“Siate perfetti com’è perfetto il vostro Padre celeste” afferma Cristo nel Vangelo secondo Matteo.
Si può dire che questo precetto incorpora in sé tutto il paradosso del cristianesimo. Infatti adempierlo è impensabile, ma rifiutarsi di adempierlo significa praticamente separarsi dal nostro Padre celeste. Questo paradosso non si può risolvere sul piano razionale e teorico: lo si risolve vitalmente con la santità. E quale sia la santità richiesta all’uomo, Cristo la espone nello stesso capitolo quinto del Vangelo di Matteo, che si conclude con l’invito alla perfezione. Essere perfetto significa essere “beato”, “beato” nel senso evangelico. “Beati i poveri nello spirito, perché il loro è il Regno dei cieli”; “Beati quelli che piangono…”, “Beati i miti”, “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia…”, “Beati i misericordiosi…”, “Beati i puri di cuore…”, “Beati gli operatori di pace…”, “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di loro è il Regno dei cieli”.
I santi sono coloro che già qui, sulla terra, hanno deciso di incamminarsi verso questo Regno, osservando i precetti lasciati da Cristo, attraverso le vie delle beatitudini. Quanto più essi percorrevano queste vie, quanto più si approssimava per loro il Regno promesso, tanto più essi se ne sentivano indegni. Più di una volta noi ci incontriamo – parlando della storia della santità russa – in questo nuovo paradosso, che è come lo sviluppo del primo.
E’ sempre letificante parlare dei santi, perché la loro esistenza stessa costituisce ogni volta una nuova dimostrazione della presenza di Dio nella vita degli uomini. Tuttavia nel nostro tempo, quando il peso delle divisioni cristiane diventa sempre più assurdo per la nostra comprensione, sempre più insopportabile per la nostra comprensione, sempre più insopportabile per la nostra coscienza, l’esperienza o, meglio dire, il mistero dei santi, rappresenta la via più genuina, la più breve verso l’unità. L’esito del movimento ecumenico degli ultimi decenni ci convince che l’unità cristiana non si raggiunge solo grazie al lavoro coscienzioso delle commissioni teologiche, o grazie alla diplomazia ecclesiastica, per quanto possa essere utile, ma che si fonda unicamente sulla buona volontà umana. Tutto ciò è effettivamente necessario in una certa tappa iniziale nel raggiungimento dell’unità, una tappa che possiamo paragonare ad una operazione chirurgica. E’ possibile, per così dire, mediante un “intervento chirurgico” rimuovere la volontà di divisione e di separazione, è possibile allontanare la malevolenza reciproca e tutte le escrescenze e i tumori di un cattivo passato; è possibile infine trapiantare in tal modo dei nuovi concetti ecumenici, nuovi riti e usanze, ma ad un certo punto può verificarsi un rigetto improvviso di tutto questo, perché la profonda, nascosta estraneità degli organismi ecclesiastici è in qualche modo rimasta e non consente loro di cicatrizzarsi. Perché questa estraneità venga superata è necessario sconfiggerla dall’interno, è necessario superarla nella santità, non però con una santità isolata, ma tale da arricchire l’un l’altro. Là dove vi sono persone che, lasciando tutto, sono pronte a seguire il Cristo per adempiere i suoi precetti al fine di divenire “perfetti” in senso evangelico, esse – quali che possano essere le loro strade – sempre si comprenderanno e si riconosceranno a vicenda.
Pertanto il primo passo per una simile unione è dato dal reciproco riconoscimento. Avendo trascorso tutta la vita in Russia posso testimoniare che la santità vissuta in occidente, salvo l’eccezione del solo Francesco d’Assisi non è conosciuta nemmeno per sentito dire, neanche negli ambienti dell’ “intellighentia”. Intanto questa santità a tutt’oggi è viva e si manifesta quotidianamente in una stupenda abnegazione, nel servizio sacrificato e insieme gioioso verso il prossimo, anche quando questo prossimo è un malato, un bimbo abbandonato dai genitori dai genitori e incapace di qualsiasi contatto umano razionale. Voglio aggiungere, anche se ciò non si riferisce al nostro tema, che un lavoro invisibile per la riconciliazione delle Chiese non si svolge oggi nei templi, ma in quegli ospedali russi dove lavorano le sorelle di Madre Teresa. Il loro lavoro è silenzioso, perché non predicano; inosservato, perché non curano ma assistono soltanto i malati; ingrato, perché sempre più pesante e sgradevole che non altri e, per di più, spesso non delimitato da scadenze o da orari di lavoro. Ma la loro stupenda donazione apporta una certa luce in questi angoli di amarezza e di sofferenza quali sono i nostri ospedali, e questa luce rimane nel cuore e nel ricordo della gente. E questa luce, che rivela la presenza di Dio nelle azioni umane ci conduce, per delle strade sue proprie e invisibili, verso la riunione dei cristiani.
