Vorrei percorrere questo testo, Il Libro d’ore e segnare un percorso anche perché magari poi un eventuale, un futuro lettore può riprendere in mano il libro e avendo un percorso già tracciato ha la possibilità di soffermarsi, di tornare indietro, di deviare e quindi di leggere questo libro di liriche in un modo diverso.
È un libro che ha bisogno appunto di un percorso, è un libro non facile e soprattutto è un libro strano, perché non è una raccolta di poesie, non è come le Nuove poesie, o il Libro delle immagini, dove ci sono poesie una accanto all’altra, la poesia è qualcosa di chiuso in sé, si può leggere una poesia, poi mettere il libro sul tavolino per una settimana, rileggerne un’altra in seguito. Il Libro d’ore è un libro invece in cui le poesie sono legate una all’altra, sono poesie senza titolo, che esigono proprio il rapporto vicendevole.
Rainer Maria Rilke rimane un poeta ancora abbastanza sconosciuto in Italia, nonostante un certo successo. È stato un poeta molto letto e anche tradotto negli anni Trenta. Le traduzioni, appunto degli anni Trenta, sono traduzioni che hanno avuto il merito di far conoscere al pubblico italiano un poeta certamente importantissimo per la lirica del Novecento. E dall’altra parte però, queste traduzioni risentono un po’ del clima letterario italiano che è molto lontano dal clima letterario in cui Rilke aveva lavorato. Per esempio la lingua dei traduttori degli anni Trenta risente moltissimo di D’Annunzio e Rilke è molto lontano da D’Annunzio, cercare di rendere Rilke con la lingua dannunziana significa veramente stravolgerlo. Oppure, nel migliore dei casi, con il purismo degli ermetici fiorentini. Infatti gli ermetici fiorentini, indagano, leggono nel limite in cui è loro possibile, perché non tutti conoscono il tedesco, abbiamo così traduzioni che risentono un po’ di questo purismo linguistico. Questa fama di Rilke, molto grande negli anni Trenta, continua in Italia anche nel primo dopoguerra, mentre negli anni Sessanta, soprattutto dal punto di vista letterario, l’attenzione verso Rilke sparisce per rinascere negli anni Settanta, ma non attraverso poeti o attraverso una nuova poetica, ma grazie alla riscoperta o meglio, le traduzioni italiana di un filosofo, Heidegger, che ha fatto di Rilke, soprattutto dell’ultimo Rilke, un suo autore, cioè un poeta che lui ha ascoltato molto attentamente. Quindi l’attenzione a Rilke, negli ultimi anni, è un attenzione più di carattere filosofico che di carattere letterario.
Il Libro d’ore è un libro come erano i libri d’ore di preghiere. Rilke, soprattutto intorno al 1899-1900, quando parla delle poesie di questo libro, non parla di poesie ma parla di preghiere. Il libro è diviso in tre parti: la prima parte è Il libro della vita monastica, scritto nel 1899, il secondo libro, Il libro del pellegrinaggio, fu scritto due anni dopo, la terza parte, anch’essa scritta due anni dopo, è Il libro della povertà e della morte. Questi tre libri sono stati scritti a due anni di distanza l’uno dall’altro, ma in un periodo di tempo molto breve, circa tre o quattro settimane. I primi due furono scritti vicino a Berlino e vicino a Brema mentre il terzo libro a Viareggio. Si percepisce che questi libri furono scritti in un tempo molto breve, in poche settimane, ma non perché non siano stilisticamente perfetti, una critica che si fa al Rilke del Libro d’ore è di essere eccessivamente abile, eccessivamente bravo, fino veramente ad essere stucchevole, ma perché a volte i libri hanno un fiato molto caldo, si sente che l’ispirazione è lì, caldissima, senza il tempo un po’ di sedimentare, di posarsi sul fondo, un po’ di raffreddarsi.
