Vorrei proporvi una sorta di repertorio di impressioni che nel leggere Perrini [2] e Seneca ho avuto. Cercherò di dire ciò che ho sentito io ripercorrendo la complessa rete del pensiero di Seneca e in buona parte della vita di Seneca. Presenterò tutto ciò che Gazich ha chiarito, mostrando come all’interno di ognuno di quei punti ci siano delle tensioni. Sarò un po’ impressionistico.
Il primo punto è sul titolo che Perrini ha dato al suo libro, in seguito alla lunga consuetudine con Seneca: l’immagine della vita. L’immagine della vita è un’idea che è connessa alla domanda che spesso ci poniamo sul senso che ha vivere le vite che abbiamo da vivere. La lezione è l’idea dell’esemplarità ed è l’idea che in qualche modo noi vivendo dovremmo mirare a comunicare ad altri, modi di vivere quanto più possibile degni di lode da parte loro. Questo dà senso alle nostre vite. L’immagine della vita è la grande tradizione dell’etica che non è dei principi o dei precetti, ma l’etica degli esempi. È la tradizione romana e in gran parte la tradizione classica greca e quella giudaica. Una delle cose che più mi affascinano è che Seneca è all’incrocio tra due grandi pezzi delle nostre radici: una è l’elaborazione post-ellenistica nella tradizione romana; c’è il problema del rapporto con il giudaismo e c’è il problema dei padri della chiesa, la continua prossimità con il cristianesimo. È tutto controverso, ma c’è. Se mettete assieme questi grandi pezzi, greci, ebrei, cristiani, siamo alle radici dei nostri dilemmi. Si sente nel testo: l’immagine della vita connessa all’idea del comunicare ad altri che le nostre vite hanno senso. Il comunicare ad altri evoca la compagnia umana nella grande repubblica, la cerchia della conversazione umana indefinita nel tempo. In questo caso, comunicando agli altri l’immagine della nostra vita, lasciamo il testimone della staffetta, usciamo dalla nostra solitudine; il poter passare il testimone presuppone l’esistenza di una comunità continua nel tempo.
Se ripensate alla prima parte, che è tutto l’esame di questa espressione che a noi sembra ovvia, che è la condizione umana. Questa idea è una conquista, di cui vorrei sottolineare un aspetto. Seneca è un filosofo che mette inquietudine. Non è il filosofo dell’equilibrio, è in chiaroscuro. Quando si ha Cicerone, torna tutto, con Seneca a volte è un disastro. Pensate ai temi della condizione umana, i temi della finitezza, della contingenza, del contrasto grande e piccolo. È vero che lui, accettando la prospettiva di tipo stoico, assume un qualche ordine, ma è vero che non sappiamo bene come raccapezzarci nelle nostre vite finite. Vite che possiamo sprecare, in cui moriamo ogni giorno, in cui possiamo non dare nulla. Perrini usa la frase: “Noi temiamo tutto da mortali e desideriamo tutto da immortali”, e questa è una frase da filosofo che mette luce sull’imperfezioni umana. Siamo piccoli nel mondo, il mondo è molto più grande, la dimensione del tempo, ci sono vite inutili, c’è il corpo a corpo col credere – che è diverso dal sentire – che noi abbiamo vite mortali e c’è il tema della maschera. Il tema della maschera, da cui Perrini parte, è il tema della persona. Come sappiamo, quando studiamo i grandi dilemmi nei primi concili per la definizione trinitaria, in cui la soluzione delle tre Persone era la soluzione concettualmente più maneggiabile per chi ormai usava il termini ellenistici, perché sostanzialmente tre erano i volti, tre le persone, la maschera è fissa, i nostri volti possono esprimere tante emozioni, ma la maschera è ferma. Questo è il travaglio di Seneca sulla questione che oggi chiameremmo la questione della identità personale. Tanto è vero che c’è una strana eredità di Seneca che è l’eredità che potremmo chiamare agostiniana e pascaliana, che è poi la tradizione che si istituisce con l’esercizio meditativo come esame riflessivo di sé stessi. Cosa succede se lo facciamo? Riconosciamo noi stessi col tempo e ci diamo dei nomi. Qui non c’è politica, qui c’è l’esame riflessivo. Quando c’è un intoppo nella vita, bello o tragico, siamo interessati ad esaminare riflessivamente la nostra vita, ci chiediamo che senso ha. Quando tutto procede linearmente, si dice che andiamo con il pilota automatico e non ci si pongono domande di questo tipo. La vicenda di Seneca è tra la vita e l’arte; il problema di Seneca, come è stato osservato da molti studiosi, è la tensione tra un’ideale di vita buona come esemplare, come vita di chi costruisce sé stesso e si dedica alla teoria, alla contemplazione, e l’ideale di vita buona di chi nel mondo si sporca le mani e si dà da dare con altri per costruire la polis, per perseguire il fine della virtù sociale, la giustizia. Qui entra in gioco il Seneca del pensiero-azione, l’idea illustrata della vita collettivamente giusta, non della vita buona. Il problema dello Stato di diritto, di una qualche forma di diarchia fra il principe e il senato, è un profondo travaglio per il filosofo. Seneca ha grandi responsabilità di governo, ci sono anche dei grandi drammi e arriva un punto in cui egli ritiene che sia da fare ciò che si può fare, non ciò che non si può fare: qui c’è un elemento di capacità di giudizio, non basato su pre-giudizi, ma sulla capacità di discernimento. Il tirannicidio va bene solo nei casi limite. C’è la percezione dello scacco, della lotta a morte tra due responsabilità. È l’abbraccio mortale tra l’esercizio di potere e la contemplazione della città. Seneca dà sceneggiature ai grandi drammaturghi del Seicento: Shakespeare sicuramente conosceva Seneca e lo citava nei suoi pezzi teatrali. C’è tensione, perché il dramma di Seneca sta nel fatto che non si muove avendo sullo sfondo le circostanze ordinarie di una vita pubblica relativamente decente. Si muove in circostanze limite, quelle in cui si è di fronte a scelte tragiche, cioè quando si sceglie tra mali. Si sceglie tra mali e molto spesso vuol dire che non c’è più spazio tra approvazione o biasimo morale e si è nell’ambito che azzera la giustificazione morale del nostro agire. Questo è Nerone. Il nostro secolo ne è pieno.