Tornando al nostro tema, voglio dire che pure in Occidente è possibile conoscere qualcosa dei santi ortodossi o russi soltanto se si ha ricevuto una formazione teologica molto buona, o addirittura specialistica. Proprio in questi santi si nasconde l’anima dell’ortodossia, proprio da loro è possibile riconoscere in che cosa consista il cammino spirituale ortodosso. I giornali ci raccontano delle dichiarazioni dei gerarchi, degli scambi epistolari, dei rapporti buoni o meno buoni tra le chiese, in particolare delle loro posizioni a riguardo di questi o di quei problemi morali e politici, mentre i santi – specialmente gli ortodossi – più spesso non dicono nulla. Essi consentono a Cristo di “raccontarsi” o di “rappresentarsi” tramite loro, con la loro vita, la loro preghiera; con il loro amore o con la propria morte essi riproducono in se stessi la sua immagine.
Questa immagine può essere diversa in Occidente e in Oriente. Ma nel suo centro sta Cristo, unico qui e là. Come si manifesta a noi il Cristo nella santità orientale? Qual è il suo cammino in Russia quattro anni dopo la celebrazione del millennio del Suo battesimo?
La storia della santità russa inizia praticamente con la storia di una famiglia di principi. Prima santa russa è considerata la principessa Olga, vissuta agli inizi del decimo secolo, il cui nipote San Vladimiro ha ricevuto il titolo di “pari agli apostoli”, titolo con cui vengono insigniti tutti coloro che sono stati padri dei loro popoli mediante il battesimo. La tradizione racconta che egli ha inviato dei messi in tutti i paesi al fine di conoscere quale fosse la fede migliore . Dopo averli tutti ascoltati, scelse la fede ortodossa, colpito dal racconto della bellezza della sua liturgia. Al tempo stesso i motivi che l’hanno spinto al battesimo potevano essere più prosaici; tra questi poteva celarsi anche il calcolo politico e l’intenzione di sposare una principessa bizantina. Ma Dio che, secondo il Vangelo, “può far sorgere da queste pietre dei figli di Abramo”, ha trasformato il cuore del principe guerriero, violento e amante dei piaceri, in un cuore genuinamente cristiano. La sua conversione fu infatti ardente e sincera, e subito dopo il battesimo il principe ha abolito la pena di morte (e questo nel decimo secolo!) perché gli sembrava che, stando alla legge evangelica, non gli era più lecito mandare alcuno alla morte. Ma così crebbe il brigantaggio – come racconta l’antica cronaca russa – e gli stessi vescovi bizantini venuti nella Rus’, lo persuasero a ritornare alle pene più dure. Il battesimo della Rus’ (o meglio, della città di Kiev, la capitale di allora) avvenne per volere del principe, ma non ebbe altre manifestazioni di violenza che quella delle statue di legno degli dei pagani gettate nel fiume Dnepr. Dietro al suo principe, il popolo accolse la nuova fede e rispose ad essa con la canonizzazione dei suoi figli.
Il gran principe Vladimir aveva una numerosa discendenza, natagli dalle molte sue donne quand’era ancora pagano. Dopo la sua morte nell’anno 1015 uno dei suoi figli, di nome Svjatopolk, decise di eliminare i propri fratelli quali probabili concorrenti nella lotta per il trono. Si trattava della solita storia dell’uccisione reciproca tra principi, quando il fratello muoveva guerra al fratello o lo uccideva a tradimento per poter impadronirsi del suo possesso e del suo patrimonio. Insolito fu invece il comportamento delle vittime stesse, gli altri figli del principe: Boris e Gleb. Erano giovani entrambi; Gleb poi era quasi adolescente e non aveva pretesa alcuna al trono paterno; e nessuno desiderava la morte. Entrambi tuttavia muoiono, e muoiono volontariamente, perché non sfuggono davanti ai servi del loro assassino e non mostrano alcuna resistenza. Accolgono la morte con rassegnazione, chinandosi alla volontà di Dio e al volere omicida del loro fratello maggiore.