Nel Libro della vita monastica Rilke immagina di essere un monaco, un monaco russo. Prima di sviluppare questo tema del poeta che si finge monaco è necessario dire che, quando Rilke si accinge a scrivere questo libro, aveva fatto due esperienze fondamentali. Una è un soggiorno in Italia, a Firenze, ed è l’esperienza ravvicinata con l’arte del primo rinascimento, da questa esperienza nasce un libro abbastanza interessante, soprattutto per la lettura che fa dell’arte italiana, che è il Diario Fiorentino. La seconda esperienza è il rapporto, prima amoroso poi per tutta la vita di amicizia molto intensa, con Lou Salomé, una donna che ha giocato un ruolo importantissimo nella cultura tedesca di fin du siècle, amica di Nietzsche, di Freud, la quale porta Rilke in Russia. Rilke fa due viaggi con Lou Salomé in Russia. Dapprima Rilke si accosta alla Russia in un modo molto letterario, si sente che ha letto Tolstoj per esempio, e infatti, con Lou Salomé va a far visita a Tolstoj, ma poi questo interesse solo letterario si trasforma proprio in un interesse molto forte per la cultura religiosa russa e anche per l’arte russa. Vedremo come queste due esperienze prendono corpo nel Libro della vita monastica. Leggerò una serie di poesie in modo da creare, proprio attraverso la lettura delle poesie, il percorso. All’inizio del libro, vi è la terza poesia:
“Ho molti fratelli in abito talare al Sud
Dove nei conventi cresce l’alloro
So che immaginano Madonne umane
E sogno giovani Tiziani in cui Dio arde come una brace
Ma per quanto guardi in me stesso
Buio è il mio Dio
Groviglio di cento radici
Che suggono mute
Mi levo dal suo tepore
Soltanto questo so
Tutti i miei rami riposano nel profondo
Soltanto al vento tremano.”
Qui abbiamo già chiara una polarità che regge tutto il primo libro. Da una parte abbiamo il Sud, l’Italia, e dall’altra parte invece la Russia. Il monaco che Rilke crede di essere, non è soltanto un monaco, è un monaco pittore, che come lavoro dipinge. Ed ecco allora che il monaco, russo, pittore, dice: “io ho molti fratelli al Sud, che portano l’abito come lo porto io, al Sud dove nei conventi cresce l’alloro” – che cosa fanno questi fratelli pittori meridionali – “immaginano Madonne umane” – il divino appare umanizzato quando questi fratelli monaci, pittori, meridionali, rappresentano Dio. Dice ancora il monaco: “e io sogno, quando mi immagino questi fratelli pittori, dei giovani Tiziani” – Tiziano, il riferimento è chiaro al pittore veneto – “in cui Dio arde come una brace” – cioè Dio è luce, ardore, calore. La seconda strofa invece dice il contrario: “ma se guardo in me stesso il mio Dio è buio, è un groviglio di cento radici che suggono, vanno giù nella terra, e l’unica cosa che sento di questo Dio è il tepore” – sento che mi riscalda un poco.
La polarità è basata su una diversa idea di Dio, da una parte, ma soprattutto da una diversa idea della rappresentazione di Dio. Ed ecco allora seguiamo un attimo come Rilke vede la rappresentazione del divino che, i pittori, suoi fratelli meridionali hanno fatto. In un’altra poesia il poeta scrive:
“Il ramo dell’albero Dio
Proteso sull’Italia
È già fiorito.
Si sarebbe coperto di frutti anzitempo
Ma se stremato in pieno fiore
E non darà più frutti
Fu solo la primavera di Dio
Solo suo figlio
Il verbo si compì
Tutte le forze rivolte al fanciullo raggiante
Tutti gli portarono doni
Tutti cantarono come cherubini le sue lodi
Odorava lieve rosa di tutte le rose
Era un cerchio attorno agli smarriti
E andava cangiando avvolto in mantelli
Fra il levarsi d’ogni voce del tempo.”
