifestazioni, esso solleva la questione di quest’irriducibilità della coscienza, della società, della persona alle istituzioni, allo Stato. In questo modo, il dissenso risveglia e mobilita le tradizioni su cui poggia l’Occidente come civiltà, non soltanto come indicazione geografica.

J. Patocka, il più importante filosofo cecoslovacco contemporaneo, fondatore della Charta 77, vi ha proiettato la questione del “mondo della vita” come base universale della vita razionale. Secondo lui la crisi della ragione europea è una crisi. L’identificazione della certezza a cui mira l’uomo europeo – come ideale della vita – con la certezza di tipo oggettivo inerente ai metodi della scienza ha messo in crisi la civiltà europea nei suoi stessi fondamenti, cioè nel suo universalismo. Possiamo individuare quattro aspetti fondamentali della crisi della ragione europea così come si manifesta oggi soprattutto a livello di organizzazione politica.

In primo luogo, l’universalità intrinseca al progetto europeo di esistenza è correlata alla neutralizzazione dei valori, alla tecnicizzazione dello Stato. Da questa neutralizzazione dovrebbe sorgere il terreno d’incontro tra gli uomini.

In secondo luogo, la razionalità è correlata all’impersonalità. La conseguenza più importante è che la razionalità impersonale non può essere vincolata a nessuna autorità dato che l’autorità è sempre qualcosa di personale. Tutto ciò che è personale è così respinto oltre i confini della realtà e relegato tra le ombre della ragione.

In terzo luogo, la domanda di legittimità è soddisfatta mediante il continuo ricorso al simbolismo nazionalistico, al richiamo alla comunità nazionale sottostante lo Stato.

In quarto luogo, la legalità è progressivamente ridotta al potere dell’apparato, mentre l’idea di legge – di un governo che l’uomo si è dato per non essere schiavo – è resa irriconoscibile. La legalità diventa più che altro un modo di disbrigo dei lavori, una procedura tipica nel regolare gli affari pubblici. L’idea di legge che imponeva che ogni legge debba essere generale, certa e che promanasse da una autorità legittima cessa di fungere come ideale di governo e diventa semplicemente un aspetto formale del potere. La legalità è il potere esercitato mediante l’apparato burocratico dello Stato.

La cultura politica del dissenso mira ad invertire queste tendenze a livello di civiltà. L’universalità inerente al progetto di esistenza di noi uomini occidentali deve essere radicata non in un deserto di valori prodotto dalla neutralizzazione, bensì in una intensa esperienza morale. Questo è il senso della concezione solzenicyana di “vivere senza menzogna”; l’imperativo della responsabilità personale di fronte al male.

Nella prospettiva di Patocka comunque l’universalità deve essere radicata nel mondo della vita, cioè in quel terreno universale che precede tutte le scienze e tutte le ideologie che costituisce il contenuto reale di ogni esperienza umana. Il mondo della vita è una intrinsecazione delle esperienze fondamentali o costitutive della nostra esistenza, che non hanno il carattere delle esperienze “al servizio della scienza”, cioè di esperienze essenzialmente ridotte ad essere “dimostrazione empirica” di una teoria.

Secondo Patocka vi sono tre esperienze totali che modificano la nostra esistenza rendendola “umana”. In primo luogo, l’esperienza della nostra radicazione nel mondo protetto e garantito dagli altri. L’ordine del mondo, quell’orizzonte cui tutte le cose rimandano come a qualcosa da cui si staccano, è qui garantito ed aperto dagli altri. L’amore degli altri apre le nostre potenzialità e ci permette di riconoscere ciò che siamo. Vi è un’altro punto: nella cura dell’altro esperimentiamo la nostra differenza dalle cose, la nostra non casualità del mondo.

In secondo luogo, vi è l’esperienza del lavoro che concatena le cose del mondo in strutture di disponibilità attorno a cui si articola l’esistenza quotidiana. In ogni caso il centro dell’esperienza del lavoro è la conoscenza, il dominio sul mondo che costituisce la condizione “reale” della nostra capacità di “mantenerci vivi”.

La terza esperienza universale è quella vincolata al venir meno della rassicurante protezione dell’altro e contemporaneamente al venir meno della protezione procurata con il lavoro: l’uomo riconosce la sua autentica posizione nel mondo. Si tratta di non fuggire di fronte al compito di autenticare la propria vita. Il moderno Stato socialista e assistenziale organizza fughe molto persuasive per camuffare il potenziale di libertà celato in questa esperienza. In ogni caso, si tratta qui dell’esperienza religiosa in cui la nostra identità viene vissuta anche contro la morte, la nostra infinita debolezza, la limitatezza. Ciò che chiamiamo “valori” o “idee” sono sempre delle risposte che abbiamo trovato di fronte all’aprirsi di questa autenticità nella nostra esistenza.

