Parlare della cultura giovanile negli anni ’70, nel decennio cioè che si è appena concluso, non è possibile, come ovvio, senza partire dal fenomeno vistoso del ’68. Non ci sottrarremo a questo onere nella prima parte, ma non ci lasceremo neppure condizionare ‘ in toto’ dalla problematica riduttiva del confronto Sessantotto-post Sessantotto. Molti motivi della cultura giovanile, e di quella adulta che sta alle sue spalle infatti, nascono da matrici e si sviluppano su linee che non hanno relazione con la tematica sociopolitica sessantottesca
Comunque partiamo dal confronto, canonico ormai, con il Sessantotto.
Alla generazione del Sessantotto è subentrata una generazione che sembra diversa, ma che lo è in realtà molto meno di quanto sembri.
Ritengo che per quanto riguarda l’ideologia sottostante al movimento sessantottesco, consapevolmente assunta o (più facilmente) inconsapevolmente ricevuta, il giudizio non possa essere molto positivo.
In verità l’ideologia prevalente del ’68 era un’ideologia ambigua, che nascondeva una sostanziale povertà etica, nonostante le apparenze contrarie. L’apparenza era quella di un linguaggio solidaristico, umanistico, di un impegno per il riscatto dei più deboli, dei subalterni, dei senza potere, contro i privilegiati del potere; ma sotto l’apparenza di questo linguaggio si nascondeva in realtà un’ideologia di altro segno. L’ideologia della civiltà industriale, o almeno quella che gli stessi fautori della civiltà industriale credevano dovesse essere la loro ideologia.
Secondo costoro, una cultura adeguata ad una organizzazione industriale avanzata richiedeva un’impostazione sperimentalistica, ingegneristicamente aperta e mobile, spregiudicata, alimentata dal diverso, per cui anche la scuola doveva piegarsi a queste esigenze e, cambiare di conseguenza. Questa cultura appariva già approntata in sede filosofica dallo storicismo, dal neopositivismo e dalla critica della morale e della religione, svolta da quella che è stata chiamata, con una formula ormai notissima, “la scuola del sospetto”.
Tale cultura si ricollegava al moderno processo di storicizzazione dell’uomo, fondato sull’esperienza delle possibilità della prassi per la trasformazione del mondo ai fini della sua umanizzazione. Questo processo ha coinvolto nel suo disegno di mutamento, anche quella parte del mondo che è l’uomo stesso, divenuto progettatore della propria natura, per cui la libertà vinceva sulla naturalità. Ciò che nel mondo sembrava legato ad una natura immutabile, ad una “sostanza formata”, ciò che nel mondo sembrava destinato ad occupare un posto fisso e predeterminato, in un ordine cosmico gerarchico e finalistico, appariva invece sempre più modificabile in virtù di scienza e tecnica.
Alla “sostanza formata” subentrava la materia senza forma propria di quello che viene chiamato il “materialismo scientifico”, che esprime proprio questa interpretazione che toglie finalità, gerarchia oggettiva, forma (in senso aristotelico) al mondo.
Si deve aggiungere l’integrazione apportata dalla riflessione psicologica sullo svolgersi di quel processo; il richiamo a Freud è qui d’obbligo.
L’uomo contemporaneo si è liberato o, dovrebbe liberarsi dalla concezione teologica tradizionale per la quale Dio è il giudice, o il “policeman”, che controlla incessantemente l’umanità, penetrando fino nei pensieri più personali, a partire dalla sua stessa infanzia; più Dio viene così sentito, e più diventa impossibile qualsiasi processo di emancipazione.
Un Padre in cielo presuppone un bambino adulto, che non potrebbe divenire maturo nel senso della psicologia moderna, e cioè capace di portare il suo prossimo ad essere eguale, senza paura o complessi di superiorità o di inferiorità. L’idea di Dio, comportando quella della sottomissione della creatura al Creatore, comporterebbe infantilismo. Per recuperare libertà e gioia di vivere, secondo questa concezione, l’uomo deve dunque rifiutare le vie di Dio (e l’analisi terapeutica è la via per liberarsi di scrupoli e rimorsi).
Sul piano teologico, la conseguenza di questo discorso è quella che l’uomo viene portato a considerarsi vieppiù creatore, senza bisogno di una grazia che venga dall’esterno.
Inutile dire che condizione di possibilità di queste interpretazioni riduttive e deformanti di Dio era la caduta della riflessione metafisica, caduta che un empirismo e un sensismo sempre più decisi, avevano potentemente provocato in tanta parte del mondo filosofico.
