Il mio intervento non può essere altro che una introduzione a Shakespeare, in quanto il tema in sé è troppo importante e complesso. Il punto di vista da cui mi muovo è quello del ’900, perché ritengo sia questo il secolo che ha capito meglio Shakespeare, anche alla luce del recente “boom shakespeariano”. La domanda può sorgere spontanea: come mai oggi siamo così interessati a Shakespeare? Soltanto una volta Shakespeare scrisse che il suo teatro poteva durare; nella sua epoca si riteneva che solo la poesia stampata potesse resistere nel tempo. Solo i sonetti, dunque, potevano aspirare all’immortalità. Il teatro era costituito da copioni da dare, da dimenticare; questo era l’atteggiamento del massimo “teatrante” che il mondo abbia avuto nell’età moderna. Il momento in cui egli sembra avere un senso del futuro delle proprie opere si verifica quando, nel Giulio Cesare, dopo l’uccisione del celebre condottiero, Cassio dice: “Quanti secoli venturi vedranno rappresentata da attori questa nostra grandiosa scena in regni ancora non nati, e in linguaggi ancora non inventati!” Questa è una profezia orgogliosa ed è l’unica che Shakespeare faccia. C’è, all’inverso, anche testimonianza di profezie di segno opposto, come quella di Voltaire, che pure lo scoprì all’Europa e poi, mano a mano, se ne staccò. Disse di lui: “Ha scritto molti versi felici, ma i suoi drammi possono piacere solo a Londra e nel Canada”.
Shakespeare, a mio parere, ha rappresentato l’esperienza intellettuale più vasta e più profonda dell’età moderna, e a spiegarlo non basta la straordinaria qualità del drammaturgo e insieme la ricchezza della stagione teatrale alla quale appartiene, il teatro elisabettiano. Ci sono altri autori, da Eschilo a Marlowe fino a Molière, ci sono altri grandi momenti di civiltà teatrale che ci attraggono fortemente e tuttavia con essi, nemmeno con la tragedia greca, non si crea un rapporto così stretto, fecondo e creativo. Già Keats diceva con frase straordinaria: “Shakespeare is enough for us” [lettera a R. Haydon, 10 maggio 1817], Shakespeare è abbastanza per noi, e tuttavia ancora adesso potremmo ripetere questa memorabile frase. Perché?
Radicato nella cultura del medioevo, che seguitò ad agire in Inghilterra assai più a lungo che in Italia, il teatro elisabettiano, pur trasformando forma e contenuti di quello medievale, ne mantiene un elemento fondamentale, che è la straordinaria qualità non naturalistica. È sempre legato alla vita, ma esso non si propone di esserne la riproduzione o la imitazione, quindi diversamente dal teatro europeo contemporaneo a quello elisabettiano, non obbedisce a nessuna delle norme che seguono invece quelle opere che intendono imitare la vita. Di qui innanzitutto quella mescolanza di comico e tragico che era oggetto di aspra condanna da parte dei teorici settecenteschi. Shakespeare non esita a inserire momenti comici anche nelle situazioni più cupe, come nell’Amleto, con le battute irriverenti e i giochi di parole del suo protagonista, i suoi becchini-clown, le sue figure risibili. Lo stesso vale per l’Otello, dove Iago si assume la parte del buffone, o anche per il Re Lear, opera intollerabile per alcuni momenti di asprezza, di dolore, che però è tutta intessuta di elementi comici. Si potrebbero fare molte citazioni, dato che tutte le sue opere sono così; comico e tragico si intersecano e i generi si dissolvono. Il fatto è che la distinzione rinascimentale tra commedia e tragedia è completamente ignorata da Shakespeare e dai drammaturghi elisabettiani, che proprio non conoscevano queste re-gole, quindi non le applicavano in nessun modo.