A questo mondo della vita si legano i cosiddetti “diritti umani”. I diritti di essere persona all’interno di una comunità autonoma rimandano alle esperienze di primo tipo. Il diritto ai frutti del proprio lavoro, al riconoscimento del proprio lavoro sono vincolati all’esperienza del dominio sul mondo. La libertà religiosa e culturale in genere deriva dall’ultima esperienza. Vediamo, dunque, che l’universalità, di cui l’uomo europeo vuole farsi portatore, deve essere cercata sul terreno del mondo della vita piuttosto che su quello generato dalla neutralizzazione dei valori.

La seconda tendenza che basa la razionalità sulla crescente impersonalità sorge da un fraintendimento della “ragione”, dalla sua interpretazione puramente scientifica come “ragione in base alla quale posso dominare una cosa”. La ragione comunque ha anche un altro aspetto ben più importante: ne facciamo un’esperienza ogniqualvolta dobbiamo permettere che qualcosa si affermi anche contro il nostro interesse affettivo o materiale. Quando riconosciamo la verità anche contro la nostra volontà di tenerla nascosta. Ora in questo riconoscimento dell’evidenza l’uomo diventa persona. L’uso greco del linguaggio è un esempio di questo senso della ragione: il dialogo mostra che le parole hanno un senso evidente che dobbiamo riconoscere anche sotto i camuffamenti prodotti dai nostri interessi e le nostre paure. Vediamo dunque che la ragione è soprattutto questa capacità di riconoscere la realtà contro i nostri interessi che tessono attorno ad essa una fitta rete di veli: in questo riconoscimento diventa però “persona” e dunque la razionalità nel suo senso più autentico è la base della vita personale.

Per quanto riguarda la progressiva banalizzazione, cioè la riduzione della legittimità alla mitologia nazionalistica, al richiamo ad una unione mitologica collocata in un punto zero della storia come fonte di legittimazione autentica, essa deve essere reinterpretata in termini del mondo della vita. Il mondo della vita costituisce la base di una legittimazione realmente universale. Tutte le tradizioni particolari e tutte le comunità storiche sono solo parti di questa comunità universale che vive nel mondo della vita che ogni essere umano può rendersi presente alla sua coscienza. Vi è anche una responsabilità irriducibile di fronte al mondo della vita dunque rispetto ai diritti ad esso legati.

La razionalità legale penetra ormai in tutti i settori della vita sociale. Questa legalizzazione si mostra in realtà distruttiva della creatività e dell’autenticità dei nostri rapporti sociali. Infatti la famiglia, ad esempio, è una struttura sociale in cui la legittimità prevale sempre sulla legalità. Essa cessa di essere una famiglia reale, nel momento in cui la legge deve sostituirsi alla legittimità. Il punto fondamentale sta comunque nel fatto che questa espansione della legge nelle sfere sempre più personali e comunitarie della società implica una tale complicazione del sistema legale che questo diventa di fatto identificabile con il potere dell’apparato. Allora il dissenso solleva la questione dello Stato minimo come unico Stato compatibile con i diritti umani. Lo Stato massimo che si espande nell’Europa socialista deve essere fatto arretrare, se vogliamo evitare di dover vivere come schiavi di poteri impersonali ed irresponsabili. Legare la politica al mondo della vita deve significare anzitutto uscire da questa tradizione dell’oggettivismo pseudo-scientifico e statalistico. L’espressione polis parallela vuole indicare proprio questa uscita dell’oggettivismo nel senso che l’uomo comincia a ricostruire l’universalità, la razionalità, la legittimità e la legalità del suo Stato non cercando di conquistarlo per poi sfruttare il suo potenziale tecnico per riformare la società, bensì ponendosi in una posizione “parallela” al potere statuaje. Ad esempio, il samizdat, le università indipendenti, i teatri che sorgono nelle case private, i prodotti artistici che sono scambiati al di fuori delle istituzioni sono modi di operare tipici di questa polis parallela. L’idea del dissenso è che solo a partire da questa parallelità possiamo ricostituire l’unità dell’Europa strappata in due e restituire al nostro Stato, in un senso del tutto nuovo, la sua base antropologica.

 


VACLAV BELOHRADSKY, nato a Praga nel 1944, vive in Italia dal 1970. Docente di sociologia in diverse Università italiane, è autore dei volumi Rivoluzione e burocrazia (Città Nuova, Roma 1979) e Il mondo della vita: un problema politico (Jaca Book, Milano 1981).

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.10.1978 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.