Era la filosofia del divenire, che subentrava alla filosofia dell’essere, trovando nello svolgimento sociale moderno un potente alleato.
Portata a tutte le sue conseguenze dopo il ’68, questa cultura approdava sul piano etico alla liberazione del desiderio, alla posizione cioè del desiderio come criterio del desiderio.
Il desiderio diventava criterio ultimo di se stesso.
In realtà, deve essere osservato che la cultura imperniata sulla libertà creatrice, sulla spontaneità, sulla funzione positiva del libero dispiegarsi dell’immediato, degli impulsi, dei desideri, veniva proposta come forma etica di una società come quella attuale, ad alta organizzazione tecnologica, con forti componenti di pianificazione dei gusti e di standardizzazione dei componenti. Una società cioè che non sembra essere la più rispondente alle indicazioni di quella cultura.
L’ideologia della novità, della libera progettazione, della moltiplicazione delle iniziative spontanee, era in realtà più confacente alla situazione sociale paleocapitalistica, che realizzava meglio una struttura liberistica, piuttosto che a quella neocapitalistica, che comporta una potente organizzazione, e quindi semmai l’opposto di quell’atteggiamento che si cercava di indurre attraverso una ideologia che rendesse funzionale la cultura all’organizzazione sociale.
La nuova struttura non è più quella così dinamica, almeno per gli aspetti di conflittualità o di rivalità economica e sociale, che si voleva. L’approvazione e l’adesione alla filosofia del desiderio date dalla borghesia italiana degli anni ’60, che si diceva illuminata, o si considerava tale, era in arretrato di qualche decennio.
Ma ci si sottraeva al dovere di riconoscerlo, trasferendo sui settori non direttamente economici la filosofia della libertà dell’impulso, in quanto si riteneva che solo una impostazione aperta, flessibile, sperimentale dell’etica sociale, familiare e soprattutto sessuale, fosse compatibile con l’organizzazione socioeconomica propria dell’industrialismo avanzato.
Scendendo a questioni più concrete, particolari, della vita di tutti i giorni: l’inserzione della donna nel lavoro e nell’industria, gli spostamenti dei coniugi o di uno solo di essi dal luogo di residenza a quello di lavoro, sembravano e sembrano rendere improponibili e indefinibili oggi modelli familiari e sessuali propri del passato.
Se i nostri desideri sono molteplici, se i singoli soggetti li soddisfano in maniere disparate, se alcuni prendono in nome della libertà del desiderio, del diritto alla diversità radicale, e del distacco da ogni regola tradizionale, posizioni antisistema, questo non sembrava preoccupare, perché si vedeva nella dinamicità propria della diversità la molla prima dello sviluppo, la spinta alla innovazione incessante.
L’analisi delle esigenze della società industriale avanzata portò all’alleanza tra le filosofie e le estrapolazioni delle scienze umane sostenitrici dell’immediatezza dell’impulso (o “libertarie”), e i grandi borghesi, e concorse così a produrre in Italia il clima del ’68.
Bisognerebbe consultare le annate dei grandi quotidiani del ’64, ’65, ’66, ’67 e degli anni caldi, per trovare come la cultura che veniva proposta, la visione politica che emergeva (conservatrice per molti aspetti) era, per quanto riguarda le dimensioni etico-familiari, molto più disposta “a capire” tutto ciò che rompeva l’ordine tradizionale.
L’establishment pensava che il vecchio mondo cattolico, il vecchio mondo tradizionale, fosse superato e contrastasse con le esigenze di una società industriale avanzata.
La filosofia imperante era quella della mobilità, dell’intelligenza rapida e funzionale, della rinuncia ai valori della stabilità e della fedeltà.
In quegli anni “fedeltà” era considerato un motivo reazionario, adatto a filosofi che ce l’avevano con l’industrialismo, polemici con la borghesia e il capitalismo, in nome del vecchio ordine. Parlare di valori come fedeltà, stabilità, in quella società era un gesto da reazionari.
Tale filosofia della mobilità ha poi trovato un fattore di rafforzamento nell’accentuarsi del fenomeno della urbanizzazione crescente, connesso a quello dell’industrializzazione.
Un carattere tipico della condizione del cittadino nella civiltà moderna è dato dall’eccesso degli stimoli, dal rapido ed ininterrotto mutare di impressioni cui egli viene sottoposto.
La metropoli esige dall’uomo una misura di consapevolezza maggiore di quanto non esiga la vita rurale.