Cosa dice questo monaco russo? “Il ramo dell’albero Dio proteso sull’Italia è già fiorito. Si sarebbe coperto di frutti anzitempo ma se stremato in pieno fiore non darà più frutti”. La rappresentazione del divino, così come è stata fatta dai monaci pittori – qui il riferimento è soprattutto al Beato Angelico e al primo rinascimento italiano – è una rappresentazione che ha perso forza, che ha perso vita, addirittura il divino “fu solo la primavera di Dio”, l’estate, cioè il momento in cui viene il frutto, non c’è stato. E più avanti, in una poesia dedicata alla Madonna:
“E questi pittori, -frati pittori, colleghi suoi-
Amarono anche la fanciulla eletta filiare,
La schiva, l’impaurita, l’afflitta, la giovine in fiore, l’occulta che cela mille vie.
E la lasciarono partire lieve a fiorire con il nuovo anno.
E l’umile sua vita di Maria splendida divenne, regale.
Risuonò di casa in casa uno scampanio festoso
E lei distratta fanciulla un tempo tant’era sprofondata nel suo grembo,
Tanto gravida di quell’uno e sufficiente mille
Che ogni cosa pareva rischiararla.
Era una vigna ed era carica.”
I frati, nel primo rinascimento, amarono anche la fanciulla eletta, la schiva, cioè rappresentarono la Madonna, “e la lasciarono partire lieve a fiorire con il nuovo anno e l’umile sua vita di Maria splendida divenne e regale” – e loro, nel rappresentare il divino nella Vergine trasformarono un’umile donna in qualcosa di splendido e – “regale”. Le immagini che vengono dopo sono un tentativo, in versi di quello che, secondo Rilke, era l’ immagine del divino nel primo rinascimento. Subito dopo la poesia prosegue:
“Ma come se il peso dei frutti
Il crollo degli archi e delle colonne
Lo sfinire dei canti l’avessero schiacciata
Lei, la Vergine ancora avvinghiata a qualcosa di più grande
Volse lo sguardo a ferite future
Le sue mani che s’ aprivano mute un tempo sono vuote
Non ha generato il più grande
E gli angeli che non consolano le stanno intorno terribili e freddi.”
L’immagine della Vergine, come ora è rappresentata per il monaco russo, ha le mani vuote, e subito dopo dice una cosa gravissima: non ha generato il più grande, cioè, addirittura, non ha generato il divino, il divino si è come bloccato in lei e gli angeli, che non consolano, le stanno attorno terribili e freddi: il divino non appare più in queste immagini. Allora il pittore russo, il frate, come può dipingere il divino? Nella quarta poesia scrive:
“Non possiamo dipingerti a piacere
Alba da cui s’ alzò il mattino
Dalle vecchie scodelle dei pittori
Gli stessi segni prendiamo
Gli stessi raggi che il santo
Usò per nasconderti
Leviamo innanzi a te immagini come pareti
Già mille muri ti circondano
Perché le nostre mani pie ti velano
Ogni volta che t’apri ai cuori”.
Cosa vuole dire il primo verso: “non possiamo dipingerti a piacere?” Nel 1551 il concilio della chiesa di Mosca, dopo l’invasione dei mongoli che avevano creato un grande scompiglio, decide i canoni secondo i quali i pittori di icone devono dipingere. Rilke sottolinea come essi debbano attenersi alle vecchie forme: “dalle vecchie scodelle dei pittori, gli stessi segni prendiamo, gli stessi raggi che il santo usò per nasconderti”, il santo qui è S.Luca. Secondo la tradizione ortodossa si dice che S.Luca fosse il primo che dipinse una immagine della Madonna, e questa immagine della Madonna è la così detta Madonna Odigitria, custodita a Costantinopoli. Il concilio della chiesa Russa affermò che i pittori di icone dovevano semplicemente ripetere quella immagine, non inventarne un’altra. Quella che noi oggi conosciamo come soggettività artistica, non esiste. Ma questo è abbastanza chiaro perché se l’immagine deve in qualche modo rappresentare il divino, il divino è l’immediato, un’immagine è sempre il frutto di una mediazione. Cioè l’immagine è sempre il frutto di una mano che crea l’immagine, quindi passa sempre attraverso una mediazione e attraverso una