Così un analogo rifiuto del concetto di imitazione nel teatro shakespeariano è alla base della libertà rispetto alle unità di tempo, di luogo e di azione. Luogo e spazio sono affrontati in maniera completamente diversa da quella dei trattatisti del Cinquecento e assai vicina a quella degli anonimi drammaturghi del medioevo, che non esitavano a portare in scena l’intera storia dell’uomo. Questo av-viene in tutto il teatro e in misura estrema in Shakespeare, in quanto egli immette nell’opera molto più delle ventiquattr’ore, descrive decenni, secoli addirittura, riversando l’intera vita di un uomo o di un regno o dilatando al massimo un momento reale. Talvolta ci sono decenni che si esauriscono in poche battute e poi c’è invece un momento cruciale che invade il palcoscenico, tanto è spregiudicato l’uso dello spazio, del luogo. Pensiamo ad Antonio e Cleopatra, dove i personaggi si muovono su ben tre continenti, ma anche alle opere più regolari, come l’Otello, che pure si svolge prima a Venezia e poi a Cipro. L’unica regola che agisce in Shakespeare è quella intrinseca alle necessità dell’azione drammatica, alle necessità espressive. Diceva Eduardo De Filippo: “La sola verità del teatro è la finzione”. Questo è il vero messaggio del teatro e dell’arte in genere. Da qui la spregiudicatezza nell’adattare le fonti storiche alla propria materia, o nel modificare la geografia, inventando navi a Milano o in Boemia, perché suggestivo, ma verosimile ai nostri occhi.
Anche i drammi di Seneca invadono e pervadono il teatro elisabettiano; riempiono questi drammi scritti per lo studio e vengono presi alla lettera, riempiendo la scena di orrori, di elementi sovrannaturali, sensazionali. Di fronte ad opere come queste ci rendiamo conto che ogni criterio naturalistico applicato al linguaggio shakespeariano non può che portare ad una deformazione e in ogni caso ad una riduzione del significato di queste opere.
Un teatro e un linguaggio come questi, se venivano pienamente recepiti da un pubblico come quello elisabettiano, che vedeva le opere medievali e quindi aveva un suo modo di intendere le rappresentazioni, non potevano essere compresi pienamente dal Settecento. Voltaire scopre Shakespeare ma, a mano a mano, finisce per parlarne come del “barbaro” non privo di ingegno. Nemmeno l’Ottocento, che combatté anche nel nome di Shakespeare la propria battaglia romantica, lo comprese a fondo: c’è nella critica romantica un elemento psicologistico che rende impossibile capire veramente l’autore. Per questo dico che è il Novecento il secolo che può capirlo meglio, perché la cultura si può avvalere dell’immenso materiale di studio, di critica, di filologia che i secoli precedenti avevano elaborato. Tuttavia l’importanza del rapporto del Novecento con Shakespeare è data dal fatto che l’arte, grazie al simbolismo, al cubismo, al cinema, alle esperienze teatrali delle Avanguardie si è liberata da ogni concetto di teatro come imitazione, come verosimiglianza, come mera riproduzione del reale. Sembra paradossale, ma è vero: si possono saltare alcuni secoli e trovare un punto di incontro più fecondo tra il linguaggio di Shakespeare e il linguaggio dell’arte contemporanea. Non è un caso che tutta l’Avanguardia italiana ed europea degli ultimi decenni sia sempre partita da Shakespeare. Uno come Carmelo Bene muove da Shakespeare per poi produrre le sue invenzioni teatrali. Il Novecento allora scopre molte cose che la critica precedente non aveva individuato così pienamente; scopre, per esempio, la teatralità di Shakespeare e degli altri grandi elisabettiani. Infatti, pur essendo grandi poeti e letterati, essi sono innanzitutto teatranti e Shakespeare più di ogni altro, lui che fu anche attore e comproprietario di teatri. Sono autori, anche i più colti come Marlowe e Jonson, che considerano le loro opere come copioni nei quali tener conto anche degli attori che hanno davanti. Shakespeare aveva alcuni grandi attori senza i quali certe parti non sarebbero state concepite. Per esempio, il “Fool” del Re Lear non si sarebbe compreso senza un grande Fool come Robert Armin che sapeva danzare e fare il comico. Shakespeare non curava mai la stampa delle sue opere; scriveva copioni dei quali si disinteressava, si curava solo del momento supremo del teatro che è la rappresentazione, dove gli attori recitano, parlano davanti ad un pubblico. Tutto questo segna i guai che al testo sono derivati da questo atteggiamento: dopo tanti secoli, ancora adesso non siamo pienamente sicuri che una parola sia la medesima che Shakespeare abbia scritto. Questo atteggiamento, di Shakespeare più che di ogni altro, fa in modo che l’autore abbia una piena partecipazione ai problemi, ai sentimenti, agli umori dei contemporanei, abbia cioè quel rapporto con la vita e con la società che fa del teatro la meno solitaria delle arti. È inconcepibile un teatro che non si rivolga agli altri, che non sia comunicazione. Il teatrante deve conoscere anche i problemi, la mentalità, la sostanza che compone il suo pubblico. Così la parola dev’essere capace di creare una scenografia, di scavare nel significato dell’azione, di creare ogni parte del dramma; rimane sempre la “parola del teatro”, e non la “parola della letteratura”. Io ho faticato a capire questo, e mi è avvenuto solo a contatto con i registi, con il teatro in sé; allora si capisce che anche i brani più alti, quelli detti d’antologia, di suprema bellezza e suggestione, non si capiscono se non consideriamo la battuta di un dramma per quello che è, se non la inseriamo quindi nel contesto generale. Amleto può essere compreso molto meglio se ricordiamo che nel momento in cui lui parla ci sono persone che di nascosto lo stanno a sentire, e allora la cosa cambia aspetto; la descrizione di Cleopatra avviene quando Antonio crede di averla potuta abbandonare e l’evocazione da parte di Enobarbo della sua bellezza ci dice che Cleopatra non si può dimenticare e che presto tornerà da regina ingannatrice.