Nella condizione rurale il ritmo della vita e delle immagini sensorie e mentali fluisce più lentamente, invariato, senza scosse; la vita riposa su rapporti profondamente sentiti ed emotivi; questi ultimi sono radicati negli strati più inconsci della psiche, e si sviluppano più facilmente con il ritmo costante di abitudini ininterrotte. L’intelletto invece ha la sua sede negli strati superiori, consci e trasparenti dell’anima, ed è la più adattabile delle nostre forze interiori.
Il tipo umano metropolitano, che è il tipo che tende a diventare sempre più prevalente, reagisce con il cervello invece che con il cuore.
La vita metropolitana è dunque la base dell’uomo metropolitano, con la sua acuita lucidità e con il predominio dell’intelligenza.
La dilatazione dell’intelligenza mobile, ma di superficie, a discapito dei valori umani di profondità, non ha subito nell’ultimo decennio un rallentamento, ma al contrario ha conosciuto una notevole accentuazione.
Questo fatto ha contribuito a rafforzare negli ultimi anni proprio gli orientamenti che abbiamo chiamato “mobilistico-libertari”, la superficialità orizzontalistica, già emersi nel ’68.
Per fermarsi ancora un attimo sul ’68, va detto che i giovani di quel momento storico si immergevano, spesso senza saperlo e in perfetta buona fede, in un fiume che rispondeva ad interessi contrastanti con quelli che essi a parole dichiaravano di difendere.
La socializzazione, l’impegno per gli altri, erano difesi in forme apparentemente solidaristiche, ma in realtà individualistiche.
Ecco le assemblee in cui ognuno finiva o per parlare inascoltato dagli altri nelle fiumane discorsive, o per non parlare e perciò subire.
Ecco le manifestazioni nelle quali tutti si buttano con passione ed esaltazione a fare la stessa cosa, stando a fianco ma senza guardarsi, nel senso sartriano dello sguardo, che sta a significare un rapporto di impegno con l’altro.
Ecco il rifiuto di ogni istituzione che favorisca una relazione interpersonale disciplinata da regole, e perciò almeno in parte stabile, per tutelare proprio i più deboli, i più timidi e così via.
I giovani portavano in strada quello stare a fianco uno dell’altro senza vera relazione interpersonale, che nel chiuso delle loro case vivevano quando in famiglia viene guardata la televisione, in un heideggeriano “stare insieme”, in un noi soggetto, che non toglie l’estraneazione reciproca, perché solo un oggetto comune (la tv) unifica, e non l’attenzione all’altro come soggetto.
Non stupisce che l’esaltazione socializzante, così superficiale, oggi si sia in buona parte persa. Non si tratta a mio parere, in realtà, di riflusso nel privato, ma semplicemente del venire a coerenza di quanto già operava veramente dieci o dodici anni fa. Si dirà che questa è una presentazione unilaterale, che non tutto lo sforzo .socializzante sessantottesco fu in superficie, e si citerà, “exempli causa”, il forte diffondersi dell’ideologia marxista in quegli anni, un’ideologia che certo non è individualistica.
Ora, il fatto di tale diffusione è indubbio, ma è sulla profondità della diffusione, soprattutto sul modo, sul carattere intrinseco, sul significato di essa che bisogna fare delle distinzioni.
E’ vero, il marxismo sembrò, alla fine degli anni ’60 e nei primi anni ’70, raccogliere esso ed esso solo i frutti dello scrollamento dell’albero che i giovani sessantotteschi stavano compiendo; ma quale marxismo?
In realtà, se guardiamo bene, del marxismo, che è un fenomeno molto complesso, veniva colto almeno inizialmente soprattutto un motivo, quello storicistico e prassistico.
Un punto tenuto ben presente era che la morale, la religione, il diritto, non fossero realtà eterne, ma ben datate storicamente, e destinate a scomparire con la società socialista; l’uomo è realtà pratica e sensibile che si attua pienamente nel mondo attraverso il lavoro.
Il valore per eccellenza, per il marxismo, sta nel lavoro creativo integrale, il che vuol dire non diviso e non alienato, reso possibile a tutti, non venduto come merce. Questo lavoro, la prassi sociale, non ha altro criterio sopra di sé, non ha norme trascendenti perché non c’è un “dover essere”, una legge, un valore trascendente, che stia al di sopra, e la verità è solo in funzione della prassi.
Da queste premesse scaturiva, se si voleva procedere con coerenza, che i rapporti tra i soggetti non potevano avere altro criterio che quello indicato dal valore “lavoro non alienato e non parcellizzato per tutti gli uomini”.
Fuori di questa linea, fuori di questo che era il criterio normante di ogni altra valutazione, stavano l’immediatezza del desiderio, la passione immediata, a dettare la regola della condotta.
