Charles Baudelaire è probabilmente la più grande personalità estetica del diciannovesimo secolo, è la persona che ha fondato gran parte della moderna cultura letteraria. Cercherò, sia pure molto sinteticamente, di enucleare nel pensiero di Baudelaire l’interpretazione globale del cosmo e dei suoi rapporti con l’uomo che giunge da una base filosofica, alla quale fa riferimento l’attività poetica.
Partiamo dall’antropologia. Lo spazio spirituale dell’uomo si colloca per Baudelaire fra due confini estremi che lui denomina lo spleen e l’idéal. Il mondo è disarmonico, è decaduto, destrutturato, una terra desolata. Questa disgregazione del mondo è implicita nelle cose, ma ha bisogno di essere aggiunta come giudizio. Il fatto che noi percepiamo lo stesso oggetto attraverso sensazioni diverse; il susseguirsi delle stagioni, ad esempio, tutto denuncia nel mondo una disaggregazione delle parti. Il mondo è, nel suo stesso essere, in qualche modo, una molteplicità decaduta, che si colloca soprattutto nello spazio reale che è lo spirito dell’uomo, l’esperienza morale. La natura, e per natura intendiamo quella umana, è decadenza e corruzione, il regno del male. Lascio ora la parola a due passi di Baudelaire. “La natura non insegna nulla, è essa che spinge l’uomo a uccidere il suo simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo, perché appena noi usciamo dal mondo delle necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e del piacere, noi vediamo che la natura consiglia solo il delitto. E questa infallibile natura che ha creato il parricidio e l’antropofagia e mille altre abominazioni che il pudore e la delicatezza ci impediscono di nominare. Se si analizzano tutte le azioni e i desideri dell’uomo naturale, non si troverà nulla che non sia spaventoso. Il delitto, di cui l’animale umano ha attinto il gusto nel ventre di sua madre, è in origine naturale”. Riporto ora un’altra citazione, sempre tratta da alcuni suoi diari privati, quindi non creata per la pubblicazione, senza alcun desiderio di stupire il lettore. “Ogni giornale dalla prima riga all’ultima, è solo un tessuto di orrori: guerre, delitti, violenze, impudicità, torture, delitti delle nazioni, delitti dei particolari, un’ebbrezza di atrocità universali. E’ con questo disgustoso aperitivo che l’uomo civilizzato accompagna la sua colazione ogni mattino. Tutto, in questo mondo, trasuda il crimine”. Questa è la natura secondo Baudelaire; il mondo è nella sua struttura fisica disaggregato e nella sua strutture morale corrotto e decaduto. Il mondo è il male e in esso l’uomo è immerso.
Nel titolo dell’opera I fiori del male, “male” significa appunto “il mondo”, ciò che esiste, il corteo spaventoso di vizi, di angosce, la terra desolata e corrotta, l’universo splinetico nel quale l’uomo vive. La radice e, per così dire, il simbolo del mondo è il tempo. Il tempo è il grande verme che corrode ogni azione umana, è il germe di dissoluzione; l’uomo non può credere in nulla se non che il tempo distruggerà le cose di cui ha esperienza. Non c’è sano istinto, non c’è amore, non c’è passione che non verrà corroso, distrutto e vanificato. Il tempo è, in qualche modo, il grande metronomo della vanità universale, è il germe di dissoluzione che vanifica ogni azione, è il Dio sinistro che presiede alla vita dell’uomo, è “il nemico vigilante e funesto, che alla fine vorrà il piede sulla nostra schiena”. “Il tempo mi inghiotte, minuto per minuto, come la neve immensa, un corpo irrigidito ad ogni istante”. “Noi siamo schiacciati dall’idea e dalla sensazione del tempo”. Questo è il primo punto della antropologia di Baudelaire.
