Nessuno, che io sappia, ci ha mai pensato; ma a metterli insieme, versi e prose scritti dal Parini per l’Accademia dei Trasformati, ne verrebbe un libro neppure troppo esiguo, certo notevolissimo. Un libro dove leggere (e meglio se si potesse, con nuovi documenti, stringere più da vicino la cronologia) la storia tra i ventitrè anni di Ripano e i trentaquattro dell’anonimo autore del Mattino. Dal 1753 al 1763: dieci anni o poco più che registrano la nascita di un poeta. Non si tratta di cercare in questa o in quella pagina, cosa peraltro che almeno in parte si è già procurato di fare, toni o temi che anticipino il Parini maggiore; se ne dovrebbe condurre una lettura diversa, non come di una raccolta casuale di testi stravaganti, ma appunto come di un libro: unitario, con una sua struttura. Risulterebbe subito evidente, a colpo d’occhio, che il lavoro del Parini, in quegli anni, si muove secondo due vettori invertiti: gradualità regressiva, fino alla sospensione in tronco, dell’esperienza satirica bernesca, progressiva, invece, dell’esperienza lirica, di ascendenza e intonazione nobilmente classiche. Dal “capitolo” all’ode. In questo diagramma è rappresentato il senso di quella storia, la risposta di una autentica vocazione poetica alle contestazioni che le muoveva lo spirito scientifista della sua società. Si è sempre rilevata, dal Carducci in poi, l’importanza dell’ingresso del Parini nella cerchia dei Trasformati e in casa Serbelloni, ma per indicare l’occasione che gli offrirono quegli ambienti di aprirsi (lui così vincolato ancora dalla sua modesta esistenza a una cultura ritardata: “paesano, paesano, paesano” è il giudizio appunto del Carducci) a una conoscenza più profonda dei suoi tempi, di allargare i propri interessi: dal chiuso mondo arcaico di Ripano Eupilino all’impegno illuministico delle prime odi una poesia nuova sarebbe cresciuta naturalmente, nel dilatarsi degli orizzonti culturali, in un equilibrato contemperamento di vecchio e di nuovo.
Non si è mai riflettuto, però, sul valore di provocazione di quel primo incontro, o sconto piuttosto, sia pure mediato dal moderatismo dei Trasformati, con le idee dei philosophes. Era veramente finita la tradizione classica, come pretendevano i propugnatori della nuova cultura scientifica e tecnica, esauriti i valori che aveva espresso nella sua gloriosa storia secolare? E lo scrivere versi, che senso poteva avere più? Significava davvero, per un giovane, mettersi fuori gioco, sbagliare in partenza le proprie scelte? Se illuminismo è innanzi tutto svalutazione di qualsiasi verità o strumento di indagine non fondati sulla ragione (negazione quindi della poesia, del suo diritto a concorrere non servilmente alla fondazione della repubblica ideale di cui si andavano ponendo entusiasticamente le basi), l’incontro con quelle idee, la loro forza di contestazione radicale, non potevano non imporre la necessità preliminare di un riesame delle decisioni già prese. Era del resto il problema di fondo dibattuto dalla cultura europea fin dalla prima polemica, sull’ultimo scorcio del Seicento, tra Francia e Italia: tesi razionalistiche dei francesi, che la poesia umiliavano al ruolo di amabile divulgatrice dei sommi veri della scienza, e opposizione tenace delle prime generazioni arcadiche, non mature a una formulazione in termini filosofici delle loro ragioni (Vico rimase in tutti i sensi un isolato), ma sorrette da un vivo senso della parola da un’antica educazione retorica. Nata come reazione allo stremato tardo barocco, l’Arcadia era stata troppo frettolosamente a cantare il proprio trionfo; non prevedeva che, oltre il traguardo di quella facile liquidazione di una letteratura morta, le sarebbe toccato, immediatamente, di dover affrontare ben altri problemi, di avere da difendere, insieme alla sua opera di restaurazione della cultura classica, la validità stessa di quella tradizione a cui orgogliosamente si