Solo il Novecento ha capito questa teatralità totale delle opere shakespeariane, con la riflessione sullo specifico teatrale, sui linguaggi di ogni strumento espressivo come il cinema; insomma, ha capito la qualità metateatrale. Sono convinto che ogni opera d’arte parli anche di se stessa. L’artista rappresenta una situazione, ma anche il dramma personale, il proprio rapporto con la parola. In Shakespeare questo è estremamente evidente, egli fa sempre metateatro. Ad esempio dietro ad alcuni suoi personaggi c’è evidente la metafora dell’attore, come in Macbeth, le cui ultime parole ricordano l’attore: “E spegniti, breve candela! La vita non è che un’ombra in cammino; un povero attore che si pavoneggia e si agita per quell’ora sulla scena e del quale poi non si ode più nulla”.
Questi accenni all’esperienza teatrale sono continui, come nella parte centrale dell’Amleto, che è dedicata alla compagnia di guitti che porterà teatro nel teatro. Dietro ci sono attori e attrici: Cleopatra è un’attrice e vuole morire da attrice, tanto che prima di uccidersi si fa mettere il manto, si sistema la corona in testa e muore come la gran primadonna che è nella vita come sulla scena. Questo elemento del metateatro, della riflessione sull’artista, della riflessione sul linguaggio, è uno degli aspetti che lega il Novecento a Shakespeare. Ora che possiamo vedere il nostro secolo nella sua interezza notiamo che, in fondo, nel romanzo come nel teatro, l’eroe è sparito, è un artista. I grandi eroi della letteratura del Novecento, da Thomas Mann a Svevo a Joyce, sono gli artisti, perché è come se lo scrittore, in un mondo difficile che ha perso le sue coordinate, riconoscesse la figura umana solo guardando se stesso. Credo sia sul comune terreno di una condizione di crisi che l’artista e l’uomo del Novecento possono riconoscersi in Shakespeare. Per esempio, nei drammi storici e nelle tragedie con le loro vicende di sangue, di lotta per il potere, le loro immagini di violenza e crudeltà si può trovare una metafora penetrante di certi aspetti della condizione esistenziale, politica, sociale novecentesca. Allo stesso modo gli elisabettiani trovavano una metafora del loro tempo nelle corti rinascimentali italiane o nelle figure stravolte degli eroi senechiani. In questo senso ha ragione J. Kott in un libro famoso, Shakespeare nostro contemporaneo, un’opera suggestiva e, secondo me, insidiosa, che è stata dietro tutte le ricerche dell’avanguardia negli ultimi decenni. Kott ha ragione quando vede questa vicinanza tra Shakespeare e noi, con la differenza che lui lo legge soprattutto alla luce delle esperienze polacche dell’est europeo senza guardare veramente alla realtà storico – politica dell’autore. In un certo modo Shakespeare non è nostro contemporaneo, però è nostro padre, cioè la crisi che il suo teatro vive, indaga e rappresenta ci riguarda da vicino non perché rispecchia o suggerisce la nostra, ma perché ne è all’origine. Essa infatti rappresenta il passaggio dal Medioevo all’Età Moderna in Inghilterra e il travaglio da cui l’uomo moderno è nato. È proprio la nascita dell’uomo moderno che fa di Shakespeare il grande poeta del mondo moderno, come già notava De Sanctis, che vedeva un passaggio di staffetta tra Dante e l’inglese, il primo che rappresentava il mondo medievale e poi passava il testimone al secondo. Del resto Harold Bloom nel libro discutibile, ma interessante sul canone della letteratura occidentale pone Dante e Shakespeare al centro di quest’ultimo. [Harold Bloom, Il canone occidentale: i libri e la scuola delle ere, Bompiani 1996].