Questa libera accettazione della morte, ad imitazione dello stesso Cristo e sul suo esempio, commosse la coscienza religiosa dell’antica Rus’, così che quasi subito dopo la fine – paragonata al martirio – dei due fratelli, ebbe a sorgere nei loro riguardi la venerazione di tutto il popolo e della Chiesa intera.
Del resto, la loro morte non fu un martirio nel senso stretto del termine. Boris e Gleb non morirono per la fede, difendendola nei confronti di un potere pagano. Precisamente per questo motivo la Chiesa di Bisanzio, dalla quale la Ru’ aveva ricevuto il battesimo e che le aveva iniziato la sua gerarchia, a lungo si oppose alla canonizzazione. Essi morirono non per la fede, ma nel nome della fede, realizzando ed esprimendo questa fede con la propria morte volontaria. “Beati i miti…, beati gli operatori di pace…., beati i perseguitati a causa della giustizia”. Per questo loro gesto i due fratelli ricevettero nella Rus’ il titolo di “coloro che soffrirono la passione” (strastoterpcy), vale a dire di coloro che accettarono la loro fine con rassegnazione e con umile e grata sopportazione delle sofferenze, che fanno assomigliare chi le subisce al Cristo crocifisso. L’antica Rus’ ha “conosciuto” Gesù come colui che liberamente ha accettato la morte e ha pregato per i carnefici, e conoscendolo si è prostrata davanti a Lui nella figura dei due “strastoterpcy”, i principi Boris e Gleb.
Questa immagine di santità si è conservata fino ai nostri giorni, anzi proprio nel nostro secolo essa è diventata predominante, di massa. Nel periodo delle straordinarie persecuzioni contro la Chiesa e la religione nel suo insieme, quali si sono manifestate a seguito della rivoluzione russa, milioni di persone, da quelle sconosciute e anonime a quelle note, allora ai vertici del potere, morirono da “strastoterpcy”, andarono cioè alla morte senza opporvisi, offrendosi completamente alla volontà del Padre celeste. Tra questi il caso più conosciuto rimane quello dell’ultimo zar russo Nicola II, fucilato nel 1918 a Ekaterimburg (all’incirca novecento anni dopo la fine di Boris e Gleb) insieme alla moglie, cinque figli e alcuni domestici. La loro canonizzazione, che per la Chiesa ortodossa è verosimilmente questione di un futuro non lontano, non significa affatto che la Chiesa diventi monarchica o che essa approvi in concreto la politica di Nicola II. Lo zar Nicola, oltre il fatto di essere stato un ottimo marito e padre di famiglia, non rivelò alcuna particolare grandezza nelle sue azioni e nella sua vita. Ma rivelò un’umile grandezza nella morte, e ciò con la coscienza ortodossa si dimostra più importante di tutto il resto.
Così il profeta Isaia:
“Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca” (Is. 53,7).
E questa immagine profetica del servo del Signore nel Nuovo Testamento diventa immagine della Redenzione, figura dello stesso Cristo.
Accanto agli “strastoterpcy”, che sono dei santi tipicamente russi, nella storia della santità si trova anche un’altra categoria di santi, più tradizionale; una categoria che il nostro secolo ha reso probabilmente la più numerosa. Sono i martiri per la fede. Il numero dei martiri: vescovi, sacerdoti, laici, soppressi nel periodo delle più attive persecuzioni nel quarto di secolo tra il 1918 e il 1943, supera non soltanto il numero dei martiri di tutta la precedente storia della Chiesa russa, ma oltrepassa verosimilmente la folla dei confessori torturati e martirizzati nell’antica Roma. Basti riportare solo due dati: se prima della rivoluzione esistevano nell’impero russo oltre 55000 chiese e cappelle solo per quanto riguarda l’ortodossia (e più di mille monasteri), nel1940 – prima dell’inizio della guerra – in tutto il territorio dell’Unione Sovietica ne rimanevano alcune centinaia all’incirca. Possiamo immaginare queste centinaia e centinaia di chiese disseminate in un’estensione di 22 milioni di chilometri quadrati, con una popolazione di circa 200 milioni di persone: suddivisa tra centinaia di vescovi, decine di migliaia di sacerdoti, diaconi, salmisti e centinaia di migliaia, oppure milioni di laici impegnati. Tutto semplicemente scomparve, come scomparvero monasteri e monaci; i monasteri furono chiusi, demoliti, trasformati in magazzini o ridotti semplicemente in ruderi, come pure un numero incalcolabile di chiese, mentre i fedeli venivano fucilati oppure arrestati e confinati nei lager dove la maggior parte perì. Nel migliore dei casi essi riuscirono a nascondersi e a trascorrere tutti questi anni inosservati e facendo la fame, vivendo in un totale anonimato, lontano dai templi chiusi, lontano dai propri parrocchiani.