richiamava. Difesa, peraltro, non facile, una volta che era venuta a mancare, a dispetto degli entusiasmi accesi da qualche nome (citiamo, per restare in terra lombarda, la lirica del Maggi e del Lemene), la prova trionfante della grande poesia che quando c’è mette a tacere qualunque discussione. Ma la botte non poteva dare il vino che aveva: non filosofia profonda, è stato detto, anche se dalla discussione prendono avvio la critica e la riflessione estetica, non poesia grande. Anzi, che un’intera società, cambiata la moda, avesse fatto dello scrivere versi un suo rito mondano, un elegante intrattenimento, tornava a riprova della dissacrazione ormai consumata della poesia: nessun poeta, tutti poeti. Non era, o almeno non pareva, l’assegnazione definitiva del torto e della ragione decretata dal tempo? Il lavoro del Parini, dopo Ripano Eupilino, ancora tutto al riparo da quel duro, salutare confronto, è la ricerca di una risposta sul piano poetico al nodo di questi problemi. Non si sente il polso del suo classicismo se non se ne intende lo spirito agonistico. Nel momento in cui i campioni della cultura dei “lumi” sembrano impazienti di sbarazzarsi dell’ingombro di tutto il passato, il Parini dice: la bellezza della poesia, nella sublime serenità delle sue forme, è l’espressione eternatrice dei massimi valori della civiltà. Non nella tradizione classica è spenta la vita ma negli uomini d’oggi che non hanno la forza morale di ricreare quell’ardua bellezza, l’energia d’animo necessaria per colmarla di sé, per riviverla. Poesia come moralità: la risposta, che si traduce in una sfida, matura, vittoriosa, nei dieci anni che precedono il Mattino.
Bisognava naturalmente partire, innanzi tutto, da un’attenta rimeditazione della propria fede classicistica: istituire con la tradizione un rapporto sciolto, non di soggezione ma di dialogo, ispirato da un senso partecipe del presente, non da gusto archeologico o da culto feticistico del passato. Combattere, dunque, l’idea divulgata di una classicità grammaticalizzata, disseccata in canoni e modelli retorici senza nessuna relazione con la vita, passibile solo di essere imitata, vincolante, esosa. Bisognava insomma fare propria la giusta accusa di formalismo che la nuova cultura muoveva alla vecchia, ma deviarla: non la classicità vuoto formalismo, ma formalistico il rapporto intrattenuto con essa. Che era poi un ritorcere le responsabilità dal passato al presente, dagli altri a se stessi, alla miseria morale della società contemporanea. Sono momenti essenziali di questa rimeditazione le polemiche con i maestri: nel ’56 con il Bandiera, quattro anni dopo con il Branda. Polemiche che vanno viste al di sopra delle motivazioni immediate e dei risentimenti personali, come affermazioni pubbliche di indipendenza dal classicismo accademico. Della bellezza non si danno ricette: infondate, perché questioni nella fattispecie di stile, non di vocabolario, le accuse, mosse dal Bandiera al Segnari, di non aver mai letto “i buoni scrittori toscani” o, quanto meno, di non essere mai “entrato nel gusto della nostra lingua”; ridicola poi la presunzione di migliorarlo, trasponendone alcune pagine, a titolo dimostrativo, in una astratta “scrittura” boccacesca. Contro la soperchieria del precettismo retorico cui oppone l’eloquenza della parola giusta al posto giusto, il Parini, pur nell’ossequio alla tradizione, rivendica qui la libertà di ogni vero scrittore, l’indipendenza da qualsiasi ricalco degli esiti della poesia, da ricondurre sempre all’esercizio responsabile di quella libertà. Né diversamente col padre Branda. La lunga, appassionata difesa del dialetto milanese e del suo impiego in sede letteraria, dal Maggi al Tanzi, al Balestrieri eccetera, conclude infatti all’enunciato che non esistono lingue segnate dalla grazia; lingue belle e lingue brutte: in ognuna si possono scrivere “ottime cose, perocché le voci, ond’esse constano, sono per se medesime indifferenti, e