Ora, le giovani leve della sinistra marxista degli anni ’60 sviluppavano e celebravano proprio questo esito storicistico o prassistico-libertario del marxismo, e lo facevano con vigore giovanile, senza le resistenze che l’etica professionale, che la morale tradizionale ancora mostrava di essere in grado di suscitare in Marx e Engels.
Il porre in vista soprattutto l’aspetto libertario, prassista, trasformatore, anche nel marxismo, portò i borghesi a non cogliere bene le differenze ed i pericoli che questo orientamento covava in sé e che manifestò, quando dopo il ’68 venne riportato in primo piano anche l’altro punto cardine del discorso marxiano, quello per il quale era la proprietà privata dei mezzi di produzione la causa dell’oppressione sociale ed anche della repressione in etica.
Quando la divaricazione avvenne, era ormai tardi per i borghesi per reagire efficacemente.
Passando ora al periodo più recente, si può osservare come la cultura giovanile degli anni ’70 ci faccia assistere da un lato all’accentuarsi proprio di quei motivi libertari ed edonistici che si erano già manifestati nell’epoca sessantottesca, e dall’altro all’esplicitarsi, al venire a chiarezza in molte coscienze, dei condizionamenti sociali e della funzionalità al sistema delle ideologie in precedenza tanto velocemente accolte e celebrate.
Questo ha portato in molti giovani grosse delusioni e tanta confusione. Per quanto riguarda l’ideologia che possiamo dire capitalistico-libertaria e che abbiamo illustrato prima, la difficoltà maggiore è stata già intravista: l’organizzazione tecnologica pianificata lascia spazi di libertà, di progettazione ai dirigenti, non certo alla base.
Ora, questo entra in conflitto con l’ideologia della libertà del desiderio e della diversificazione imprevedibile, aperta a tutti.
Le promesse della società industriale urtano inoltre contro un altro fatto: l’industrializzazione porta in sé, come suo carattere essenziale, il fatto che, nelle leggi, nella tecnica, nell’arte, nella scienza, nel linguaggio, negli oggetti che ci circondano, viene, per così dire incorporata una parte dello spirito.
Ora, l’individuo non riesce a seguire questa crescita e rimane sempre più indietro. Intendo dire: una cultura ricchissima si è incorporata negli oggetti oltre che nelle istituzioni. Confrontando questo fatto con lo sviluppo che il singolo individuo è riuscito a realizzare nel medesimo tempo, noi constatiamo un dislivello enorme.
Alla radice di questo dislivello sta essenzialmente il fatto della accentuazione della divisione del lavoro, la quale richiede un impegno in direzioni sempre più unilaterali a scapito dello sviluppo compiuto e ricco della personalità. Lo sviluppo accentuato dello “spirito oggettivo”, non viene più dominato da una personalità ormai divisa, ridotta, ridimensionata.
Nei recenti rifiuti del lavoro, nelle polemiche cosiddette “ecologiste”, talora opera anche, sia pure soverchiata da altre motivazioni più scoperte, la sensazione di questa contraddizione tra l’umanizzazione oggettivata del mondo e la sua sottrazione alla comprensione del soggetto: il mondo è più umano, così diciamo continuamente, è sempre più elaborato, ma il singolo uomo non lo domina conoscitivamente e praticamente.
Il mondo umano diventa una realtà carica di intelligenza che dipende da noi come insieme di tutti gli uomini, eppure non dipende da me come singolo, e mi sfugge conoscitivamente.
Paradossalmente, si produce una impossibilità di adire alla conoscenza di questo mondo, il quale finisce per incombere come un oggetto inconoscibile. Più il mondo si umanizza, e più al singolo appare inconoscibile.
Per quanto riguarda il marxismo libertario, il discorso è diverso.
Al di sotto della convinzione per la quale una volta tolta la proprietà privata dei mezzi di produzione i rapporti sociali sarebbero naturalmente, spontaneamente mutati in un senso che sarebbe stato naturalmente e spontaneamente solidaristico, sicché ad esempio sarebbero sorte nuove forme non autoritarie, non egoistiche di famiglia, stava un’altra convinzione più generale, la quale accomunava questa prospettiva, per un certo aspetto non secondario, proprio alla prospettiva liberistica, anch’essa spontaneistica e al fondo meccanicistica.
Per il liberista si trattava di non ostacolare il meccanismo naturale degli impulsi, di non alterarlo con precetti, limiti, norme, fondate su pretesi modelli ideali esprimenti una natura umana ideale, contrapposta a quella reale che spontaneamente opera e si esplica.