L’altro polo dell’esperienza psicologica dell’uomo è l’idéal. I fiori del male sono divisi in sei parti e la prima parte, che occupa più della metà del volume, è intitolata “spleen e idéal”. La prima parte si riassume nella parola spleen, che sta ad indicare il sentimento dell’angoscia universale, dell’angoscia metafisica, dell’insufficienza esistenziale che ogni uomo prova dentro di sé. L’altro polo è l’idéal che Baudelaire chiama più volte esplicitamente nella sua opere “il paradiso” o “l’infinito”, il luogo dell’armonia ricomposta. L’uomo passa la sua vita a sperimentare un mondo insufficiente, corrotto, decaduto e a sognare un altro mondo, il mondo della perfezione, dell’infinito, un mondo di cui non ha esperienza. C’è una annotazione in un diario di Baudelaire particolarmente significativa: “L’uomo sogna con tale costanza e angoscia per tutta la sua vita un luogo di cui non ha mai avuto esperienza, da domandarsi se, storicamente, non abbia una volta avuto davvero esperienza di questo luogo.” Ci sono altri versi splendidi in questa direzione: “vedo solo infinito, attraverso tutte le finestre, un infinito che io amo e non ho mai conosciuto” oppure “il mattino noi partiamo, il cervello pieno di fiamme, cullando il nostro infinito sul finito dei mari”. Non è un bel verso romantico, è un verso baudelairiano, l’uomo e i mari sono piccoli e finiti, ma l’uomo è infinito e i mari non gli bastano. Questo è l’altro polo. L’uomo vive nell’esperienza splinetica dell’angoscia esistenziale e nel sogno irrealizzabile dell’armonia ricostruita. Spleen e idéal: questa è la base antropologica di Baudelaire.
Ma la vita dell’uomo non consiste nella contemplazione del male e nel sogno del bene, consiste nell’agire e allora tutto il meccanismo fondamentale dell’azione umana consiste nel tentativo di uscire dal mondo dello spleen, dal modo dell’esperienza che è male e, in qualche modo, attingere, toccare il mondo dell’armonia ricostruita. Questa è la dinamica che fondamentalmente promuove tutta l’azione umana nei suoi dettagli e nelle sue linee di fondo. Come può agire l’uomo per uscire dal tutto? Qui c’è il terzo principio della antropologia di Baudelaire, il principio dell’artificiale. Poiché l’uomo è ben certo che nella natura non c’è nulla che lo soddisfi, l’uomo tenterà di uscire dalla natura, di fare il contrario, di produrre l’anti – natura. Tutta la esperienza individuale e storica dell’uomo si realizza nella costruzione di un’anti – natura che si opponga alla natura. Dato che essa è male, l’uomo cerca di obliterarla, di cancellarla, di costruirle contro un qualche cosa che sia il suo contrario nel sogno, peraltro vano, che questo contrario possa realizzare l’assoluto, l’infinito. Storicamente I fiori del male sono incentrati su Parigi, non solo in quanto luogo dell’esperienza di Baudelaire, ma perché fronte avanzato, punta di diamante dell’anti-natura, la città “da cui l’odioso vegetale è bandito”.
Ma com’è l’artificiale creato dall’uomo? In sé, Baudelaire è molto chiaro e molto esplicito, l’artificiale è il contrario dell’esperienza e può quindi andare in due direzioni: in quella del divino o verso quella del satanico. “Ogni uomo, in ogni istante, ha in sé due postulazioni simultanee: una verso Dio, l’altra verso Satana. L’invocazione a Dio, o spiritualità, è desiderio di salire di grado; quella a Satana, o animalità, è gioia di discendere” (Diari intimi). In un altro passo l’autore dice: “ogni cervello ben conformato, ogni anima giusta, porta dentro di sé due infiniti, il cielo e l’inferno e in ogni immagine di uno di questi infiniti riconosce immediatamente la metà di sé stesso”. Questa è, dunque, la doppia postulazione: “uscire dalla natura: inferno o cielo, che importa”.
Quella che prevale, almeno nel testo e nell’esperienza di Baudelaire, è l’esperienza satanica, infernale con questo punto fondamentale: l’inferno di Baudelaire, il desiderio di uscire dal mondo (“ogni giorno verso l’inferno – dice un verso de I fiori del male – discendiamo di un passo”), porta pur sempre in sé un valore, che è la ricerca dell’assoluto. Tutte le azioni dell’uomo anti – naturali, perverse, sataniche, hanno pur sempre questa radice, il tentativo di realizzare qualche cosa che sia fuori dal mondo e che gli permette di attingere all’infinito. Baudelaire lo dice ampiamente, lo analizza minuziosamente nei suoi testi saggistici. “L’uomo ha cercato nella scienza fisica, nella farmaceutica, nei liquori più grossolani, nei profumi più sottili, i mezzi di fuggire, non fosse che per qualche ora, dal suo abitacolo di fango”. La farmacia, l’alcool, gli stupefacenti: con tutto questo armamentario anti – naturale l’uomo cerca di evadere e di rapire il paradiso in un colpo solo. “Ahimè, i vizi dell’uomo, per quanto pieni di orrore uno possa supporli, contengono la prova del suo gusto dell’infinito, solo che è un gusto che spesso si sbaglia di strada”.