capaci di qualunque forma loro si doni”. Sembra, in anticipo, il programma degli scrittori del “Caffè”: cose e non parole. Senonché il principio dell’equivalenza a priori di tutti i mezzi espressivi era proclamato in sede polemica da chi di fatto, nel suo concreto lavoro di poeta, perseguiva scelte determinatissime, e non certo fuori della tradizione classica italiana (nella direzione dialettale) o contro di essa, ma nella sua linea più illustre. Il Parini parla con il Branda, si intende però che il suo discorso è ormai rivolto ad altri, avversari ben più importanti: giovani sui trent’anni, della sua medesima generazione, gli scrittori della cerchia del Verri e amici suoi, che nella Milano ancora tanto municipale dei loro padri si sentivano portatori di una cultura d’avanguardia, anticlassicistica, europea. A costoro, che sono i suoi veri interlocutori, il termine a cui si rapporta, in un impegnatissimo confronto, la sua poesia, il Parini contende il vanto di sentirsi gli alfieri della civiltà, per cui chi è con loro è per il progresso, chi non è con loro sta arroccato su posizioni ritardatarie e provinciali. Non ne contesta, no, la premessa, che reclama anzi non meno per sua; nega che alla premessa consegua, come sola necessaria, la dedizione che essi hanno avuto premura di tirarne, dichiarando, in nome delle idee di Francia, guerra senza quartiere alla grande tradizione classica: non più nostra che dell’intera Europa, patrimonio di tutta l’umanità civile. Certo non si può, in parentesi, non pensare come per il poeta le parole sono le idee e le idee sono le parole, non far conto cioè delle diverse esigenze espressive dell’ideologo e del poeta. E viene da riflettere all’identità di certi dati fondamentali del problema quale si ripropone alla più impegnata cultura milanese del primo Ottocento: si pensi al Manzoni che partito, nel programmare il piano di lavoro del suo romanzo, da convinzioni europeiste analoghe a quelle degli scrittori del “Caffè”, doveva sperimentare a sue spese l’insoddisfacente approssimazione stilistica in cui si sarebbe ritrovato a fatica compiuta, l’impossibilità, insomma, di non rifare, da capo, i conti con la tradizione. Il confronto tra questi due momenti di una stessa cultura (Mattino- Fermo e Lucia, “Caffè” – “Conciliatore”) serve del resto benissimo a rilevare, alla fase Parini-Verri, l’assenza, nell’impostazione del problema, di un fattore che in sessant’anni circa di storia (e quale storia) sarebbe diventato determinante per tutti i futuri tentativi di risoluzione: intendo la componente sociale, l’allargarsi al pubblico, a cui l’opera letteraria era secolarmente destinata, da un esiguo settore di fruitori privilegiati all’angolo giro (idealmente parlando) dell’intera società. t una dimensione che si instaura con la rivoluzione francese e lo spirito democratico del romanticismo; ma se negli aristocratici della intraprendente Accademia dei Pugni posizione intellettuale e posizione di classe dominante anche fisicamente continuano a identificarsi (il loro fervore riformistico dinanzi alla borghesia in ascesa riafferma una funzione di guida), la denuncia della crisi morale di quella classe che il Parini affida alla sua poesia è l’atto di nascita, per così dire, di una libera coscienza critica. Dopo il “borghese” fa il suo ingresso nella storia l'”intellettuale”: sua forza l’indipendenza di giudizio, fondamento della sua autonomia la rettitudine della coscienza (“Me non nato a percotere / Le dure illustri porte / Nudo accorrà, ma libero, / Il regno della morte”, proclamano in un’aria ancora da arcadia musicale i settenari della Vita rustica: ed è la prima delle Odi, del ’56). Intesa in questo suo significato di tesi a contrasto, in un dialogo così alto, con avversari di tale statura, la poesia del Parini stilisticamente non può tendere che al sublime: poesia come esperienza assoluta. Il suo registro non può essere che lirico o epico.