Durante tutto questo tempo in Russia si svolse uno straordinario lavoro di chiarificazione, chiedendosi dove stava il significato di quella lezione che il Signore aveva impartito in questo secolo alla Chiesa russa permettendo la devastazione di questa terra ortodossa, che sembrava così devota, non lasciando per un certo tempo nemmeno pietra su pietra della sua antica magnificenza esteriore. Si indagherà ancora a lungo a questo proposito; una cosa però è indiscutibilmente chiara: se tanta gente ha dato la vita per al propria fede, e questa fede non è morta, non si è dissipata, non è diventata un pezzo da museo, allora vuol dire che essa porta in sé quella sorgente di acqua viva che non si può né infrangere né spegnere.
Certamente, il colpo non si rivolse soltanto alla Chiesa ortodossa. Furono implacabilmente cacciati i cattolici, perseguitati i battisti, oppressi i musulmani e gli ebrei. Tuttavia la Chiesa russa non poté nascondersi da questo colpo in nessuna parte; tutto il suo gregge ad esclusione di una piccola diaspora disseminata in tutto il mondo, rimaneva sempre in vista e sotto tiro. Ed oggi il suo recente martirio, come pure il martirio delle altre Chiese cristiane, appartiene non soltanto ad essa. Questo patrimonio dell’anima, questa grande eredità dello Spirito è divenuto ricchezza di tutto il mondo e pegno dell’unità cristiana. “Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia”: la Russia ha adempiuto pienamente in questo secolo tale precetto del Signore.
Sicuramente non tutti sono diventati dei martiri. Nella storia della Chiesa russa degli ultimi 75 anni vi sono state non poche defezioni e pure tradimenti. (V’è stato, del resto, un tempo nel quale nemmeno il tradimento ti faceva uscire dal lager e il terrore, senza distinguere, spazzava via gli uni e gli altri). Ma tutto ciò che è indegno dell’uomo viene lavato nella memoria; rimane solo quello che più conta, quel che è più essenziale. E se noi ci poniamo la domanda su ciò che di più essenziale ha apportato il nostro secolo ventesimo alla storia dell’umanità, allora accanto allo sviluppo della tecnica, al progresso della scienza, al raggiungimento del benessere per una certa parte della popolazione del globo, come pure accanto alle due guerre mondiali e alla scoperta dell’arma atomica, noi dovremo ricordare il martirio della Russia, il suo martirio per la fede.
Oltre alla “beatitudine dei perseguitati” toccata in sorte alla Chiesa russa soprattutto in questo secolo, un’altra forma di beatitudine è esistita ed esiste anche oggi, una beatitudine che essa ha sempre cercato: la “beatitudine dei puri di cuore”. Si può dire che questo è il tipo più diffuso della santità russa e di quella ortodossa in generale: il tipo dei “prepodobnye”, cioè di coloro che sono simili a Cristo. “La Chiesa russa è figlia della Chiesa bizantina”, scrive Ivan Kologrivov, storico della santità russa, cosicché ricevendo il battesimo da Bisanzio la Russia ha ereditato anche la sua comprensione del cristianesimo. Questa comprensione era fondata sulla preghiera e l’ascetismo, per cui nella vita l’unico cammino cristiano che prometteva la salvezza era l’accettazione dello stato monastico. L’anacoreta, allontanatosi dal mondo e dai suoi piaceri, doveva servire da modello per ogni fedele cristiano. A Bisanzio, secondo un altro storico, “tutto era orientato a un’organizzazione della società della società umana nella quale l’uomo si sarebbe dovuto occupare solo di invocare e di placare un Dio severo ed esigente.. Il perfetto eremita si trovava alla sommità di quest’albero sul quale si posano gli uccelli del cielo; più sotto stava la comunità monastica, immersa in devota contemplazione… mentre al di fuori di questa società ideale si collocava il mondo, privo di ogni altro mezzo di salvezza che non fosse la preghiera dell’eremita, sostenuta dal coro dei cenobiti”.