soggettività. Come può il divino, che è immediato, rimanere divino nel mediato, in qualcosa che è frutto di mediazione? Questo è impossibile. Il divino può rimanere soltanto se l’immagine è divina in sé, è stato il santo a farla e io come monaco pittore la riproduco così, com’era, la mia soggettività creativa non ha nessun peso, non ha nessun ruolo. Quindi voi vedete che abbiamo due visioni, non solo diverse del divino, che poi indagheremo meglio, ma anche due visioni estetiche completamente diverse. Il monaco italiano è colui che filtra il divino in sé stesso e lo rende, ma non può che renderlo umano: “dipingono Madonne umane”. Non solo perché hanno sembianze umane ma perché in effetti il divino è mediato dalla soggettività creatrice e quindi l’immediato, che è il divino, diventa una cosa mediata, perde vita, non è più sé stesso. Il monaco russo invece dice: io dipingo, riproduco l’immagine divina come il santo l’ ha fatto, “gli stessi segni prendiamo, gli stessi raggi che il santo usò”, non per rappresentarti, ma per nasconderti. L’immagine non rappresenta il divino, ma lo nasconde. Continua Rilke:
“Dio che mi sei vicino
Se a volte a notte tediandoti
Batto forte alla tua porta
E’ perché stento a sentire il tuo respiro
E so che sei nella tua stanza
Solo
E se hai bisogno non c’è nessuno…”
Cosa significa questa poesia? Dice il monaco: Dio che mi sei vicino, se a volte a notte tediandoti, batto alla tua porta è perché non ti sento più, improvvisamente non ci sei più lì, non sento più neppure il tuo respiro, e se hai bisogno di qualcosa non c’è nessuno che ti aiuti, dà un piccolo cenno, io ti sono vicino, tra di noi c’è solo una parete e basterebbe un richiamo sia mio, sia tuo, perché questa parete sparisca. E più avanti: la parete è fatta delle tue immagini, l’immagine che abbiamo di Dio, del divino non è che ci unisca, improvvisamente noi non abbiamo un contatto con Dio, l’immagine ci separa perché Dio è buio, è radice fonda, quindi non può essere l’immagine. L’immagine è sempre qualcosa di chiaro. La parete “che ci divide è fatta delle tue immagini. Le tue immagini ti stanno innanzi come nomi”. Quindi la parete è sì qualcosa, l’immagine è una parete che ci divide da Dio. I nomi invece sono quella cosa che fanno sì che esista un io e un tu, cioè fanno sì che uno si chiami un nome e uno si chiami un altro, cioè il nome è qualche cosa che divide, differenzia ma fa sì che esista anche il rapporto tra le persone, perché esiste la differenza tra le persone. Quindi questa parete è sì qualche cosa che divide il frate pittore da Dio, ma qualcosa che fa sì anche che il frate, il monaco sia da una parte e Dio sia dall’altra e quindi sia possibile in qualche modo il dialogo, la preghiera e non sia invece una unione di tipo mistico dove il monaco sia in Dio, diventi una cosa sola con Dio. Qui però Rilke si trova davanti ad un grosso problema: se un pittore, come il monaco russo deve solo riprodurre le immagini che S.Luca ha creato, in realtà egli come pittore non esiste, cioè come io non esiste. A questo punto noi troviamo però una poesia molto significativa:
“Che farai Dio se muoio?
Sono la tua bocca.
E se mi spacco?
Sono la tua acqua.
E se m’appesto?
Io sono la tua veste
Il tuo strumento
Senza di me non hai alcun senso
Non hai più casa se muoio
Che t’accolga con parole calde e amiche
Dai tuoi piedi stanchi scivolano via i sandali di velluto
Perché i tuoi sandali sono io
Il tuo grande mantello t’ abbandona
Il tuo sguardo che è caldo accolgo sulle guance
Come su un cuscino
Verrà a cercarmi a lungo
Per cadere al tramonto in mezzo a pietre estranee
Che farai Dio?
Ah che angoscia.”
Il poeta qui dice: “Che farai Dio se muoio” Qui Rilke sente gli influssi di un grandissimo poeta mistico della Slesia che è Angelo Silesio il quale era arrivato a dire in alcuni versi: “So che senza di me Dio non può un istante vivere. Se io divento nulla deve di necessità morire”.