Della trasformazione del mondo a tutti i livelli, scientifico, filosofico, letterario, politico, economico, sociale, il teatro di Shakespeare è veicolo e specchio, ma non solo questo. Io non credo all’arte come puro rispecchiamento, essa è anche creazione, fa la storia. Penso che noi saremmo diversi senza Amleto dietro di noi. Per comodità empirica noi professori accettiamo la divisione canonica della sua arte in quattro periodi: il primo dal 1590 al 1595, che culmina in una grandissima opera come Romeo e Giulietta; il secondo tra il 1595 e la fine del secolo, che vede lo sviluppo dei drammi storici; il terzo massimo periodo tra la fine del secolo e il 1608 con le grandi tragedie (Amleto, Antonio e Cleopatra, Otello, Macbeth…) e il quarto tra il 1609 e il 1613 con i sonetti, scritti in precedenza, e i drammi romanzeschi che culminano ne La tempesta. Questa divisione è accettabile, utile, tutti dobbiamo pur avere dei parametri di riferimento, però ogni interpretazione, se vuole andare al di là della cronologia, deve andare più a fondo e deve studiare l’atteggiamento del poeta dinanzi a questa crisi, a questa trasformazione. Solo in questo modo possiamo comprendere la complessità, per noi uomini moderni, di quanto Shakespeare dice e rappresenta. In quest’epoca anche Dio è più nostalgia di Dio che realtà operante, in cui c’è un senso struggente del passato. Da poeta, l’autore sa che deve rappresentare la realtà che conosce, che è molto diversa, è inquieta, ambigua. Nei primi periodi la crisi è sotterranea, poi finalmente esplode, come in Giulio Cesare, che è del 1599-1600. Quest’opera, che dovrebbe essere una celebrazione della romanità, in realtà rappresenta la fine di ogni mito, la caduta degli eroi, il crollo di ogni certezza. È una realtà molto inquieta quella che il Giulio Cesare rappresenta; in fondo Shakespeare non prende nemmeno una netta posizione di fronte alla congiura, di fronte all’uccisione di Cesare. Ci sono momenti in cui i personaggi dicono che non sanno dov’è il nord, il sud, l’est, l’ovest. Il grande John Donne, che è contemporaneo di Shakespeare, nella stupenda poesia Anatomia del mondo dice che il mondo non sa più dov’è il sole e l’uomo non riesce più a trovarlo.
Sono situazioni che viviamo anche noi dopo la teoria della relatività e certe altre scoperte: ad esempio, dopo la clonazione noi siamo sgomenti di fronte a un mondo che non comprendiamo più, di cui non abbiamo più le coordinate. Questo viene notato dall’autore nel Giulio Cesare e nell’Amleto, opera straordinaria del 1600-01, un dramma presente più di qualsiasi altro dramma e opera nella cultura occidentale. Io non so di poeta o scrittore che, ad un certo punto, non abbia nominato Amleto o non l’abbia usato. L’inesauribile fascino dell’Amleto nasce naturalmente da mille ragioni. La motivazione basilare di questo interesse risiede nell’intuizione, anche scenica, di questo personaggio diverso dagli altri, di questa immagine drammatica della coscienza moderna individuata nel travaglio della sua nascita e che da un lato rifiuta l’eredità del passato (malgrado tutto Amleto non crede alle parole dello specchio) e dall’altro cerca di farsi strada nel labirinto del presente diventato molto incerto. È un presente senza certezze, dove ogni aspetto della realtà, le reazioni umane e quelle sociali, gli affetti e le idee, i sentimenti e le fedi, è sottoposto al grande dubbio, sollecitato da Montaigne, del grande giovane Amleto alla sua grande domanda, alla sua grande interrogazione sull’uomo, sul mondo, su Dio. La grande intuizione e la grande lezione dell’Amleto è che l’uomo deve convivere col dubbio, deve vivere malgrado l’assenza di punti certi. Keats già parlava di Shakespeare e della sua straordinaria capacità di vivere fra certezze e dubbi. Quanto l’intuizione amletica sia feconda lo dimostrano le grandi tragedie, il cui valore e spessore risulterebbe sommamente ridotto se noi le radicassimo, come pure è stato fatto, in uno stato d’animo di personale pessimismo. D’altro canto bisogna andare al di là delle passioni dominanti che noi vediamo in queste opere e che però non ne costituiscono l’elemento più significativo, come ad esempio la gelosia, l’ambizione, l’ingratitudine filiale. Ci sono analisi di straordinaria finezza di queste passioni, di questi sentimenti. La gelosia nessuno l’ha esaminata con tanta acutezza come Shakespeare nell’Otello; però queste passioni dei grandi personaggi vanno tutte inserite in un più ampio contesto che le veda anche come gli strumenti con cui l’autore dà concretezza scenica. Il teatro, come l’arte, non vive di astrazioni.