Alla radice della perversione umana c’è la postulazione verso l’infinito attraverso la strada del male e nel celebre saggio intitolato L’elogio del trucco, Baudelaire compie un grande elogio del trucco inteso come l’artificiale retto a sistema. Perché le donne si truccano, si tingono i capelli? Perché desiderano fuggire dalla natura, desiderano capovolgerla? La donna compie una specie di dovere applicandosi ad apparire magica e sovrannaturale. “Importa poco che il trucco e l’artificio siano noti a tutti, se il successo è certo. Quanto al nero artificiale che cerchia l’occhio e al rosso che segna la parte superiore di una guancia, il rosso e il nero rappresentano la vita, una vita sovrannaturale ed eccessiva. Questa cornice nera rende lo sguardo più profondo e singolare, dà all’occhio un’apparenza più decisa, di finestra aperta sull’infinito”. E’ sempre questa l’ultima parola di Baudelaire, l’artificiale inteso come finestra aperta sull’infinito, il tentativo di evadere dalla natura. Perciò, sebbene le azioni delittuose e orribili siano in sé eticamente e moralmente condannabili, la loro radice (l’ansia di assoluto, il sogno di attingere il paradiso) è, in qualche modo, un valore. Apro una piccolissima parentesi citando un passo che tutti conoscete, l’invettiva di Amleto contro le donne che si truccano: “Dio vi ha dato una faccia e voi ve ne date un’altra, vai in convento, vai in convento!”. Shakespeare è erede di una cultura medievale, e qui si misura quali abissi di cultura sono passati quando nasce la scrittura di Baudelaire.
La tematica dell’artificiale è, praticamente, tutta la tematica de I fiori del male e della cultura decadente fino alla fine dell’Ottocento. In Baudelaire vi è implicita ovviamente una polemica con Rousseau e tutta la tradizione del naturalismo romantico. Ne I fiori del male si ritrova, per esempio tutta la tematica della descrizione degli interni, fastosi, ricchissimi, adornati di oggetti d’arte. L’interno è il prodotto dell’uomo contro la tematica naturalistica del romanticismo e, se vogliamo, del classicismo. L’amore innaturale viene contrapposto all’amore naturale, nel tentativo di sfuggire alla natura. La rincorsa all’artificiale ci spinge verso la perversione, il sadismo, l’omosessualità, che sono il prodotto dell’artificiale nel campo dell’amore.
Rientrano in questo ambito gli stupefacenti, il gioco, il vino e soprattutto l’hashish, l’oppio. Gli stupefacenti, voi sapete che Baudelaire è colui che ha scritto più a lungo su questo tema nel diciannovesimo secolo, hanno la loro radice nel tentativo di uscire dalla condizione umana. L’opera che l’autore dedica a questo tema ha il titolo splendido e, a questo punto, credo, chiarissimo, Paradisi artificiali, il quale è diviso in tre saggi, sul vino, sull’hascisc e sull’oppio. Gli stupefacenti sono la metafora più concreta e completa di questa dinamica dello spirito umano. Prima c’è il tentativo di uscire dalla realtà, una breve esperienza esaltante in cui l’uomo crede di aver toccato l’anti – natura, poi realizza che è rimasto dentro la natura, che il tempo esiste ancora, allora si pente e rincara la dose. Si spinge più lontano dalla natura, si avventura in zone pericolose, ricade nell’insoddisfazione, tenta di sfuggire più lontano, è preso dall’orrore, dalla follia e dalla morte. Gli stupefacenti sono la metafora concreta del destino universale dell’uomo.
Questa è l’antropologia di Baudelaire, la sua è una visione organica dell’uomo che ho schematizzato, ma che passa attraverso analisi psicologicamente raffinate. Dentro questo mondo si colloca però un seme misterioso, che è l’arte. L’uomo ha nel mondo, per brevi istanti, l’esperienza dell’assoluto attraverso il bello. L’arte, la contemplazione dell’arte, elimina per brevi momenti nella vita dell’uomo il sentimento dello spleen, in qualche modo gli dà il sentimento dell’armonia del mondo ricostituita; l’arte reintroduce l’unità primitiva, il momento assoluto, la perfezione esistenziale.