Ci troviamo qui in una posizione ribaltata rispetto a quella del monaco perché qui egli dice: Dio se esisti, esisti perché ci sono io. Che farai Dio se muoio? Ecco allora che a questo punto del libro la finzione che Rilke ha di essere il monaco, pittore, salta. E si capisce benissimo che chi parla, chi fa queste preghiere non è più il monaco, pittore russo, ma è Rilke stesso, e quello che sta cercando è certamente una poetica e una estetica che non può più avere il mezzo della rappresentazione visiva, ma un altro mezzo che è quello delle parole, e in particolare delle parole poetiche. Abbiamo in poche parole il salto dal monaco pittore al monaco poeta, perché il monaco pittore si trova come in un vicolo cieco dal quale non può uscire, allora Rilke cerca di costruire e, in un modo non sempre così profondo, a volte anche imbrogliando, una poetica, un’estetica nel quale in qualche modo il divino parli, che sia in qualche modo vivo, e non sia invece oggettivato in una immagine: questo è lo scopo del libro, almeno quello che anima tutto il libro. Infatti questo passaggio, vi dicevo, dal monaco pittore al monaco poeta, o almeno a un monaco che non è più pittore lo si vede in un’altra poesia dove, per esempio, dice:
“Ti edifichiamo con mani tremanti
Atomo su atomo ti costruiamo
Ti edifichiamo con mani tremanti atomo su atomo, ma chi può compierti cattedrale” – lui chiama a questo punto Dio cattedrale, cioè non abbiamo più le immagini di tipo pittorico adesso siamo passati, diciamo così banalmente a quelle di tipo architettonico, e Dio è una cattedrale che il monaco costruisce. In questo senso non siamo più con un monaco pittore ma con un medico architetto, possiamo dire –
“Cos’è Roma?
Rovine.
E il mondo?
Macerie ancora prima che s’alzino le cupole delle tue torri
E appaia da infiniti mosaici la tua fronte raggiante.
Ma in sogno, a volte
Percorro con lo sguardo dalle fondamenta al culmine d’oro del tetto
Tutto il tuo spazio
E vedo i miei sensi
Creare e plasmare gli ultimi fregi.”
Qui vedete non abbiamo più il pittore che dipinge l’immagine divina ma abbiamo un architetto che piano, piano costruisce questa cattedrale che è Dio. Questo tema lo riprende più avanti in un’altra poesia:
“Artigiani siamo
Garzoni, muratori, maestri
E siamo qui a costruirti
Alta navata
A volte giunge uno straniero cupo
Scintilla per i nostri cento spiriti
E ci mostra tremando un nuovo appiglio
Saliamo ponti vacillanti
Grevi martelli nelle nostre mani
Finché l’attimo non ci baci in fronte
Viene da te come il vento dal mare
Fulgendo quasi conoscesse tutto
Allora eccheggiano mille martelli
E colpi penetrano la montagna
Soltanto quando annotta
Il tuo profilo futuro traspare
T’ abbandoniamo Dio
Sei grande.”
Ecco, allora che si scorge la metafora del lavorare, del costruire Dio. Se noi seguiamo questa metafora, che Dio è qualcosa che si costruisce, arriviamo a qualcosa che è molto diverso da quello che normalmente la religione afferma. Normalmente la religione dice che Dio è Dio padre e ha creato gli uomini. Qui invece addirittura abbiamo il rapporto opposto cioè sono gli uomini che creano Dio. Quindi questo rapporto di paternità con Dio in questo libro salta. Infatti più avanti abbiamo una poesia di questo tipo, è una poesia tratta dal secondo libro, il Libro del pellegrinaggio, che si chiama così perché il monaco russo del primo libro ha lasciato la cella e ha iniziato ad andarsene con i pellegrini. Dice in questa poesia del secondo libro:
“A me ti sei mostrato Eterno
E ti amo come un caro figlio
Che se ne è andato via da piccolo
Perché chiamato dal destino in trono
Innanzi a cui una valle sono i paesi
Sono rimasto indietro come un vecchio
Che non capisce più il suo grande bimbo
E sa pochissimo del nuovo
A cui tendono gli intenti del suo seme
Tremo a volte per la tua fortuna che corre su tante navi straniere
E sogno che ritorni in me
Al buio che t’ ha cresciuto
Temo a volte se mi perdo nel tempo
Che tu sia morto
Ma poi leggo di te
E della tua eternità
Parla ovunque il vangelo
Sono il padre
Ma il figlio è molto di più
E’ tutto ciò che il padre è stato
E quel che non è stato cresce in lui
E’ il futuro e il ritorno
E’ il ventre il mare.”
