Commentari dell’Ateneo di Brescia per l’anno 1998, Brescia 2002, p. 51-64. Testo della conferenza tenutasi il 19 febbraio 1998 presso l’Ateneo di Brescia in via Tosio n.12 su iniziativa dell’Ateneo e della Ccdc.
1. Seneca, Agostino e Bergson
“Che cos’è il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se però volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so” (Confessiones 11, 14). E’ il paradosso con cui Agostino introduce l’ardita meditazione sul tempo nell’undicesimo libro delle Confessioni. Nel ripercorrere tante volte la storia del pensiero quella domanda mi è stata ben presente e un po’ per volta sono pervenuto alla conclusione che su quel problema i più alti contributi si collocano nel periodo tardo antico: all’inizio con Seneca, e alla fine con Agostìno. L’uno, precristiano, ci ha dato la più penetrante “etica del tempo”, spezzando di fatto i quadri concettuali del sistema stoico a cui pure aderiva, l’altro, cristiano, ci ha dato la prima metafisica fondata sull’intuizione di un tempo concepito come reale svolgimento., non chiuso nella ripetizione ciclica dell’identico, un tempo insomma che comporti continua differenziazione e novità del reale, poiché ogni atto della vita, ogni stato di coscienza, ogni evento storico ha una sua individuale irripetibilità e, per così dire, fiorisce una sola volta come l’agave mediterranea.
A distanza di sedici secoli il problema del tempo torna di nuovo al centro della riflessione con un altro grande pensatore, Henri Bergson. “Un filosofo degno di questo nome – ebbe a dire il filosofo francese – noti ha mai detto che una cosa sola: meglio, ha cercato di dirla piuttosto che dirla veramente” (L’intuition philosophique, in Oeuvres, Ed. du Centenaire, Paris 1970, p. 1350). Ebbene, ciò che individua il contributo di Bergson alla storia del pensiero è precisamente il tentativo di rispondere alla domanda: “che cos’è il tempo?” La riprova viene dall’Edizione del Centenario delle sue Oeuvres: scorrendo le voci dell’indice degli argomenti, curato da André Robinet, non si trova la voce temps, perché essa ricorre letteralmente in ogni pagina dell’opera. “Nessuna questione – scrive Bergson – è stata più trascurata dai filosofi di quella del tempo; e tuttavia tutti concordano nel dichiararla di capitale importanza… E’ lì la chiave dei maggiori problemi filosofici” (Prèface a Durée et simultaneité, P.U.F., Paris 1922; VII ed. 1968, pp. X XI).
Lo scandalo che Bergson non cesserà mai di denunciare è che il tempo sia apparso appunto uno scandalo per il pensiero, quasi fosse il luogo dove le cose non possono essere mai afferrate perché non sonoun qualcosa che è lì solo per attestare una sorta di deficit. Per venticinque secoli, a partire da Parmenide e da Zenone di Elea, la concezione stazionaria ed etemista dell’essere ha avuto nettamente la meglio, anche se incorporata in sistemi di pensiero molto diversi fra loro. La filosofia bergsoniana si presenta, dunque, come un rovesciamento della concezione tradizionale, non per una sorta di antitesi dialettica, ma solo perché, invece di dissolvere il mutamento ed il tempo, essa mira a insediarci nell’uno e nell’altro per meglio afferrare come gli esseri diventano quello che sono. Filosofare significa, allora, scongelare gli esseri dalla loro falsa immobilità e mettersi in grado di ascoltare, per così dire, il loro fluire.