Nell’animo dell’uomo c’è una facoltà misteriosa e sovrannaturale che Baudelaire chiama “immaginazione”, che gli permette di realizzare questi frammenti di assoluto dentro alla vita. L’immaginazione non è la fantasia, essa non neppure la sensibilità, “è una facoltà quasi divina che scorge istantaneamente al di fuori dei metodi filosofici i rapporti intimi e segreti delle cose, le corrispondenze e le analogie”. Viene anche definita come “regina della facoltà, essa è l’analisi, essa è la sintesi, è l’immaginazione che ha insegnato all’uomo il senso morale del colore, del contorno, del suono e del profumo. Essa ha creato all’inizio del mondo l’analogia e la metafora, essa scompone tutta la creazione e con i materiali tutti ammassati e disposti, seguendo regole di cui non si può trovare l’origine, se non nel più profondo dell’anima essa crea un mondo nuovo, essa produce la sensazione del nuovo, essa è positivamente apparentata con l’infinito”. L’immaginazione è la facoltà di ricostruire il mondo armonico che in qualche modo vive dentro lo spirito dell’uomo, l’immaginazione ricompone l’unità del mondo, riaggrega ciò che nell’esperienza si è disaggregato, intuisce i rapporti che governano il mondo. Se il mondo è disaggregato, decaduto e corrotto, ma è tuttavia, in qualche modo, unità, bisogna che le sue parti siano in rapporto fra di loro, che esista una segreta armonia che le collega e le fa coesistere. Baudelaire dice addirittura una volta sola questa frase: “Se il cosmo è una sola parola proferita da Dio, bisogna che dentro di lui vi sia un’unità delle parti”. L’immaginazione, che Baudelaire chiama “l’analogia universale”, cioè la corrispondenza fra le diverse parti dell’universo, è la facoltà che ricrea, unificando nelle parti, l’armonia cosmica, la quale è oggettiva. É un’armonia che esiste nelle cose e dunque quando un uomo è dotato della facoltà di ricomporre questa armonia, di unire le parti che sembravano lontane, estranee, disaggregate e di offrirle agli altri, gli altri riconoscono in questa ricostituzione l’armonia cosmica rinata. Il sentimento dell’arte, l’esperienza artistica è la ricostruzione dell’armonia, cioè la reintroduzione dell’assoluto e la sua percezione, sia pure per brevi istanti, nel mondo.
Riepilogando brevemente quanto detto fino ad ora, vi sono ontologicamente, oggettivamente, delle leggi segrete, delle corrispondenze, delle analogie, che sono l’armonia delle sfere, l’unità cosmica. Nel mondo decaduto dell’uomo questa armonia è scomparsa, la percezione delle varie parti è disaggregata; abbiamo l’uomo contro natura, lo spirito contro la materia, le sensazioni diversificate, la gioventù e la vecchiaia, il giorno e la notte; il mondo è decomposto e l’uomo percepisce questa disarmonia. Nell’uomo esiste tuttavia una facoltà suprema, l’immaginazione, che gli permette di intuire questi rapporti e di rappresentare un mondo nel quale l’armonia è restituita. Il prodotto armonico di questa ricostituzione è l’opera d’arte. Questo è il senso del titolo dell’opera I fiori del male, “Fiore” è la metafora che Baudelaire usa frequentemente per indicare l’oggetto d’arte, I fiori del male significa l’arte ricostruita dentro al mondo; il mondo è il male, ma dentro al mondo l’immaginazione sa ricostruire l’armonia, sa ricondurre il molteplice all’uno. L’influsso di Platone è evidente, anche se non è mai citato da Baudelaire in maniera esplicita. Per il grande filosofo greco l’uno è l’assoluto, l’armonia, e nel molteplice vi è la decadenza.