È la fine di un mondo, di un ordine, di una coerenza che sempre si profila dietro la vicenda drammatica, sia essa quella di Otello o di Macbeth, ed è anche la nascita di un mondo nuovo. Ci sono sempre i due mondi insieme nelle grandi tragedie, uno vecchio che finisce e uno nuovo che faticosamente avanza, nel bene e nel male. La condizione di questo mondo nuovo è la crisi davanti alla disgregazione dell’ordine del passato a cui non viene contrapposto un ordine del presente perché non c’è, perché l’uomo lo sta ancora cercando. Il mondo rimane fuor di sesto, la fine della tragedia non può più coincidere con la catarsi, perché non coincide se non in apparenza con la restaurazione dell’ordine che la vicenda tragica ha ferito. Le ferite inferte alla società, allo stato, alla comunità umana, potevano rimarginarsi nella tragedia greca, perché al di sopra di quello degli uomini c’era un mondo di dei nettamente separato, che aveva il potere di ricomporre il dissidio che si era creato, magari dietro loro spinta. Nella moderna tragedia shakespeariana le ferite non si rimarginano, la tragedia nel senso classico è impossibile perché presuppone un mondo che abbia un ordine dentro di sé, dei parametri, dei punti di riferimento. Questo invece è un mondo senza certezze e senza assoluti, un mondo immanente tutto umano, dove Dio è presente più come nostalgia di Dio che come ente che intervenga nelle sorti umane, dove la sola conoscenza che all’uomo è data è quella che può fati-cosamente acquistare con l’esperienza. È qui che Shakespeare idealmente si incontra con Bacone. Ci sono i soliti studiosi che, non si sa perché, devono uccidere Shakespeare per far nascere Bacone e viceversa. In realtà il vero punto d’incontro è questo, nel porre l’esperienza del mondo in crisi al centro della vita. In questo mondo allora non possono sopravvivere gli eroi tragici, lo dimostra Amleto che lo vorrebbe essere, ma non ci riesce. La sua stessa morte non ha nulla di tragico, nel senso classico del termine; è una morte che avviene per uno scambio di spade, per un duello fra un principe e un borghese com’è in fondo Laerte. I protagonisti di queste opere non sono eroi, ma sono uomini. Anche quando sono re e principi lo saranno nel senso di Machiavelli; non potranno far rivivere quel concetto di regalità proprio di un ordine scomparso. Sono uomini destinati a vivere in un mondo insicuro, fondato sul dubbio, uomini soli con sé stessi e con la propria coscienza, responsabili del proprio destino e la cui forza nascerà proprio dall’accettazione di quell’umana finitudine di cui scrivono Hegel o Keats, dalla capacità negativa di stare tra incertezze, misteri e dubbi che viene attribuita a Shakespeare. L’autore elaborò un’ideologia della crisi che sostanzia la vicenda dell’uomo moderno, ma elabora anche una forma in grado di rappresentarla compiutamente.