L’uomo, si pensava, non è cattivo per natura (Rousseau). Per il marxista c’era però un enorme accidente storico: la proprietà privata, che toglieva la possibilità del libero sviluppo di tutti, ma tolto tale limite anche per il marxista bisognava, una volta demistificata la morale, ogni morale, restituire l’uomo alla spontaneità. Non ci sono fini di diritto inscritti nell’uomo, tutto ciò che si sa dell’uomo è ciò che la scienza storico-empirica, nata in connessione con lo sviluppo tecnico industriale, e quindi scienza astratto-egualitario-quantitativistica ci può far sapere: sequenza di meccanismi, rapporti di mezzi a fini di fatto, non certo a fini di diritto.
Questo comune atteggiamento spontaneistico va ben tenuto presente per capire il fatto peculiare della contemporanea, eguale reazione di rigetto o di crisi che si è puntualmente verificata presso molti giovani, rispetto ad entrambi i grandi modelli ideologici contemporanei.
E’ bastato per il giovane marxista libertario uscire dall’iniziale entusiasmo ideologico per portarsi a riflettere. Marx ed Engels stessi, che avevano annunciato il sorgere già nell’età capitalistica, ma tra i proletari, di famiglie non più egoistiche, le “famiglie proletarie” (così venivano chiamate), avevano dovuto constatare che il loro annuncio si era rivelato illusorio, queste famiglie proletarie non si formavano.
Nel nostro secolo, l’abolizione della proprietà privata nei Paesi dell’Est non ha rivelato per ciò stesso un nuovo uomo.
E i giovani non sanno accettare le pazienti, sofisticate rappezzature approntate contro questa delusione dai pontefici della dottrina.
La delusione ha spinto molti giovani al disinteresse per la politica ed all’abbandono del marxismo.
Ma questo non è stato un fenomeno universale. Per alcuni, giovani e no, è stato l’organicismo, congiunto con un certo determinismo sociale, ad offrire l’ancora di salvezza di fronte ai fallimenti del “socialismo reale”, consentendo la fedeltà al marxismo e la sopportazione delle delusioni. Ci si è cioè rifugiati in quello che è di moda oggi chiamare “totalismo”, per cui si è disprezzata come borghese, riduttiva, atomistica, parcellizzante, dividente, astratta, ogni analisi politica che non sapesse considerare i fenomeni sociali come un “tutto” di relazioni, come un organismo in cui o tutto muta insieme o nulla realmente muta. Questo vuol dire totalismo, questo vuol dire organicismo.
La maggior parte degli uomini, si è allora ricordato, non può essere soddisfatta della società fondata sulla logica dell’egoismo. Considerando il bene sociale e non quello di singoli, pochi individui, si deve dire che il bene può esserci solo nella società senza classi, perché la società classistica è espressione della rivalità tra gli uomini.
Al bene, all’uomo naturalmente buono si arriverà avendo tolto le classi. Poiché nella società classistica non vige ancora la logica del bene, che è tutto futuro in questa prospettiva, la logica dell’azione in una società politica, cioè nell’attuale società, non può essere quella etica, ma quella politica della forza.
L’organicismo di origine hegeliana, coniugato con un meno speculativo ma più comprensibile determinismo sociologico (detto banalmente: l’uomo si risolve nelle relazioni sociali), portava a questo risultato: inutile correggere in qualche punto se negli altri punti no si corregge, la logica del vecchio in questo caso rivince sempre di nuovo: il cambiamento deve essere totale o non è neppure cambiamento.
E risuonano qui altamente significative le parole di Bertold Brecht in “Santa Giovanna dei macelli”: “… e anche quelli che vi dicono di potersi innalzare nello spirito e rimangono impiantati nel fango, anche a quelli bisogna sbattere il capo sulle pietre perché solo la violenza può servire dove regna la violenza”.
La logica di una società divisa è soltanto quella dell’opposizione e quindi della violenza.
La logica del tutto o nulla, in questa prospettiva, aiuterebbe a capire i fallimenti storici dei socialismi reali e dei partiti comunisti in Occidente, con il fatto che essi non sono abbastanza radicali e globalizzanti. Sono il frutto di compromessi, non soltanto in Occidente dove non hanno ancora il potere, ma anche là dove lo hanno formalmente raggiunto.
La conseguenza di questo atteggiamento è l’esaltazione della forza, della violenza, della rivoluzione, come del solo mezzo che può consentire un ribaltamento deciso, non graduale della società.