Il cristianesimo russo introduce in questo quadro austero un tratto di dolcezza, di cordialità, di misericordia. Al motivo del rinnegamento del mondo, del distacco dalla propria volontà per dedicarsi completamente alla volontà divina, si aggiunge il motivo, tipicamente russo, della compassione, della pietà verso l’intera creazione. Questo atteggiamento si è manifestato, se non sempre nella vita quotidiana, nelle altezze dello spirito raggiunte dal monachesimo russo. La sua storia inizia da Kiev, là dove era avvenuto il battesimo della Rus’, con l’erezione della Kievo-Pecerskaja Lavra (la Lavra delle gratto di Kiev) le cui sorti riassumono in sé le sorti di tutta la Chiesa russa. Nei primi secoli della sua esistenza essa venne alcune volte incendiata o demolita dai tartari – mongoli che irruppero nella Rus’ alla metà del XIII secolo e vi rimasero padroni per quasi due secoli e mezzo; negli ultimi decenni è stata chiusa per due volte e trasformata in museo antireligioso. Ed ogni volta essa venne riparata, ricostruita, fatta nuovamente risorgere.
Fondata da semplici anacoreti, senza appoggio ad alcuno da parte dei potenti di questo mondo, la Lavra delle Grotte di Kiev si sostenne con la forza dello spirito, con l’esercizio eroico delle virtù, “con il digiuno e le lacrime”, come si esprime l’antica cronaca ad opera di alcuni monaci russi. Questo non fu soltanto il primo monastero, ma anche la culla della vita spirituale russa. Il suo influsso si diffuse per tutta l’estensione della Rus’ primitiva. Questo monastero ha inviato nei crudi boschi del Nord come pure nelle sconfinate steppe meridionali i primi missionari, educati nel suo seno. I monaci divennero i primi operai nell’immensa terra vergine della pietà russa. Nella Lavra la nuova fede appena giunta nella Rus’ veniva annunciata non solo con la parola, ma con il proprio esempio.
Tocchiamo qui necessariamente e in modo spiccato le figure di quattro grandi santi, glorificati dalla Chiesa russa come “prepodobnye” (rassomiglianti a Cristo). In generale di “prepodobnye”, vale a dire di eremiti, di asceti oranti, o di altri santi monaci, ve ne furono un grande numero e io ritengo che noi ne conosciamo soltanto una piccola parte. In maggioranza essi rimasero sconosciuti, dimenticati, sperduti per sempre nell’immensità delle foreste russe, poiché l’impegno ascetico di ciascuno di loro iniziava con la ricerca della solitudine, del raccoglimento in Dio, e con la fuga dalla gloria mondana; così che quando questa gloria li raggiungeva ugualmente, ciò avveniva sempre contro la loro volontà, dal momento che essi facevano di tutto per rimanere sconosciuti.
Nella vita del primo “prepodobnyj” russo, san Feodosij Pecerskij (morto nel 1074), che viene ritenuto il fondatore della Lavra della Grotte e il padre del monachesimo russo, ci colpisce soprattutto questa ricerca dell’abiezione, quasi dell’infamia, per assomigliarsi a Cristo. Feodosij proveniva da un’agiata e stimata famiglia della Russia meridionale. Perso prematuramente il padre, egli rimase sotto l’autorità di una madre dispotica. Ben presto sorse in lui il desiderio di servire il Cristo nell’arena monastica, ma la madre non glielo permise. Fugge da casa, ma sua madre lo ritrova, lo batte con le sue mani e lo riporta forzosamente a casa. Feodosij non si oppone, ma poco dopo fugge di nuovo; la cosa si ripeté altre volte, finché la madre dovette arrendersi alla mitezza, alla remissività e alla vocazione del figlio: lo lascia finalmente andare ed essa stessa entra in monastero.
Nella figura e nella vita di san Feodosij incontriamo dei tratti che si riscontrano in seguito nelle vite di tutti i “somiglianti a Cristo”. Anzitutto la mitezza, di cui già parlammo, una mitezza che si accompagna a un carattere forte e inflessibile, e nel contempo una illimitata umiltà, un abbassamento di sé secondo la parola di Cristo: “chi vuol essere il più grande tra di voi, sia il servo di tutti” (Mt. 20,26). Pur essendo l’igumeno (il superiore) della Lavra Feodosij svolge il lavoro più semplice e nascosto. Gli sta a cuore specialmente il servizio di preparazione delle prosfore (il pane per la celebrazione eucaristica), un compito che si affida ai novizi, ma che egli compie perché, secondo le sue parole, serve “la carne di Cristo”. Un altro aspetto è dato dalla ricerca di un vestito dimesso, che lo avvicina alla santità Francesco d’Assisi. Un altro atteggiamento che lo assimila a Francesco è il “cuore compassionevole” verso ogni creatura, una grandissima misericordia non solo per le persone, ma anche per gli animali. Questo amore verso ogni creatura è però concesso al santo solo dopo un intenso lavoro ascetico nell’intimo, dopo notti d’incessante preghiera, dopo che la carne è stata mortificata. San Feodosij infatti non dormì mai in un letto, ma soltanto seduto e per breve tempo; per tutta la vita portò sul suo corpo una catenella di ferro e il cilicio. Tutto ciò, si comprende, rimaneva nascosto agli occhi estranei, per non cadere nella tentazione della lode. Notiamo ancora un altro tratto del santo dell’antica Rus’: l’amore allo scrivere, ai libri, allo studio, ed insieme il coraggio davanti ai potenti di questo mondo, ai quali egli non temette di idre in faccia la verità.