Baudelaire conduce a compimento la sua opera, ha creato una visione del mondo e del destino dell’uomo e ne ha dedotto una teoria poetica. Giunge fino al passo estremo, dalla poetica crea la retorica, si domanda come si scrive la poesia? Baudelaire quindi non fonda solo l’ideologia del decadentismo, ma anche le tecniche poetiche e retoriche di cui si nutrirà, francamente, tutta la poesia fino ad oggi. Non credo che siamo usciti dagli schemi dettati da Baudelaire e da Rimbaud. Come si passa dalla poetica alla retorica? Quali sono i processi estetici? I processi estetici consistono nel prendere le parti disaggregate del mondo e riaggregarle; l’atto poetico consiste essenzialmente nell’unire due oggetti che nell’esperienza sono separati. Mettendoli insieme nasce nel lettore o in colui che contempla l’opera d’arte il sentimento di prendere parte ad un mondo che alla nostra esperienza appare estraneo. Questa riunificazione suscita un senso di armonia, suscita il senso della contemplazione estetica, ossia la percezione della restituzione dell’armonia universale, l’intuizione di un rapporto segreto che coordinava il mondo. I processi estetici consistono dunque essenzialmente nella riaggregazione del diverso. Citando Delacroix, amico di Baudelaire che condivideva anche le sue idee, “il mondo è come un dizionario. I poeti che non sanno cos’è la poesia copiano il dizionario, quelli che sanno cos’è la poesia prendono le varie parole e le mettono insieme”. La pittura era prendere il dizionario del mondo e ricostruire l’armonia. Questa dottrina è esposta nel celeberrimo sonetto Corrispondenze: “La Natura è un tempio dove incerte parole / mormorano pilastri che son vivi, / una foresta di simboli che l’uomo / attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari. // Come echi che a lungo e da lontano / tendono a un’unità profonda e buia / grande come le tenebre o la luce / i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi. // Profumi freschi come la pelle d’un bambino, / vellutati come l’oboe e verdi come i prati”. Il poeta è dotato della capacità di intuire questa armonia.
Tuttavia la tecnica di unire sensazioni diverse, che prende il nome di sinestesia, è del tutto marginale; la poetica di Baudelaire non consiste certo nella invenzione della sinestesia. Tutto il processo poetico consiste sempre nella riaggregazione del diverso; perciò avremo, sì, la sinestesia, per cui si descrive un oggetto, attribuendogli caratteri sensoriali che non sono di quell’oggetto, ma di un altro. Ma c’è anche la tecnica dell’associazione tematica. Ad un certo punto Baudelaire svolge due temi, soprattutto nei poemetti in prosa, descrive due linee dell’esperienza indipendenti una dell’altra, ma poi a poco a poco le mischia, attribuisce i caratteri della prima alla seconda, scambia gli aggettivi, i verbi, arriva ad una struttura verbale alla quale ha associato due temi in un testo solo, facendoli diventare un solo oggetto. Così Baudelaire fa l’elogio dell’allegoria, dice “è stata usata così male, che ci hanno insegnato ad odiarla, ma l’allegoria è una bellissima struttura poetica, perché identifica oggetti diversi e ne mostra la segreta somiglianza”. Si tratta di tecniche che possono essere riapplicate da chiunque. Al di là della poetica, cioè dell’intuizione generale del carattere dell’arte, Baudelaire crea una tecnica, una retorica e la applica, capovolgendo la retorica tradizionale.
Queste tecniche saranno poi riutilizzate, non sempre con la forza poetica di Baudelaire, nella nuova retorica del simbolismo. Sotto il nome di decadentismo viene ricondotta l’esperienza dell’artificiale, la descrizione del mondo degradato e corrotto che è il contenuto tematico della poesia di Baudelaire. L’uomo ha l’esperienza dello spleen e dell’artificielle corrotto. Questi sono i contenuti e vanno sotto il nome di decadentismo. La struttura formale di Baudelaire è invece la ricostruzione di parti estranee del mondo ricondotto in unità. Il simbolismo, la ricostruzione delle parti, è la struttura formale; il contenuto è l’esperienza dell’uomo, perciò il mondo corrotto dell’artificiale e dello spleen. In Baudelaire c’è un’unità antropologica e poetica di un’ampiezza veramente cospicua. I grandi allievi, i grandi poeti che partono da lui e vengono dopo di lui, Mallarmé e Rimbaud, conducono questa poetica all’esito estremo: se Baudelaire faceva pur sempre una poesia narrativa, di ampio respiro, associando oggetti diversi, ma attraverso un discorso progressivo e armonico, Mallarmé e Rimbaud concentreranno al massimo la scrittura, assoceranno in modo diretto parole estranee fra di loro e giungeranno a quella scrittura che, in Italia, va sotto il nome di ermetismo, in cui le parole sono associate, ma non c’è un oggetto di riferimento.