Nel diagramma descritto inizialmente lo sviluppo della linea lirica contrasta, si è detto, quello regressivo della linea bernesca. Dopo La maschera del’59, infatti, non troviamo più un altro “capitolo”, e non perché manchino tra le proposte dei Trasformati temi che sembrano scelti per sollecitarlo: l’impostura, ad esempio, o il fuoco, magari anche la guerra, che il Parini svolge ormai in forme diverse, non così gli altri (Balestrieri insegni). Ma la sezione d’apertura del nostro libro ci presenta di seguito, dal’53 al’55, Lo studio, poi La spilorceria, poi ancora Il teatro, capitoli in terza rima (metro e lingua connessa) come se ne trovano tra le “poesie piacevoli” di Ripano Eupilino: registro minore, conversevole, dialettale. Si pensa al Gozzi e al Baretti, fra i tanti; si pensa all’illusione di realismo che attira a quel genere di accademia, rigogliosissimo ancora per tutto il Settecento. Una satira che non ha il tono dell’indignazione morale, ma è piuttosto caricatura, deformazione comico-espressiva; non impone distacco, ammette anzi scherzosa familiarità, eguaglianza. Ecco: il problema del Parini, dal momento in cui realizza dentro di sé la esatta portata del suo impegno, è di arrivare a scrivere versi satirici al di sopra di quella promiscuità degradante, versi che nell’accento sappiano rendere la superiorità di una severa coscienza morale: fare satira insomma nel registro più alto. (Di capitoli, ne scriverà a dire il vero, ancora un ultimo, ma non oltre il’62: quello, famoso, al canonico Agudio. Non comico, non satirico, così lontano dal divertimento letterario da collocarsi tra i documenti più gelosamente privati: un “triste documento”, come lo definiva il Carducci). La soluzione verrà con il Mattino, e sarà la scoperta dell’ironia. Si sa che la satirà è sempre opposizione, implicita, di due etiche di differente potenziale. Nell’ode La recita de’ versi, di anni più tardi (’83-’84), i due opposti ordini di valori sono confrontati tra loro come entità separate: polo negativo, la barbarie ferina dei “Centauri feroci” e delle Menadi “lorde di mosto il viso”; polo positivo, la serena civiltà della poesia che trionfa dell’oscuro mondo subumano: “Orecchio ama placato La Musa e mente arguta e cor gentile”. L’opposizione è, del resto, una costante pariniana. Per non dire della Caduta dove è sceneggiata in forma di rappresentazione “drammatica”, la troviamo dialetticamente espressa, fin dal’57, nel Dialogo sopra la nobiltà (né importa, ai nostri fini, che il finale ottimistico, con il ravvedimento postumo e postremo del nobile incalzato nell’oltretomba dall’irridente requisitoria del poeta, mostri, non bastasse la lingua dedotta ancora da modelli cinquecenteschi, il limite chiaramente letterario di una prova per altri versi così anticipatrice). Bipolare nel dialogo giovanile e nell’ode, nella satira del Giorno l’opposizione diventa monopolare, ma il negativo non assorbe in sé l’altro (ciò che comporterebbe la rappresentazione di una realtà inferiore giudicata con un rigore morale che la violenta o la deforma dall’interno; il grottesco o anche soltanto il caricaturale; lo stile comico). A imporre il registro sono i valori nei quali il poeta vigorosamente crede, il culto, che professa con animo commosso, della poesia educatrice “al decente, al gentile, al raro, al bello”. Eternità su cui viene commisurata la miseria del presente, che determina la lingua, che determina il tempo narrativo: epico, lentissimo come l’alterna vicenda dei giorni e delle notti sopra gli eventi umani, nel quale si iscrive il tempo sintattico dell’azione (le esperienze della letteratura del Novecento possono bene insegnare a leggere meglio anche i testi del passato), sia che essa ristagni nell’indugio degli ozi e delle occupazioni più frivole, sia che di improvviso sussulti a fatue accelerazioni. E lingua nobile, classica; sottratta all’arbitrio del contingente, fissa al culmine di “quella perfezione”, come il Parini dirà nei Principi generali e particolari delle Belle Lettere, “alla quale, secondo il corso che sogliono fare le lingue tra le nazioni colte, pare che potesse salire”. Neppure