Anche questo elemento dovrebbe essere tenuto in conto quando si affronta il problema del terrorismo, tanto spesso giovanile, nel nostro e negli altri paesi.
Il terrorismo riguarda però pochi giovani, anche se coinvolge con la sua provocazione tutti. Ritornando alle posizioni che concernono la maggior parte dei giovani, bisogna riportarsi ancora alla tematica relativa all’individualismo libertario edonistico.
Credo che almeno una osservazione di fondo debba essere ancora fatta, e da essa potremo tornare tra l’altro ancora alle matrici culturali della violenza. L’osservazione è questa: è sotto gli occhi di tutti, lo diciamo continuamente, lo lamentiamo, che “molti giovani oggi si adagiano nell’edonismo”: il riflusso nel privato viene interpretato così, non interessa più la politica, l’importante è la vita nell’immediato.
Indagini sociologiche recenti ci dicono come sia sempre più frequente il desiderio dei giovani di trovare lavori poco impegnativi (o di non lavorare), che lascino due o tre mesi per viaggiare, per spostarsi, lavori non competitivi, possibilmente ‘part-time’, sottratti appunto alla logica della carriera.
Nell’edonismo, si diceva, molti giovani si adagiano, ma è anche vero che nelle nostre società permissive l’esperienza personale della vita secondo la logica del desiderio preso come criterio di se stesso ha portato molti altri ad un grande stato di confusione e di incertezza. Perché?
Qui dobbiamo fare una riflessione critica su quanto abbiamo descritto ed analizzato: la liberazione dalla ‘repressione’ sociale, familiare, sessuale, da una parte viene presentata come la condizione per un positivo, costruttivo esercizio della libertà solidale, una libertà da parte di tutti, per tutti. L’eguale libertà di tutti è descritta come ‘il’ valore, e come valore cui spontaneamente si approderebbe una volta tolte le limitazioni tradizionali.
Questo da un lato: ma se, d’altro canto, il desiderio nel singolo deve esplicarsi secondo la sua interna logica, allora si deve riconoscere che questa logica può di buon diritto portare il singolo a farsi assoluto, secondando quello che è il carattere del desiderio, di essere illimitato, mai soddisfatto, sempre disposto a crescere su se stesso, a dividersi in ogni direzione.
I rapporti interpersonali, che sono visti come rapporti tra libertà, tra desideranti che hanno come guida solo la libertà, diventano rapporti tra assoluti, il che significa che si hanno, in questa ipotesi, rapporti conflittuali. Una specie di teomachia, una lotta tra libertà illimitate, quindi per definizione ‘incompossibili’, che non possono stare insieme.
L’altro soggetto, inoltre, proprio perché libertà, è per definizione imprevedibile (ciò che è necessario è prevedibile, ciò che è libero non è prevedibile), e quindi rimane come un permanente rischio per me e per il mio futuro.
Se io ritengo che non ci sia un modello ideale, una natura umana ideale, una natura di diritto dell’uomo, se penso che la libera realizzazione dei desideri sia tutto, io non posso che approdare a queste conclusioni, e allora perché dovrei preoccuparmi di salvaguardare e favorire l’altrui libertà, ed in ogni caso secondo quali criteri , entro quali limiti?
Come stupirsi allora che i figli delle ideologie dell’immediato, tanto più se socialmente collocati in condizioni di marginalità (disoccupati, sottoccupati e così via) cadano nella confusione e nell’incertezza? Data la conflittualità dei valori, e data la conflittualità insuperabile dei soggetti, se sono visti solo come centri di libertà, come assoluti perché liberi, si avranno disorientamento esistenziale, confusione, disimpegno, fino all’entropia, alla tendenza allo spegnimento.
L’anno scorso, scritto timidamente a penna sul lato di un manifesto affisso a Milano in Corso di Porta Ticinese /in una zona della droga) ho letto questa invocazione: “Cara mamma, ti scrivo da Piazza Vetra (allora la capitale milanese della droga), dove mi trovo detenuto per desideri sconnessi”. I desideri sconnessi, aveva capito quel giovane, i desideri “liberati” erano diventati un carcere, nel quale questo giovane si sentiva detenuto, e allora si capiscono i diversi tentativi di fuga da questa situazione di abbandono o di crisi.
Se il diverso, se il molteplice, se il mutare, se il divenire, riconducendoci a quanto detto all’inizio dopo la prima ebbrezza spaventano, perché non si sa come unificarli secondo criteri valutativi sicuri forniti dalla tradizione o dalla ragione, si può tentare un disperato aggrapparsi all’Essere (con la E maiuscola) contrapposto al divenire, un aggrapparsi all’uno contrapposto al molteplice, tentando le strade delle religioni monistiche dell’Oriente (in Italia meno, ma in altri Paesi questo fenomeno è diffuso).