L’ermetismo è la forma adeguata del contenuto trascendente, poiché la poesia parla dell’assoluto, dice parole che nessuno aveva sentito prima. L’ermetismo è la ricostruzione dell’armonia misteriosa del mondo: il contenuto è l’assoluto, la forma è l’ermetismo. L’ermetismo storicamente nasce come la forma adeguata del contenuto trascendente, poiché il poeta ricostruisce un mondo che è il mondo della perfezione, mettendo insieme parole come nessuno prima di lui. Racconto ora un piccolo aneddoto: quando Mallarmé era ormai illustre, intorno al 1890, realizzarono un’inchiesta, chiedendo ai poeti più illustri quale fosse il più grande poeta della storia. Mallarmé rispose senza esitare: “Orfeo”, ma l’intervistatore non era del tutto contento e chiese “fra quelli di cui ci sono rimaste le opere, qual è il più grande?”. “No – disse Mallarmé – con Omero è iniziata la grande eresia, con Omero è iniziata la grande storia dei poeti che raccontavano le cose che si sapevano già.” Orfeo, con la sua poesia, apriva le porte dell’aldilà e usciva da questo mondo.
L’estetica del simbolismo è una gnoseologia orfica, che concepisce l’arte come un atto conoscitivo della trascendenza. Qui si misura il taglio radicale dalla cultura romantica. Per il romanticismo, oggetto della lirica è l’autobiografia del sentimento, delle passioni dell’uomo; per Baudelaire, invece, l’oggetto della poesia è la trascendenza, l’indagine sull’assoluto.
E con questo io concluderei. C’è perciò una specie di gerarchia dei valori spirituali in Baudelaire. Il valore assoluto, il valore determinante dell’esperienza umana è l’impulso metafisico, l’uomo è dominato radicalmente dal sogno dell’assoluto, dal sogno della trascendenza. Il secondo valore, ciò che va più vicino all’assoluto è l’estetica, in quanto riesce, in qualche modo, a restituire all’esperienza dell’uomo per frammenti, per brevi istanti, la percezione di entrare in un mondo armonico. L’estetica è quindi la facoltà che certifica, in un certo modo, per l’uomo l’esistenza dell’esperienza dell’assoluto. L’etica, cioè la legge dell’azione, viene sotto, è governata da un solo principio, il tentativo di fuggire da questo mondo e questo tentativo di fuga va verso la doppia postulazione, il delitto o la santità. “Hanno la stessa radice” dice Baudelaire, “sono entrambi il tentativo di uscire dalla condizione umana”.
Ne Il viaggio, ultima poesia de I fiori del male, c’è questa definizione dell’uomo: “un’isola di orrore in un mare di noia”, che può sembrare scritto alla maniera di William Shakespeare. Cosa significa? C’è il mare della noia dello spleen, dell’insufficienza esistenziale, nel quale l’uomo cerca di crearsi la sua isola, compiendo atti di orrore in questo tentativo. C’è una speranza nella vita dell’uomo, una via d’uscita dallo spaventoso tunnel di orrori che è la vita, e quell’uscita è la morte. La morte è l’unica porta aperta del mondo, l’unica porta attraverso la quale si può sperare di balzare nel regno dell’armonia. L’ultima parte de I fiori del male è dedicata alla morte: “La Morte consola, la Morte, ahimé, fa vivere… / lei scopo della vita, lei speranza / unica, elisir che tonifica e inebria / e ci dà forza d’arrivare a sera; // lei che attraverso il gelo, la neve, la tempesta / fa vibrare di luce l’orizzonte tenebroso; / lei locanda famosa di cui parlano i libri, / promessa di una sedia, di un letto, di una cena; // lei Angelo che regge con magnetiche dita / il regalo del sonno e l’estasi dei sogni / e rassetta le coperte a chi è povero e nudo, // gloria divina, mistico granaio, / capitale del povero e sua antica / patria – lei, portico che s’apre sul mistero dei Cieli!” (La morte dei poveri). Questi versi li ha scritti Charles Baudelaire, che è celebre come un poeta erotico e demoniaco, eppure è uomo di una spiritualità intensissima, un vero mistico. Leggiamo le ultime due strofe de Il viaggio, l’ultima poesia de I fiori del male: “Su, andiamo, Morte, vecchio capitano! / Salpiamo, è tempo, via da questa noia! / Son neri come inchiostro terra e mare, / ma i nostri cuori, vedi, sono colmi di luce. // Dacci, che ci sia conforto, il tuo veleno! / Quel fuoco arde il cervello: giù nel gorgo profondo, / giù nell’Ignoto, sia l’Inferno o il Cielo, / scendiamo alla ricerca di qualcosa di nuovo!”.
Nota: Trascrizione, non rivista dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 16.3.1995.