La presa di coscienza della crisi e l’individuazione dei caratteri dell’uomo nuovo sono tutt’uno con la creazione di una forma che ha molti tratti in comune con quella usata dai primi drammaturghi, ma la sostanza se ne distacca fortemente. Per quanto poggiata su una decisa trasgressione rispetto ai classici, la forma dei drammaturghi precedenti nasceva da una visione della realtà in cui il concetto di commedia e tragedia era ancora valido. Di fronte alla scoperta di un mondo poggiato sul dubbio, sull’ambiguità, su una mai risolta conflittualità, sull’umana finitezza, nemmeno quella forma pur così aperta e adeguata poteva bastare, e la fuga dai generi diventa elemento strutturale e dominante. Il poeta crea una struttura teatrale estremamente aperta, duttile, inclusiva, in cui la polivalenza del reale si riflette nella polivalenza di una forma che spezza ogni barriera tra commedia e tragedia. Non è più questione, ormai, di una mescolanza, ma di una vera e propria impossibilità di rimanere nell’ambito del genere codificato. In effetti, di fronte alla trasformazione del mondo e dell’uomo l’uso di una forma chiusa sarebbe stato non solo inadeguato, ma ingannevole. Ed è da questa intuizione che nasce la forma nuova delle grandi tragedie, una forma che usa le strutture e le convenzioni della tragedia tradizionale per rappresentare la morte e muovere in una nuova direzione, una forma mai conclusa, la forma del dubbio, sempre aperta, sempre ambigua e problematica. Si pensi a Macbeth, che proprio l’anno scorso è stato rappresentato a Brescia, apparentemente la più tradizionale di queste immagini teatrali, ma tutta internamente lacerata, imperniata su una permanente conflittualità e ambiguità, su un interno dubbio che corrode le singole parole. Non abbiamo una ricomposizione tra mondo del passato e del presente, ma il passato fa luogo senza continuità al presente, l’ordine non torna, la ferita non si rimargina così come avviene nel Re Lear o in Antonio e Cleopatra, dove la nuova forma della tragedia sembra raggiungere la massima esemplarità. Infatti siamo di fronte a un’opera dai mille tempi e spazi, dai mille volti, dalle mille ambiguità e prospettive, a una tragedia davvero manieristica nel senso più alto del termine, in cui il dubbio sulla realtà e la domanda che Amleto esplicitamente si poneva è tutt’uno con la rappresentazione. C’è un’infinita varietà che viene attribuita a Cleopatra, ma anche quella di questo mondo inafferrabile, una tragedia dove è la realtà ad essere una domanda e in cui nessuna risposta è possibile.
Non ci sono mai risposte in Shakespeare, come non è possibile di Cleopatra disegnare il volto inaf-ferrabile. In questa grandissima tragedia di amore e di esaltazione della bellezza non c’è un solo passo in cui si descriva la protagonista; è inafferrabile, è come la bellezza assoluta, indescrivibile. Attraverso tale forma si attua nella concezione del teatro una rivoluzione che soltanto il ’900, con i suoi massimi autori, avrebbe potuto comprendere, recepire e far propria. Questo linguaggio non nasce da una visione predeterminata e anche trascendente dalla vita, esso non pretende né di imitarla, né di comporre l’irresolubile dissidio in un ordine formale che rifletta dantescamente l’ordine del cosmo e della società. Dante è finito, così come il suo mondo straordinariamente armonioso. Siamo di fronte ad un mondo disarmonico di cui Shakespeare è il grande cantore e se c’è un ordine è quello dell’arte, perché anche se il mondo è nel caos, l’arte, per essere tale, non è mai fuor di sesto, deve sempre cercare una forma ed è questo il suo contributo alla nostra vita.
In questa forma nuova di Shakespeare il teatro diventa uno strumento di conoscenza; l’artista rinuncia a dominare il destino dei personaggi, ma partecipando alla loro condizione conferisce al teatro una funzione conoscitiva, a cui tutte le altre funzioni sono subordinate. Il teatro rimane spettacolo perché spettacolo dev’essere, ma diventa soprattutto esperienza attraverso cui conoscere. Questa è la suprema proposta teatrale che l’autore affida alle grandi tragedie, che poi rielabora nelle opere successive, specialmente ne La tempesta, un’opera dove l’uso stesso eccezionale delle unità serve a creare un dramma in cui lo spazio, l’isola, non finge la vita, ma rappresenta la vita; il tempo teatrale non è la successione dei mesi del tempo reale, ma è il tempo reale; l’azione dei personaggi è un’azione che è un processo conoscitivo che conduce ancora una volta, perché il punto d’arrivo è sempre quello, alle ferite del mondo.
Questa azione non è lo spettacolo che lo spettatore contempla, ma è soprattutto l’esperienza conoscitiva che lo spettatore compie.
Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 18.3.1997 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.