Qualcuno cerca di sottrarsi alla dispersione del molteplice ricorrendo all’Uno, all’essere immanente, alle religioni orientali, ed è facile prendere questo fenomeno ancora una volta come particolarizzazione snobistica.
C’è ripresa del religioso? Che ci sia un risveglio religioso in molte coscienze giovanili credo che sia un fatto indubbio; ma sulla misura del fenomeno sociologi, religiosi, psicologi sociali discutono, ed è un’impresa disperata voler quantificare queste realtà.
Sul carattere di tale risveglio e sempre con questa limitazione di non voler appellarsi al quantitativo, occorre comunque indagare. Molte forme di questo risveglio rivelano una forma di reazione a quello che potremmo dire il prometeismo moderno, cioè la speranza che l’uomo “faber”, l’uomo creatore, trasformatore, possa essere padrone del proprio destino attraverso l’invenzione creatrice la scienza, la tecnica, eccetera.
Non mi sembra che queste forme spesso vadano molto oltre, cioè che in realtà operino un vero recupero della trascendenza.
Il prometeismo dell’uomo faber è in crisi, credo che questo sia un dato abbastanza facile da riconoscere; il prometeismo sconta infatti gli effetti di insicurezza propri di quella destabilizzazione, di quel mutare sul piano dei costumi, degli ordinamenti e così via, che sta al suo fondamento. Sconta gli effetti del macchinismo, del prassismo, che tolgono la quiete ed il silenzio, anche in senso letterale.
Il prometeismo totale, dell’uomo tutto nuovo (quello marxistico di cui dicevo prima) urta poi contro un grosso ostacolo: se si rifiuta l’impegno morale che il cambiamento, nei termini che abbiamo detto, e si punta, per il trapasso nel “tutto nuovo”, sulla violenza, sulla forza, sulla coercizione, si finisce là dove Theilhard de Chardin aveva ben visto: “l’unificazione per coercizione non fa apparire che una pseudo unità di superficie, essa può montare un meccanismo, ma non opera alcuna sintesi di fondo e pertanto non genera alcun accrescimento di coscienza. Essa materializza infatti invece di spiritualizzare”.
Attraverso il fare, e sia pure un fare guidato da un ideale, organico, programmato, totalizzante, non sembra raggiungibile il riscatto. A questo punto, se non si intravvede una via per uscire dall’immanenza, e rimanendo ancora affascinati dallo spontaneo, dalla naturalità affidata a se stessa, nasce una spinta a cercare la salvezza attraverso le vie della rinuncia, del ritiro dall’azione, attraverso la contemplazione individuale, attraverso quella socialità minimale che la corporeità umana pur possiede ed assicura, senza chiedere programmazioni di lavoro.
Visto che l’uomo che progetta, pratico dominatore delle cose fallisce, si è preferito puntare su quanto nell’uomo vi è di spontaneo, di non programmatico, di non intenzionale, comunque di non vincolante sul lungo periodo.
Anche il nostro corpo esprime un bisogno elementare, incoativo, eppur reale di rapportarsi, di comunicare, e non senza ragione; esso attraverso il gesto è transitività, è comunicazione. C’è anche chi non riuscendo a vedere un vero trascendente, un vero ed autentico ulteriore, restando pur sempre nella dimensione delle sole realtà terrestri, punta su questo aspetto della corporeità per proporre un uomo che rinunci sì alla potente molla verso lo sviluppo (il cosiddetto progresso) rappresentata dalla forza egoistica, anch’essa presente nella corporeità (la corporeità ha una sua dialettica, una sua ambivalenza tra questo spontaneo comunicare e socializzare e questa spinta egoistica di contrapposizione), per realizzare in compenso la pace, la familiarità fuori dell’apprensione.
Meno illusoriamente forse, la crisi dell’antropologia contemporanea porta anche in un’altra direzione, dalla quale sembra avvenga il trapasso al religioso.
Questa direzione è quella del rifiuto dell’accumulo delle conoscenze: più noi conosciamo e meno siamo felici.
Siamo stati educati a pensare che “scire est potentia”, viceversa viene detto che più noi conosciamo e meno siamo felici, perché sentiamo, se più conosciamo, un crescente bisogno di più cose. “Non allarghiamo il catalogo del mondo!”, si dice allora da parte di alcuni.