2. Ciò che suscitò in Bergson “grande stupore”
E’ interessante ricordare quando e come il tempo divenne l’argomento tematico della filosofia bergsoniana. La riflessione semplicissima che suscitò “grande stupore” in Bergson, dando il primo avvio al “mutamento”, fu la seguente: “Se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte più rapidamente, non ci sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, né nei numeri che noi vi facciamo entrare” (Essai sur les données immediates de la consciènce, in Oeuvres, pp. 77 78. Al limite, se una rapidità infinita racchiudesse il successivo nell’istantaneo, nessuna formula scientifica sarebbe modificata; ma se ciò accadesse, il tempo sarebbe azzerato e così pure il divenire. Quell’ipotesi che balenò alla mente del giovane professore di liceo non era affatto una fantasticheria; essa era ed è l’esatta formulazione del “sogno mefistofelico” che ha tentato non pochi scienziati anche di primo piano, da Laplace ad Einstein. Ma se quella pretesa potesse mai verificarsi, o anche soltanto apparire plausibile, le conseguenze che ne deriverebbero nella concezione della realtà e nella vita morale sarebbero da incubo. Il problema del tempo, infatti, fa tutt’uno con quello della libertà e tale connessione nessuno l’ha colta ed espressa con la lucidità e l’intensità di Thomas Eliot nei Quattro quartetti: “Tempo presente e tempo passato / sono forse entrambi presenti nel tempo futuro e il tempo futuro / è contenuto nel tempo passato. /Ma se tutto il tempo è eternamente presente, / tutto il tempo è irredimibile ” (trad. it, di A. Tonelli, Feltrinelli, Milano 1995, p. 95).
Quando questo pensiero si impose alla sua mente, negli anni 1881 1883, Bergson aveva ventidue – ventitré anni; molti anni dopo, il filosofo francese spiegò come egli vedesse allora la storia del suo spirito: “Fino ad allora ero rimasto del tutto imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero giunto assai presto grazie alla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo senza riserve. Mia intenzione era di consacrarmi a ciò che allora si chiamava la filosofia delle scienze; a tal fine avevo intrapreso, all’uscita dalla Normale, l’esame di qualche nozione scientifica fondamentale. Fu l’analisi della nozione di tempo, così come interviene in meccanica o in fisica, che scompigliò tutte le mie idee ” (Ecrits et paroles II, Lettera a William James dei 9 maggio 1908, P.U.F., Paris 1959, pp. 294 95). Charles Du Bos nel suo diario, in data 22 ottobre 1922, registra quello che Bergson gli aveva raccontato in occasione di una sua visita: “Io vedevo che il tempo non poteva essere quello che si diceva, ma non vedevo ancora chiaramente che cosa fosse. Questo fu il punto di partenza, ancora troppo vago… Cominciai a vedere più nettamente in quale direzione occorreva cercare un giorno mentre spiegavo ai miei studenti, alla lavagna, i sofismi di Zenone…” (Journal 1922 23, Corréa, Paris 1946) Da quel giorno il pensatore di Elea divenne uno degli interlocutori privilegiati del filosofo francese.
3. I sofismi di Zenone e l’insostenibilità dell’immobilismo
Per quale ragione – si chiede Bergson – i sofismi dì Zenone appaiono difficilmente confutabili malgrado la loro palese assurdità? In sostanza Zenone dice questo: ove si supponga che lo spazio e il tempo siano divisibili all’infinito, non si dà movimento; per raggiungere il termine bisogna, infatti, che l’oggetto mobile arrivi a metà della corsa; ma in uno spazio pensato come divisibile all’infinito vi sarà sempre una metà della metà, e poi ancora una metà della metà, e così via. Insomma, se si riduce il movimento a una traiettoria divisibile all’infinito, l’oggetto mobile è tale solo in apparenza: esso, infatti, sarà sempre pensato immobile rispetto alla particella di spazio che occupa in un determinato istante. Zenone vede che è del tutto impossibile spiegare il movimento addizionando posizioni immobili; ma, invece di prendere atto della falsità delle premesse da cui muovono le sue argomentazioni, dichiara il movimento e il tempo che lo misura logicamente assurdi e, pertanto, inesistenti agli occhi della mente.