Qui Rilke afferma: io sono il padre e tu sei il figlio, che se ne va su navi straniere, se ne va in preda al divenire del mondo, e io invece rimango tutto in un angolo impaurito di questo divenire, di questo eterno mutare delle forme, tu invece sei un figlio che abbandona il padre:
“Ma si ama un padre o non ci si allontana dalle sue vuote, inutili mani
Come hai fatto con me, severo in viso,
Non si depone adagio la sua parola avvizzita
In vecchi libri che s’aprono di rado?
Non si fluisce via dal suo cuore come da uno spartiacque verso gioia e dolore?
Il padre non è per noi quello che è stato?
Anni passati estranei al cuore
Gesti desueti vestiti morti
Mani appassite capelli sbiaditi
E se un tempo è stato un eroe
Ora è una foglia
Cade
E noi cresciamo.”
E più avanti dice:
“E un incubo sono per noi le sue attenzioni, – le attenzioni del padre –
È pietra la sua voce
Vorremmo ubbidire a quel che dice
Ma sentiamo appena le sue parole
Il nostro dramma è una gazzarra troppo chiassosa per comprenderci
Vediamo solo i bordi delle sua bocca da cui cadono sillabe che svaniscono
E così gli siamo sempre più lontani
anche se l’amore ci unisce ancora
E solo quando morirà su questa stella capiremo che qui passò la vita
Questo è nostro padre
E io
Io dovrei chiamarti tale?
Sarebbe separarmi da te mille volte
Tu sei mio figlio
E ti riconoscerò come un bimbo prediletto
Anche se ormai sei un uomo e un vecchio.”
Il concetto di Dio è completamente ribaltato. Se Dio è l’alta navata che dobbiamo costruire, o che il poeta vuole costruire allora ci troviamo in una specie di trilogia estetica: se Dio è la cattedrale che va costruita, se Dio è il figlio che in qualche modo va generato, perché i figli vanno generati, com’è possibile fare questo, come l’uomo può farlo? La domanda che ci si pone è Come? In una altra poesia Rilke dice:
“Se qualcosa mi cade dalla finestra
Fosse anche la più piccola, una palla o una bacca
Come si scaglia potente su di essa la forza dei gravi
Evento dal mare e la porta al centro del mondo
Sopra ogni cosa, ogni pietra, ogni fiore, ogni bimbo che dorme
Vigila un bene pronto anche al volo
Solo noi da chiuse cerchie
Ci spingiamo boriosi verso gli spazi liberi e vuoti
Invece di levarci come piante seguendo forze sagge
Invece di allinearci docili e quieti
Per vasti solchi
Ci uniamo a caso
E chi resta fuori e si esclude è indicibilmente solo
E deve imparare dalle cose
Iniziare da capo come un bimbo
Perché esse care a Dio
Non l’ hanno mai abbandonato
Deve imparare nuovamente a cadere
Riposare paziente nel suo peso
Ch’io so sfidare gli uccelli al volo
Perché anche gli angeli non volano più
I serafini meditando siedono attorno a lui come pesanti uccelli
Ruderi d’uccelli e sembrano pinguini
Come sono tristi.”
L’uomo deve imparare dalle cose, ma soprattutto deve imparare a cadere, deve imparare a seguire la forza di gravità, l’uomo, dice Rilke, ha perso questa capacità, non segue più la forza di gravità, cioè non segue più l’ordine della natura e l’ordine del cosmo, l’ha completamente deformato.