E’ la direzione della rinuncia al progettare affannoso, in favore di una concentrazione attraverso un restringimento del campo della coscienza, quale, per fare un esempio importante e celebre, è proposto nel training autogeno o nella meditazione trascendentale. Qui si sfrutta l’intima connessione del fisico e dello psichico così approfondita della cultura contemporanea, e si cerca di arrivare alla calma ed alla serenità ella cosiddetta “meditazione dissecante”, al silenzio per la via della contemplazione.
Quindi, non più semplice appello alla naturalezza, allo spontaneo dell’uomo, come nel primo caso, ma un preciso impegno per restituire all’uomo l’autocontrollo, la serenità, la pace.
Tutto questo però non può far dimenticare (e lo sanno gli stessi teorici di questa prospettiva) che si tratta di una pace provvisoria e precaria, perché i dati reali della malattia e della morte pur sempre incombono.
Gli stessi teorici del training autogeno finiscono per dire che tra gli esercizi superiori di questa “tecnica” si collocano le risposte alle domande dell’inconscio sui problemi della morte, dell’immortalità, dell’eternità, che risospingono l’uomo nell’angoscia di fronte all’impensabile, almeno esistenzialmente, annullamento totale.
Ma lo scopo sembra spesso piuttosto quello di fare fronte, senza avere recuperato un’autentica dimensione religiosa, alle frustrazioni, all’inquietudine senza meta proprie del nostro tempo.
Contro il movimento senza senso apparente del nostro mondo inquieto, senza riposo, contro gli stress, le frustrazioni, la salvezza sembra consistere nell’opposto della vita moderna, quindi nella pace, nella libertà dai beni, nella non attività.
Allora si cercano tecniche di fuga che diano la possibilità di stare psicologicamente in pace, ma non sembra spesso che si cerchi oltre.
L’attenzione al corporeo, ed allo psichico nel suo legame con il corporeo diventa forte, ma è “il fermarsi qui” che non sembra far pensare in questi casi ad un ritorno del religioso.
Si cerca di far fronte cioè alla crisi del prometeismo; ma non alla crisi che aveva portato al prometeismo. Il fenomeno della ripresa religiosa è certo molto più complesso di quanto qui non si sia potuto mostrare, e contiene anche componenti di religiosità autentica, ma non credo che si possa trascurare la componente che si è sopra ricordata.
C’è un risveglio religioso, ricco di forme, che non passa attraverso recuperi orientali, i quali, si badi bene, qualora fossero autentici sarebbero certamente da considerare con grande attenzione. Qui però approdiamo ad un modo diverso, che entra anch’esso a costruire la realtà del nostro tempo; mi sembra, almeno sul piano culturale, che questo risveglio religioso più autentico si ponga soprattutto nel modo della critica di una profonda contestazione del disordine esistente, nel nome di un’esperienza diversa, di un diverso sentire.
Si va oltre? Si può trasformare questo momento critico in un articolato momento costruttivo? E’ questo il problema che in buona parte coincide con quello della risposta, determinata nei particolari, ma radicata in ragioni ultime, che di diritto sono religiose, alle gravi domande, alle aporie del nostro tempo.
Lo scopo di quanto esposto non era quello di dare delle proposte, ma quello di fare un’analisi della situazione culturale; osservo solo che essa deve tener conto delle matrici speculative legate alla filosofia del divenire, al naturalismo, e spesso al materialismo, che prepotentemente operano per impedire a chi provi insoddisfazione rispetto alla scelta contemporanea del caos senza ordine, di aprirsi ad un autentico Fondamento ontologico, più che umano, e ad una unificazione non illusoria della vita e del vivere.
E’ perciò anche una battaglia di filosofie, di teorie ultime quella che deve essere ingaggiata, ed è solo in funzione della teoria ultima, poi, che si possono affrontare, non spostando soltanto i segmenti intermedi, problemi di cambiamento politico reale che la crisi contemporanea propone. La realtà sociale pone certo molte difficoltà, ma, proprio per le sue vistose contraddizioni interne, chiama anche al ripensamento ed in questo senso involontariamente spinge al suo superamento.
La realtà contemporanea dispone ad un ripensamento.
Ciò che ostacola questo recupero è una carenza di autenticità e di capacità di riproposta del messaggio, e soprattutto la crisi delle visioni del mondo per così dire classiche, e perciò è un problema anzitutto cioè di filosofie.
E’ soprattutto il dominio di visioni del mondo immanentistiche ciò che, direttamente o per influenza mediata, blocca oggi nella crisi o in tentativi ingannevoli di superamento di essa, tanta parte della gioventù.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 5.12.1980 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.