Per il filosofo francese, che affronta subito in extenso i sofismi di Zenone nel secondo capitolo dell’Essai, l’illusione degli Eleati dipende dall’aver identificato un atto indivisibile come il movimento con lo spazio omogeneo che gli è sotteso, e quindi la successione con la simultaneità, la durata con l’estensione, la qualità con la quantità (Essai, ed. cit., pp. 74 e 1 56). E l’illusione si badi, non è solo un errore: è una maniera abitualmente sbagliata di vedere le cose. In Materia e memoria, rivolgendosi idealmente ai maestri e ai seguaci dell’eleatismo, Bergson scrive: “Voi sostituite la traiettoria al tragitto e poiché il tragitto ha sottesa la traiettoria, credete che coincida con essa. Ma come potrebbe coincidere un progresso con una cosa, un movimento con un’immobilità? ” (Oeuvres, p. 325). La riflessione sui paradossi di Zenone ritorna nell’Evolutíon créatrice, dove l’argomento vittorioso è riformulato con la massima chiarezza possibile. “Zenone non vede che se si può dividere a volontà la traiettoria, una volta che sia stata prodotta, non si saprebbe dividere il suo prodursi, che è un alto in progresso e non una cosa” (Oeuvres, p. 756).
4. Un concetto bastardo: il “tempo spazializzato”
L’eleatismo come filosofia professata è morto, anche se non mancano isolati pensatori neo-parmenidei, ma esso “domina in una specie di subconscio metafisico”, come dice acutamente il Gouhier (Introduction a Bergson, Oeuvres, p. XV), e ciò accade perché in un certo senso la nostra intelligenza lo secerne naturalmente. Bergson in un qualche modo ha psicanalizzato questo subconscio metafisico e ciò spiega la ragione per cui la critica degli argomenti di Zenone ritorna per oltre trent’anni – dall’Essai, che è del 1889, agli scritti metodologici del 1922, con cui si apre La pensée et le mouvant (pubblicato nel ’34) – allo stesso modo di un tema musicale. Bergson ha conferito a quel pensatore del V secolo a.C. il ruolo di contrapposizione semantica estrema nei confronti della prospettiva che egli andava elaborando. E, in verità, il guadagno teoretico della confutazione dell’eleatismo non fu di poco conto: essa servì a individuare il peccato originale che la nostra mente si porta con sé e che produce nel nostro modo di parlare, di pensare e di vivere guasti di eccezionale gravità. Quel peccato d’origine si chiama “tempo spazializzato”.
Che cosa, dunque, Bergson designa con quella espressione? Egli riporta la nostra attenzione su di un fatto elementare di universale esperienza. Nei nostri orologi la lancetta che segna i secondi copre in un minuto primo uno spazio suddiviso in sessanta parti e, perché possa esserci la misura matematica del tempo, ognuna delle parti raggiunta dalla lancetta deve essere omogenea all’altra e tutte devono coesistere in uno spazio omogeneo. Le parti dello spazio, pertanto, sono uguali e collocate le une accanto alle altre, né si potrebbero distinguere se non fossero l’una fuori dell’altra, l’una esterna all’altra. Noi siamo naturalmente convinti che l’orologio ci indichi delle variazioni temporali, ma in realtà i suoi prima e i suoi dopo non sono qua e dei là. Un tempo così concepito è, però, uno pseudo-concetto, e più propriamente un “concetto bastardo” (concept bátard) perché irrimediabilmente compromesso dall’idea di spazio. La confusione del tempo e dello spazio è così abituale che l’uno e l’altro vengono trattati come cose del medesimo genere e collocate sul medesimo piano. Si indagano prima la natura e le funzioni dello spazio e poi se ne trasferiscono le conclusioni sul tempo; e poiché lo spazio è definito come l’omogeneo da cui è assente ogni qualità, il tempo spazializzato non può essere che l’altra faccia dell’omogeneo. Accade allora che, per una specie di osmosi, si attribuisce al movimento e al tempo la divisibilità dello spazio e, in tal modo, si cade ancora nella trappola di Zenone, rendendo impensabile il tempo nella sua propria specificità. Bergson non manca di sottolineare che nelle preclusioni aprioristiche e nel restringimento di orizzonte che derivano dall’ossessiva riduzione del tempo allo spazio va cercata la genesi del materialismo come forma mentis spontanea e come teoria. E’ accaduto, almeno nel primi decenni della sua storia, persino a una scienza così necessaria come la psicologia, quando ha creduto di dover applicare in modo esclusivo la dimensione spaziale là dove non c’è spazio, l’esteriorità all’interiorità, l’estensione a una realtà inestesa. Ma se si opera una traduzione illegittima dell’inesteso nell’esteso e della qualità nella quantità, si installa la contraddizione nel cuore stesso della domanda prima ancora che nelle risposte che se ne danno. Se non si può conoscere che un solo tipo di fenomeni, quelli spaziali, e se non può esistere che un solo gruppo di scienze, quelle che con più comodità ci rappresentiamo meccanicisticamente, ci si condanna a credersi uomini a una sola dimensione, automi coscienti dotati solo di una ragione calcolatrice.