Questa deformazione, che l’uomo ha fatto delle cose e del mondo, è il tema del terzo libro, Il libro della povertà e della morte. Rilke lo scrive dopo un’esperienza che per lui fu, da un lato, importante dal punto di vista del lavoro estetico, dall’altra parte invece umanamente traumatica. Dopo Il libro d’ore che dà a Rilke una fama notevolissima, Rilke si sente completamente insoddisfatto del libro, si sente completamente vuoto e decide di avviarsi per una via diversa. Decide di recarsi a Parigi come segretario di uno scultore, allora molto famoso, molto più vecchio di lui, quasi sessantenne, mentre invece Rilke è proprio alla soglia dei Trent’anni, che è Rodin. E alla scuola di Rodin, Rilke forma la sua nuova estetica, cioè quella estetica che poi verrà concretizzata in quel libro notevole che è le Nuove poesie. Ma il rapporto traumatico è, non tanto con Rodin, quanto invece con la città di Parigi. La metropoli appare a Rilke come un luogo infernale, un luogo in cui le cose hanno perso completamente il loro senso, non ne hanno più. Ma soprattutto gli uomini hanno perso la loro dimensione: in una città come Parigi i ricchi non sono più ricchi, e i poveri non sono più poveri, cioè hanno perso la loro dimensione, la loro essenza. Egli vede l’esperienza della metropoli come luogo in cui il soggetto è mitragliato, bombardato da impressioni continue: velocità di cambiamento, di immagini, di folla.
Se voi guardate la pittura impressionista francese non esiste questo trauma, molto spesso domina nei francesi ancora una gioia di vita, un piacere nel sottoporsi a queste impressioni. Il tedesco invece, rimane completamente traumatizzato perché? Perché il bombardamento della impressioni gli fa nascere il dubbio che lui, il soggetto, l’io su cui tutta la filosofia tedesca aveva lavorato per un secolo, l’io, sia soltanto un fascio di impressioni e quindi sia nulla, sia – come dice Hofmannsthal – una foglia portata via dal vento e che quindi sia in sé stesso inconsistente. C’è il tema della fugacità, che in Hofmannsthal è molto presente, in Rilke meno. Su Parigi, nel secondo libro, lui scrive delle poesie abbastanza forti. Io ve ne leggo una sola, solamente per darne una idea. State attenti a cosa è diventato il monaco russo, ormai non è più il monaco, è veramente il poeta della grande metropoli, il poeta che se ne va nella grande metropoli:
“Perché, Signore le grandi città sono perdute e sfatte?
Fuga dalle fiamme è la più grande
E non c’è niente che le consoli
E il loro breve tempo scorre
Vi abitano uomini male e a fatica
In stanze buie con gesti angosciati
Più impauriti di un gregge d’ agnelli
Fuori veglia e respira la tua terra
Ma loro vivono e non lo sanno
Alle finestre sempre immerse nella stessa ombra
Crescono i bimbi
Inconsapevoli che fuori i fiori invitano
A giorni vasti felici e ventosi
Dovrebbero essere bimbi e sono tristi
Vi fioriscono Vergini per uomini sconosciuti
Bramano la quiete della loro infanzia
Ma non hanno ciò per cui arsero
E si richiudono tremando
E nascondono nel fondo delle stanze
I giorni della loro maternità delusa
Fiacchi gemiti di lunghe notti
Anni gelidi senza lotta e forza
E nel buio vi sono i letti di chi muore
E vanno verso ad essi lentamente
Morendo piano come in catene come mendiche
Se ne vanno.”