più disposta a servirsi della facoltà, che in quelle stesse pagine le si riconosce, di arricchirsi “ragionevolmente” (è questa l’esperienza attuata nella Salubrità dell’aria, dove una porzione del reale estranea quant’altra mai all’aristocrazia della forma poetica viene assunta, con cauti, accortissimi temperamenti, in un predisposto “decoro”: “Né a pena cadde il sole Che vaganti latrine Con spalancate gole Lustran ogni confine…). Depositata nei testi sacri della poesia senza tempo, è lingua “della natura di quelle che chiamansi morte”. La rivendicazione dei valori permanenti della classicità penetra, come si vede, tutti gli aspetti del poema. Genere didascalico, verso sciolto non sono che concessioni fittizie, ironiche, come sottolinea la dedica “Alla Moda”: l’ironia infatti (nella cui inversione si rispecchia il capovolgimento dei valori della società) non presiede soltanto alla “finzione” del Giorno, ne investe, più sottilmente, i mezzi prescelti, invertendone le motivazioni. Se la preferenza settecentesca per lo sciolto è dettata dal gusto di un verso facile, andante, poco più sopra della prosa, l’endecasillabo pariniano, arduo, franto, lavorato faticosamente, nelle sue trasposizioni, sull’esametro latino, è l’esatto contrario di quell’ideale. Né il poema insegna qualcosa che non sia nella bellezza della parola, altri veri se non quelli che da sempre fanno la vita umana degna di essere vissuta: gli eterni veri della poesia. Sembra voglia compiacergli, di fatto al gusto della società letteraria del suo tempo il Parini non concede nulla, assolutamente nulla. La religione delle lettere è caduta in partibus infidelium, vuole essere difesa con intransigenza, come una fede perseguitata.
Solitaria e aristocratica, è questa la posizione stoica di chi sente di dovere testimoniare, con la propria opera, della non interrotta civiltà dei valori. All’idea di poesia, quale espressione di quella civiltà, si accompagna così la coscienza dell’insopprimibile funzione del poeta, del suo ruolo essenziale nello svolgimento della storia. Ne discenderanno gli sviluppi più felici delle odi più tarde: l’ars poetica pariniana, dietro la certezza dei risultati conseguiti, potrà ormai proporsi (da La recita de’ versi all’ultima, A la Musa) nei termini di una vera e propria etica (e viceversa). Religioso custode di un culto portato in salvo in mezzo al saccheggio dei nemici, al poeta toccheranno gli omaggi teneri della bellezza femminile, e, non meno cari, quelli della virtù: l’una e l’altra ispiratrici delle serene immagini in cui, rispecchiandosi, si eternano. Significativa, a questo proposito, La gratitudine, nella linea dell’Innesto del vaiuolo e del Bisogno, della Laurea o della Magistratura, cioè delle odi dove il Parini celebra i rari esemplari di un’umanità in cui si attesta la vigorosa presenza di una positiva energia morale. Ma per quanto iscritta, per certi aspetti, nella tradizione della letteratura encomiastica tanto diffusa nel Settecento, l’ode è meno la celebrazione del cardinal Durini che del poeta; diciamo, elogia il cardinale perché più alto suoni la lode del poeta a cui vanno i tributi di tanta nobiltà. Si ricordi la visita inaspettata che gli fa il cardinale mentre, per vincere gli ardori di Sirio, egli sta “fra l’acque in rustic’urna immerso”, e la sua sollecitudine nel sorreggerlo, “per la negata, ohimè! forza al ginocchio Male ad ascender atto”, intanto che lo aiuta a salire nel “sublime cocchio”, o ancora la sua umiltà di sedersi, scolaro fra i giovani scolari, ad ascoltarne la lezione sull’Edipo re. Dove l’insistenza, nel fissare l’autoritratto, sulla propria miseria fisica (la scena del bagno nella tinozza si illumina con quella del giovin Signore che paventa, nella nudità delle sue abluzioni, di sentirsi mortale) mira a distinguere l’uomo dal poeta, a far sentire ancora più alta e più misteriosa la sua missione. E’ l’immagine intorno a cui ruotano tutte le odi maggiori e che il Parini affida alla generazione del Foscolo.
Testo, rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 28.4.1994 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.