5. La “durata reale” e il tempo vissuto
Nell’Essai sur les données immediates de la conscience (1889) e in Matière et mémoire (1895) la critica del concetto bastardo di tempo apre l’accesso a più di una verità: il tempo non è lo spazio, lo spazio non è l’unica dimensione della realtà dunque ciò che è nello spazio non esaurisce affatto tutto il reale e tutte le esperienze. Di fronte alla materia, di cui i sensi ci fanno conoscere qualcosa e di cui la maggior parte delle scienze cerca di penetrare la condotta, sta il nostro essere interiore che solo la coscienza è capace di rivelarci. Il “tempo spazializzato” dei nostri schemi mentali e della nostra pratica quotidiana, delle nostre misurazioni, delle scienze fisico-matematiche è quanto mai utile e indispensabile al punto che sarebbe di fatto impossibile vivere senza di esso, ma oltre quella dimensione sta la realtà profonda del “tempo vissuto” della coscienza, di ciò che veramente ci appartiene sul piano esistenziale e che conferisce valore al nostro vivere.
Un oggetto esteriore all’io è un fenomeno per l’io, ma l’io non è un fenomeno di nulla: è una realtà vivente e, nello svolgersi della propria vita, l’esperienza che l’io ha del suo divenire è una sola cosa con il suo essere, è il suo stesso essere. La coscienza di sé, della realtà vivente dell’io è, dunque, l’esperienza metafisica fondamentale ed è la condizione di ogni altra esperienza; ogni uomo in quanto uomo, che sia cioè capace di concentrazione e di autoapprofondimento, può attingere in sé quella realtà a cui Bergson ha dato il nome di “durata reale» (durée réelle).
Per l’io che dura esistere significa mutare, ma il suo mutamento non è mai un mero andare, non è il perdersi di ogni cosa, non è affatto il panta rei, del filosofo dì Efeso1. Non è vero affatto che “tutto passa”, e su questo punto decisivo Freud si dirà d’accordo con Bergson. Nella vita della coscienza il passato non passa per nulla: anzi l’io dura perché continuo è il processo di conservazione e trasformazione di tutto quello che ha vissuto. Coscienza significa memoria (ibid, p. 1397), scrive epigraficamente Bergson, e il passato ci segue dappertutto e si accresce di continuo, inglobando in sé quello che di volta in volta è il presente; d’altra parte, nemmeno il presente sarebbe senza la memoria del passato. lo non sono più lo stesso di ieri, questo è certo; ma non per questo sono altro, al punto di essere estraneo a me stesso. Poiché la durata è memoria, io non sono altro, poiché la durata è creazione, io non sono lo stesso. Ciò che occorre fare è “rappresentarsi la sostanzialità dell’io come la sua stessa durata” (ibid, p. 1312). La coscienza è continuità di vita ed è nello stesso tempo zampillo di novità. Ed è una cosa proprio perché è insieme l’altra.