Non v’è nulla di strano che questi tratti si ripetessero dall’uno all’altro santo, per quanto non sempre fosse facile che uno venisse a sapere dell’altro. Ed ecco il “somigliante a Cristo” Sergio di Radonez (1314-1392), del quale è stato festeggiato da poco il sesto centenario della morte dai fedeli della Chiesa russa. Egli pure si allontana in un “romitaggio”, che nel XIV secolo era una foresta inaccessibile ad alcune decine di chilometri da Mosca, per sostenere una lotta di anni con la fame, il gelo, ma soprattutto con le vessazioni del demonio. Inizia la sua vita di eremita insieme con il fratello, già entrato nello stato monastico, ma il fratello se ne va, non riuscendo a sopportare i pericoli e le fatiche di questa scelta, e Sergio rimane solo. Ed ecco che la sua preghiera sconosciuta al mondo, la forza del suo spirito, ma ancor più la grazia concessagli dal Signore, fanno sì che attorno a lui si raccolga un po’ alla volta una “fraternità”, cioè un gruppo di discepoli, venuti in qualche modo a conoscenza della sua scelta ascetica. Sorge così un piccolo convento tra i boschi che diventerà in seguito la grande Lavra della Santissima Trinità e di San Sergio. Questo santo per primo tra i santi russi edifica un tempio dedicandolo alla Santa e Vivificante Trinità; la sua visione teologica dopo alcuni anni si trasmette nella visione artistica di Andrej Rublev.
San Sergio fu beneficiato di molti doni di grazia, così che ancora in vita venne chiamato dai suoi discepoli “taumaturgo di tutta la Russia”. “Una notte – così racconta la sua vita – mentre stava pregando, sentì una voce che lo chiamava: “Sergio!”. Ed improvvisamente vide una chiara luce, il cielo che si illuminava e una moltitudine di meravigliosi uccelli che volavano intorno al monastero. Quella voce gli disse: “Come vedi questi uccelli, così si moltiplicherà il numero dei tuoi discepoli e dietro a te non verranno meno quelli che seguono le tue orme””. San Sergio è il primo tra i santi russi che ha ricevuto in sorte la grazia di numerose visite della Madre di Dio.
Un altro grande santo è il “prepodobnyj” Nil Sorskij (1433-1508), che ha vissuto quasi tutta la vita nella foresta in rigorose austerità. Egli è considerato nella storia della santità russa come uno dei più solidi scrittori di ascetica, erede dell’inesauribile tradizione della teologia oriewntale. E’ stato un maestro di preghiera e del “combattimento spirituale”, come veniva chiamata nella Rus’ la lotta contro i pensieri peccaminosi. Tuttavia la stessa nozione di “combattimento spirituale” appartiene all’italiano Scupoli, che scrisse un libro in proposito, ben presto tradotto anche in russo. Le tradizioni di santità in Occidente come in Oriente si confondono inavvertitamente tra loro perché in entrambe si ritrovano essenzialmente le stesse radici, lo stesso “combattimento” e il comune amore che le unisce.