Rilke dice: “nella metropoli ci sono solo ospedali, ci sono solo malati, si muore soltanto, l’uomo della metropoli ha perso il senso della morte, l’uomo della metropoli muore senza sapere che cosa è la morte. Senza averla portata in sé. In altre poesie afferma che il frutto della morte rimane dentro l’uomo, secco, verde, non matura, cioè non solo nella metropoli l’uomo è privato dell’esperienza come soggetto, non solo è mitragliato, ma nemmeno può fare, quella che per Rilke è l’esperienza fondamentale dell’uomo, che è l’esperienza della morte, vivere per la morte, essere consapevoli che siamo per la morte. Questi sono tutti temi che poi traghettano tutti in Heiddegger e nell’esistenzialismo, anche se Heiddegger non amava Il Libro d’ore, ma amava moltissimo invece Le Elegie duinesi. Ma vorrei tornare proprio dall’imparare dalle cose. Dice in un’altra poesia Rilke, dobbiamo ri-imparare dalle cose, dobbiamo ri-imparare la forza di gravità, in poche parole dobbiamo ripensare tutto il nostro rapporto con il mondo esterno. Per un artista questo è fondamentale perché un artista deve rapportarsi al reale e trasformarlo. Ed ecco che Rilke dice che è vero che noi dobbiamo imparare dalla forza di gravità. Rilke afferma che il linguaggio che noi usiamo è un linguaggio che crede di dire le cose, crede di nominarle, di possederle, di dire mio, ma in realtà è una menzogna. Per esempio c’è una poesia, a proposito del volere impossessarsi delle cose attraverso il linguaggio:
“Non angosciarti Signore
Essi dicono mio a tutto ciò che è paziente
Sono come il vento che accarezza i rami e dice:
Albero sei mio
Notano appena che tutto quel che toccano brucia
E che senza scottarsi non possono tenerlo in mano neppure per l’orlo estremo
Dicono mio
Come a volte qualcuno parlando con dei contadini
Definisce amico un principe grande e molto lontano
Chiamano miei i loro muri estranei
E non sanno chi è il padrone della loro casa
Chiamano mie e credono di possederle quelle cose che si negano se le avvicinano
Così come un ciarlatano fesso forse chiama suo il sole e il lampo
E dicono la mia vita, la mia donna, il mio cane, il mio bimbo,
e sanno bene che ogni cosa vita, donna, cane, bimbo, sono immagini estranee
contro cui sbattono ciechi e a mani tese.
Solo i grandi che anelano ad avere occhi
Sanno cosa è la certezza
Perché gli altri non vogliono credere che il loro misero vagare
Non abbia nulla da spartire delle cose intorno
E che privati dei loro averi, non riconosciuti dei loro beni,
posseggono una donna, quanto la vita a tutti misteriosa di un fiore.”
Noi dobbiamo quindi riacquistare dalle cose la forza di gravità, ma dobbiamo stare attenti a non farle troppo nostre, a non usare troppo la parola mio, a non avere volontà di potenza, soprattutto al punto sbagliato, con il linguaggio. Ed è questo allora che abbiamo alla fine: non è più il monaco pittore che scrive questo libro, ma è il poeta che cerca di dire mio in un modo diverso da come lo diciamo noi, cerca di usare il linguaggio in modo diverso, non per dominare le cose, per nominarle, ma per andare al di là del puro possesso. Il linguaggio della poesia di Rilke è un linguaggio molto libero, è un linguaggio che usa i concetti, non solo le immagini, le metafore, ma li ribalta, li stravolge, proprio alla ricerca della forza di gravità del linguaggio, che è una forza di gravità tutta particolare. C’è l’ultima poesia, per esempio, che rivela molto bene quale sia la forza di gravità del linguaggio poetico rispetto invece a quel linguaggio che continuamente dice mio:
“Nella notte fonda ti scavo tesoro
Perché l’abbondanza che vedi è miseria
E povero surrogato alla tua bellezza ancora segreta
Ma la via che conduce a te è terribilmente lunga
E poiché nessuno la percorre, si cancella
Tu sei solo tu sei la solitudine
O cuore in cammino per lontane valli
Alzo nel vento le mie mani sporche di sangue a forza di scavare
Che mettano rami come un albero
E ti succhio dallo spazio
Come se là ti fossi sfracellato un tempo con un gesto impaziente
E ora cadessi mondo polverizzato
Da lontane stelle sulla terra dolcemente
Come cade la pioggia a primavera.”
NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 2.3.1995 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.