6. “Non siamo soltanto noi a durare”
La durata reale è la più alta conquista della filosofia bergsoniana, ma in una concezione autenticamente realistica, se il primo capitolo è senz’altro di psicologia metafisica, è altrettanto vero che bisogna scriverne altri. L’uomo, infatti, va colto anche nell’evoluzione della vita, perché questo mondo è il nostro mondo, quello di cui facciamo parte, e la materia e la vita che costituiscono l’universo sono anche in noi, si che “l’uomo non deve mettersi in un angolo della natura come un bambino in castigo” (L’intuition philosophique, in Oeuvres, p. 1361). Ma ciò significa che non siamo soltanto noi a durare e che, accanto alla durata reale dell’io, accanto al tempo vissuto della coscienza personale ci sono altre realtà biologiche e psichiche che durano nel mutamento e che si situano a livelli diversi.
Nell’Introduction à la metaphisique, del 1903, si legge: “La coscienza che abbiamo della nostra propria persona, nel suo continuo scorrere, ci introduce all’interno di una realtà sul modello della quale dobbiamo raffigurarci le altre” (Oeuvres, p. 1420). Sarà questa la tesi di fondo dell’Evolution créatrice che estenderà all’intero universo, ed in particolare al vivente, il principio della durata, la quale appare, pertanto, come “coestensiva alla vita” e all'”esistenza in generale”. Ma se le cose stanno così, il tempo è davvero la stoffa del diveniente e lo è in ogni sua forma, in ogni suo aspetto. Guai a perdere di vista che anche nel fenomeno più umile il tempo riempie un intervallo che nessuno può omettere o saltare, e neppure accorciare. E’ meritatamente celebre per la sua semplicità e profondità il seguente passo dell’Evolution: “Se voglio prepararmi un bicchiere d’acqua zuccherata, non c’è scampo: devo aspettare che lo zucchero si sciolga. Questa piccola circostanza è ricca d’insegnamenti. Il tempo che devo aspettare, infatti, noti è più quel tempo matematico capace di misurare altrettanto bene l’intera storia del mondo materiale, anche se questa fosse spiegata d’un sol tratto nello spazio: esso coincide con la mia impazienza, cioè con una certa parte della durata mia propria, che non è allungabile né accorciabile a volontà. Non è più qualcosa di pensato, ma di vissuto” (ibid., p. 502).
Queste osservazioni sono riprese e convalidate nel saggio Le possible et le réel, pubblicato nel 1930: “Circa cinquant’anni fa ero molto legato alla filosofia di Spencer. Ma un giorno mi accorsi che in essa il tempo non serviva a nulla, non produceva nulla. Ora, ciò che non produce nulla, è nulla. E tuttavia, mi dicevo, il tempo è qualcosa. Quindi agisce. Ma che cosa può fare? Il semplice buon senso rispondeva: il tempo è ciò che impedisce che tutto sia dato in un colpo solo. Esso ritarda, o piuttosto è un ritardare. Deve dunque essere elaborazione. Ma allora non sarà forse veicolo di creazione e di scelta?” (Oeuvres, p. 1333).
7. Il meccanicismo e il finalismo radicale cancellano il tempo
Nell’Evolution créatrice, pubblicato nel 1907, si sviluppa un’originale, vigorosa dimostrazione del valore del tempo attraverso la critica del meccanicismo pseudo-evoluzionistico e del finalismo radicale. “La filosofia della vita in cui ci siamo incamminati dichiara Bergson – pretende di oltrepassare insieme il meccanicismo e il finalismo” (ibid., p. 537). La realtà è in continua evoluzione, “la vita si sviluppa e dura” (ibid., p. 538): ecco la verità posta in forte evidenza da Lamarck, Darwin, Spencer. Ma per un incredibile paradosso sono proprio i teorici dell’evoluzione a rendere impensabile il processo evolutivo, avendo assunto a premessa e a criterio esplicativo dell’evoluzione il meccanicismo, cioè uno schema mentale in cui il “dopo” è già necessariamente determinato e incluso nel “prima”, sì che ogni reale divenire, qualsiasi effettiva novità2 resta senza spiegazione. Ai teorici dell’evoluzionismo, però, è accaduto di peggio: essi, senza saperlo, soggiacciono ancora al presupposto parmenideo perché non solo