La virtù preferita di san Nilo fu la povertà, la povertà in senso diretto e traslato, una povertà che è giunta fino all’estremo abbassamento di sé. Egli lasciò come testamento ai suoi confratelli la richiesta di non venire seppellito in terra, ma di venire gettato all’aperto per diventare cibo delle bestie feroci e degli uccelli, perché “esso (il corpo) aveva molto peccato contro il Signore”. Al nome di san Nilo è collegato un dramma interiore che si è verificato nella Chiesa russa all’inizio del XVI secolo e che viene ricordato come il conflitto tra i “non possidenti” e i “giuseppini”. Nilo fu il capo spirituale dei “non possidenti”: egli insisteva sul principio che né i monasteri, né i monaci non dovevano avere delle proprietà, soprattutto immobili, cioè terre e villaggi, per nutrirsi soltanto con il lavoro delle proprie mani. Suo avversario fu l’igumeno di Volokolamsk, Iosif, pur essendo ascritto al numero dei santi, il quale giustificava il possesso dei beni immobili per ragioni di beneficenza ed altre puramente pèragmatiche. La vittoria arrise al punto di vista dei “giuseppini”, e fu questo il primo passo verso quell’accordo tra stato e Chiesa, tra la città di Dio e la città terrena, che un secolo dopo causò quella rivolta contro la religione e contro Dio che sconvolse la Chiesa in quel periodo di tempo.
V’è ancora un santo, che non possiamo non ricordare parlando della storia della santità russa. Si tratta di san Serafino di Sarov (1759-1833), un santo del secolo scorso, nel quale la santità russa raggiunge il massimo dell’espressione e dell’auto comprensione. San Serafino ebbe anch’egli un comportamento tradizionale, quale quello degli altri “prepodobnye” russi. Nella prima giovinezza entrò in monastero per salvarsi; vestito l’abito religioso si ritirò in un bosco dove, stando alla tradizione, trascorse innumerevoli giorni e notti su una pietra in ininterrotta preghiera. Tuttavia dopo molti anni de reclusione e di eremitaggio san Serafino tornò in mezzo alla gente per esserne il pastore, il medico delle loro piaghe spirituali, il maestro chiaroveggente; tutto questo nella tradizione russa viene chiamato con il nome di “strarcestvo” (il compito del padre spirituale). San Serafino fu un essere trasfigurato: irradiava la gioia e salutava chiunque lo avvicinava con queste parole: “Cristo, la mia gioia, è risorto!”. Egli pure ricevette numerose visite della Madre di Dio; nel corso di una di queste visite la Vergine Santissima, rivolgendosi a san Giovanni Evangelista che le stava al fianco, disse indicando Serafino: “Questi è uno della nostra stirpe”. E’ pure di san Serafino la cosiddetta “formula della santità”, da lui presentata come il fine della vita cristiana. Nel suo famoso colloquio con il proprio discepolo, le cui note vennero scoperte solo all’inizio di questo secolo, Serafino domanda in che cosa consista il fine della vita cristiana, e quando il discepolo esita, dà lui stesso la risposta. Il fine della vita cristiana non consiste né nella preghiera, né nella virtù, né nel digiuno, né nelle buone opere in quanto tali. Tutto ciò non è che un mezzo; il fine invece consiste nell’ “ottenimento dello Spirito Santo di Dio”, vale a dire nel fatto che lo stesso Spirito Santo scende in te e vive in te, mentre tu – secondo la parola dell’apostolo – sei diventato il tempio di questo Spirito. Questa affermazione si può considerare come il traguardo di tutto il cammino della santità russa, il frutto del monachesimo russo.
Né si può tralasciare un altro tipo di santità, quella dei vescovi. Di tutti i santi vescovi dirò due parole soltanto di uno tra loro, san Filippo, metropolita di Mosca. A san Filippo toccò di vivere al tempo di Ivan il Terribile (secolo XVI), questo devotissimo assassino, a suo modo uno Stalin religioso, che riteneva il suo potere imperiale come espressione del potere divino. Il Terribile tagliava teste a destra e a sinistra, annientava intere famiglie di boiari, metteva a ferro e fuoco intere città, come Novgorod, ma ciò nonostante egli aveva bisogno dell’approvazione e della benedizione della Chiesa. Il metropolita Filippo, che pure all’inizio fu amico e compagno di gesta del Terribile, gli si oppose. Nella cattedrale del Cremlino, quando lo zar gli si avvicinò per ricevere la benedizione, gli rinfacciò: “O sovrano, noi qui offriamo un sacrificio incruento, mentre dietro l’altare scorre il sangue dei cristiani…”. E in risposta alle minacce dello zar: “ Non posso obbedire al tuo comando, ma solo a quello di Dio… Io mi impegno per la vera devozione, anche se dovessi venire privato del posto e dovessi subire delle crudeltà”. In seguito Filippo venne privato della sua dignità vescovile e dovette soffrire – egli fu strangolato da una guardia dello zar per il suo rifiuto di benedirne la sanguinosa spedizione contro Novgorod – perché per il santo, secondo quanto affermato da uno studioso russo, “la professione della verità era altrettanto doverosa quanto la confessione della fede”. Se questa unione tra fede e verità si fosse mantenuta nella Chiesa russa, allora la Rus’ potrebbe chiamarsi veramente santa.