Il terzo punto è l’appendice alla parte sull’umanesimo politico ed è quello che riguarda il problema della schiavitù. Come tutti sanno, Seneca è uno dei pochissimi a definire gli schiavi amici umili. Egli distingue tra quanto accade nel mondo per natura e quanto per congiuntura. In parole povere, a me può essere capitato di essere nato in una certa situazione, in un certo posto del mondo, in una certa famiglia, ad un altro no. Nessuno sceglie di nascere. Ciascuno si trova gettato nel mondo e siamo tutti egualmente persone che non hanno scelto. C’è un’idea di uguaglianza. Quindi c’è una tensione tra riconoscerci, da un lato, una comunità di eguali e, dall’altro lato, la ineguaglianza delle sorti o dei ranghi che ci sono socialmente assegnati, per il fatto che siamo tutti nati in condizioni più o meno diverse. L’idea di Seneca è che se noi sappiamo guardare nel modo giusto noi e gli altri, non possiamo non accettare di essere esseri umani. Siamo degli individui radicalmente contingenti. Allora non possiamo accettare che i tassi di risposta che ciascuno di noi può dare agli altri dipendano solo dalla lotteria della sorte, che fa sì che ognuno di noi nasca in una certa situazione economica, sociale, geografica. Questa idea della tensione tra riconoscimento di eguaglianza e ruolo della lotteria sociale-naturale, è una suggestione, una direzione di ricerca che può farci ripensare all’idea che la giustizia sia la prima virtù delle istituzioni sociali. Questo nel senso che noi dovremmo cercare politiche che, per quanto possano fare, perseguano il fine della riduzione degli effetti che, sulle vite di ognuno di noi, ha la strana lotteria naturale e sociale con cui ciascuno di noi inizia la sua strada insieme agli altri nella società. Questo è un compito che si può perseguire in molti modi. La discussione politica intelligente deve e può vertere sui diversi modi per avvicinarci a questo metodo. Quello che Seneca suggerisce riguardo gli amici umili, gli schiavi, è una risposta semplicemente umana alla distribuzione dei dati, che è moralmente arbitraria, con cui noi ci mettiamo alla prova con gli altri.
Immaginiamo che l’essere stato attore e non spettatore di scelte tragiche, faccia sì che si provi l’esperienza della delusione o della distanza, dell’impossibilità della coerenza tra contemplazione e azione, tra filosofia e politica. L’ultima parte ha a che fare con la filosofia come perseguimento della saggezza. Vorrei osservare che questo tema è stato riformulato e riabilitato e sta dando molti sviluppi nella ricerca, come il tema della cura di sé. Seneca è all’origine del tornare in possesso di sé. È un’idea della saggezza ed è inevitabile che questa idea della saggezza come costruzione del sé, come insieme di istruzioni per l’uso delle nostre vite, si presenti per contrasto con il luogo della polis in cui c’è l’esperienza della scelta tragica. Anche quando arriviamo all’estremo della distanza della politica, come luogo dell’interesse pubblico, troviamo in noi stessi una sorta di molteplicità di noi. Quando Seneca dice: “Riprendi possesso di te”, intende che ci siano almeno due te. Noi ritroveremo in ciascuno di noi una microsocietà, perché ci sarà l’io giudicante sé stesso e comincerà questo corpo a corpo. Ci sono le radici, in primo luogo intrapersonali, dell’equilibrio e del conflitto. Il confitto sembra allontanarsi perché siamo immunizzati rispetto alla tensione interpersonale e ritroviamo dentro di noi le radici intrapersonali del conflitto. Questa è la costruzione che ci chiama oggi, per quanto possa sembrare così distante, in modo umano, sulla responsabilità della politica nelle nostre vite, sui diritti che abbiamo come persone, sui diritti che abbiamo come cittadini.
[1] Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 20.5.1998 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
[2] SENECA, L’immagine della vita, a cura e con saggio introduttivo di M. PERRINI, Scandicci, La Nuova Italia, 1998, 250 p.