incorporano alle loro ipotesi il meccanicismo, ma lo collegano al principio di conservazione dell’energia, indebitamente estrapolato dalla teoria del calore ed eretto ad assioma universale. Ma se nulla si crea e nulla si distrugge, prima o poi ci si accorge che l’evoluzione di cui si parla è solo parola vuota e vana parvenza e che il primo principio della termodinamica diventa così l’ultimo travestimento dell’immobilismo parmenideo. Qualcuno potrebbe obiettare, ma allora Bergson nega la validità del primo principio della termodinamica? Niente affatto. Per l’autore dell’Evolútion créatrice il principio di conservazione dell’energia ha un suo posto di rilievo nella storia delle scienze della natura, perché serve a costruire una teoria meccanica del calore e si applica a buon diritto a ciò che è intercambiabile in energie di tipo diverso (cinetiche, termiche, elettriche ecc.). Esso non ha però validità alcuna negli ambiti della biologia, della fisiologia, della psicologia e della sociologia, per non parlare di tutto ciò che attiene alla realtà dello spirito e al mondo della storia. In una parola, il principio di conservazione dell’energia non è applicabile laddove i fenomeni sono irreversibili. Ben diverso è il ruolo che gioca, invece, il secondo principio, formulato da Camot e Clausius, il quale non solo attesta in termini matematici un fenomeno reale, ma costituisce una veduta generale colta sulla natura delle cose: è lì a dirci che l’universo è una storia, che è reale il suo mutamento e irreversibile il processo evolutivo – anche se esposto a continui arresti e a incidenti di ogni genere. Insomma, se il primo principio della termodinamica ci informa sul rapporto di una parte con l’altra all’interno di un sistema che si suppone chiuso, il principio Carnot-Clausius ci informa sulla natura del tutto e in questo senso è il più metafisico tra i principi della fisica.
Agli occhi di Bergson, però, è insostenibile anche quel “meccanicismo alla rovescia” (ibíd., p. 528), che è il finalismo radicale, alla Leibniz per intenderci. La dottrina della finalità nella sua forma estrema implica che le cose e gli esseri non facciano altro che realizzare un programma inscritto nella loro natura. “Ma se non vi è nulla di imprevisto, se non vi è alcuna invenzione o creazione nell’universo, il tempo, anche questa volta, diviene inutile. Anche qui, come nell’ipotesi meccanicistica, l’errore sta nel supporre che tutto sia dato” (ibid., p. 528). Installando l’immaginazione nel prima-di essere, il finalismo fa sì che il ciò che si va facendo venga concepito come il già fatto. A veder bene, il meccanicismo e il finalismo non fanno che trasformare in tesi e principi i modi in cui si esplica il lavoro dell’uomo. Un piano, un progetto è un termine fissato ad un lavoro: esso disegna, e per ciò stesso chiude, la forma dell’avvenire. Ma chi ci autorizza – protesta Bergson – a supporre che la vita, o l’Artefice della natura, operi allo stesso modo di chi fabbrica una casa, facendo seguire l’esecuzione al progetto? Molti anni dopo Bergson sarebbe tornato sull’argomento con una domanda paradossale che serviva a far capire come funziona in noi la cosiddetta “illusione retrospettiva”. A chi ci chiedesse: “era possibile che Shakespeare scrivesse l’AmIeto?”, che cosa potremmo rispondere? In realtà l’AmIeto sarebbe stato possibile crearlo, ma solo dopo che Shakespeare lo creò. Non ha senso, infatti, pensare ad un’opera d’arte possibile prima di essere realizzata. In che cosa mai consisterebbe, infatti, questa possibilità? Nell’idea incerta e nebulosa che l’artista portava in sé prima di mettersi all’opera? Ma è proprio di questa idea che egli cerca d’impadronirsi agendo, ed essa diventa precisa e completa solo nel compiersi dell’opera. Noi concepiamo il possibile come precedente nel tempo la sua realizzazione, ma è il tempo che crea sia il possibile che il reale e, contrariamente alle apparenze, crea il possibile dopo il reale (Le possible et le réel, pp. 1341 42).