Un ultimo tipo di santità, che ci occorre l’obbligo di ricordare, è quello dei folli per amore di Cristo. “Beati i poveri in spirito” proclama Cristo, e questa sua misteriosa affermazione resta come una provocazione per la nostra ragione, per il nostro buonsenso, perché fa parte del buonsenso cercare le ricchezze, se non nell’accumulo dei beni materiali, nelle conoscenze, nel buon nome ed infine nello spirito. I folli per Cristo si distaccano da tutto questo, in forma visibile si staccano innanzitutto dalla ragione, dalla considerazione dei contemporanei, talvolta anche dai buoni costumi. I folli per Cristo (Jurodivye), per parlare con il nostro linguaggio, “scioccano” la gente, irridono a tutto ciò che viene considerato (si sta parlando in questo caso dell’antica Rus’) il codice del comportamento normale e ben ordinato. Ma se questa è una forma di vera santità e non una malattia, né una posa, né una istrioneria, allora essa si manifesta con dei doni straordinari, che diventano visibili, avvertibili.
Pensando a Mosca, gli stranieri ricordano di primo acchito la stupenda chiesa di san Basilio sulla Piazza Rossa. Questo tempio però è intitolato al Patrocinio di Maria, mentre la voce di popolo l’ha chiamato di san Basilio, cosicché questa denominazione si è rivelata più forte e convincente che con il suo titolo ecclesiastico. Ma chi è stato questo “beato Basilio”? Un folle per Cristo, vissuto a Mosca al tempo di Ivan il Terribile, che andava in giro per la città nudo d’estate e d’inverno, dormiva sul sagrato delle chiese ed aveva il dono della chiaroveggenza. Non temeva di dire la verità e di rimproverare lo stesso zar, ma la sua santità era talmente evidente che neppure lo zar Terribile osò mai levare la mano contro di lui.
Ma ai nostri giorni tra tutti i folli per Cristo forse la più popolare di tutti è santa Ksenija (1720-1790), che viene considerata uno dei primi santi della città di San Pietroburgo. Ksenija era moglie di un colonnello della guardia imperiale, morto improvvisamente lasciandola vedova a ventisei anni. La morte di lui, senza sacramenti, la turbò talmente che essa decise di… sostituirsi a lui, indossando la sua divisa ed esigendo di venire chiamata con il nome di suo marito, Andrej Petrovic. Venduta la casa e distribuita la sua proprietà, cominciò a vivere in mezzo ai poveri di San Pietroburgo: di giorno era con loro per aiutarli, mentre trascorreva la notte in solitaria preghiera. Essa pure ebbe il dono della chiaroveggenza: tutte le predizioni si avveravano infallibilmente. A differenza degli altri folli per Cristo che non di rado minacciavano sciagure, santa Ksenija apportava sempre fortuna e successo; il solo fatto di incontrarla casualmente per la strada prometteva che la giornata sarebbe stata fortunata. Le mamme quando la vedevano, le chiedevano di benedire i loro bambini. Dopo la sua morte la tomba diventò presto un luogo di pellegrinaggio, perché su di essa ebbero luogo delle guarigioni miracolose. Nella cappella a lei dedicata, situata nel cimitero Smolenskij a San Pietroburgo e rimasta chiusa per tutta l’era sovietica, si potevano vedere delle scritte cancellate e che riapparivano: “Santa Ksenija, aiutami a….”, accompagnate dalle richieste di aiuto. Alcuni anni fa la cappella è stata solennemente riaperta e consacrata dal patriarca Alessio.
La santità russa è inesauribile e originale; ma se noi cerchiamo di approfondirla, allora troviamo in essa alcuni aspetti che la apparentano alla santità occidentale. Come nella vita di santa Ksenija si manifestano alcuni tratti collegati a santa Rita da Cascia, così in san Sergio si trova molto in comune con san Francesco, mentre lo stesso padre Pio, più vicino a noi nel tempo, sembra il continuatore spirituale degli “starcy” russi. Non verrà mai cancellata la reciproca differenza, ma – stando alle parole di uno dei primi Padri della Chiesa – “la diversità abbellisce la Chiesa di Cristo”. Questa Chiesa però deve un giorno tornare alla sua unità, all’unità orante, all’unità eucaristica e, infine, all’unità della comune santità.
NOTA: Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.2.1993 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.