8. Il tempo della storia
C’è, infine, un altro aspetto fondamentale della concezione bergsoniana del tempo, quello che riguarda la storia propriamente detta, ambito anch’essa del reale e laboratorio per eccellenza dell’umano, in cui il tempo è appunto, e nel modo più evidente, “la materia prima” (V. Mathieu, Saggi bergsoniani, nel volume Bergson Il profondo e la sua espressione, Guida, Napoli 1971, p. 375). Del divenire storico, indagato “en bas”, nelle sue forme inferiori, e “en haut”, nelle espressioni più alte dell’eroismo morale e della santità, Bergson si occupa nell’ultima sua opera, Les deux sources de la morale et de la religion, apparsa nel 1932, venticinque anni dopo L’Evolution créatrice. Bergson non spende neppure una riga a confutare la visione della storia di Hegel, di Marx e dei loro continuatori, ripugnando al suo spirito il carattere dommatico dei presupposti, gli arbitrii del procedimento dialettico e la miseria morale del cosiddetto giustificazionismo storicistico. E’ facile, pertanto, ravvisare nell’ultimo capolavoro di Bergson l’origine di quelle prospettive che di lì a breve saranno sviluppate per vie diverse da Toynbee, Popper e Maritain. Non c’è nella sua riflessione critica sul cammino umano la pretesa di costruire un’altra “filosofia della storia” che, distruggendo insieme il valore del tempo e della libertà, pieghi a priori gli esiti dell’avventura umana all’una o all’altra presunta “legge” o “tappa” del processo dialettico. Nelle Deux sources non vi è alcun diktat del sistema alla realtà dei fatti, ma solo l’indicazione di linee di tendenza, ricavate sempre per induzione e attraverso un largo uso del metodo comparativo.
Al termine dell’itinerario che intendevo percorrere, mi piace concludere con le stesse parole che fanno da chiusa alle Deux sources. Vittorio Mathieu ravvisa in quelle pagine “il risultato più importante dell’intera ricerca di Bergson, e non della sua ultima opera soltanto” (ibid., p. 408); a me pare di scorgere in esse uno dei vertici speculativi del nostro secolo, ma anche un appello pressante che nasce da una nobilissima ansia per l’uomo. Alla fine di un lungo cammino, Bergson ha voluto additarci, senza esitazione alcuna, la grande scommessa con cui si misureranno il nostro tempo e i secoli che verranno. “L’umanità geme – scrive il filosofo francese – quasi schiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. E’ ad essa, infatti che spetta decidere prima di tutto se vuol continuare a vivere. All’umanità tocca poi domandarsi se vuol soltanto vivere, o anche produrre lo sforzo necessario perché persino sul nostro pianeta refrattario sì compia la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina per fare degli dei” (Oeuvres, p. 1245).
Alla domanda: “da che cosa dipende in gran parte il futuro della specie umana?” Bergson dà una risposta originale e profonda. La funzione essenziale dell’universo sarà adempiuta o non lo sarà, a seconda che si realizzi o meno l’alleanza tra la meccanica e la mistica, tra le conquiste della civiltà tecnico – scientifica e un moto, sufficientemente diffuso, di approfondimento della vita interiore, di risveglio delle coscienze allo Spirito, e più specificamente al messaggio e all’esempio di colui che pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole. Bergson sintetizza su questo punto il suo pensiero in due espressioni di capitale importanza: la mistica chiama la meccanica, l’una, e l’altra, la meccanica esige la mistica. La mistica chiama la meccanica, affinché i bisogni naturali e necessari di tutti, e non solo dei privilegiati, possano essere soddisfatti, ma è altrettanto vero che la meccanica esige la mistica affinché il progresso tecnico – scientifico possa veramente trasformarsi in via di liberazione per l’umanità. Far uso della tecnica, infatti, non è mai un problema puramente tecnico. E’ e rimarrà sempre un problema spirituale, ed è in quel campo che va cercata la soluzione.
Testo rivisto dall’Autore, pubblicato nei commentari dell’Ateneo di Brescia.