Di fronte all’enciclica “Laborem Exercens” vorrei cominciare le mie riflessioni a partire dall’ultima parte della stessa: “elementi per una spiritualità del lavoro”.
Questa ultima parte dell’enciclica non è una appendice, non è qualche cosa che è stato scritto tanto per finire la trattazione sul tema del lavoro, ma è la parte culminante dell’enciclica stessa, quella che sotto vari aspetti ne riprende i motivi, il filo conduttore e, riprendendo le argomentazioni sviluppate nel corso di tutto il documento, valorizza il documento stesso e soprattutto lo valorizza di fronte alla coscienza della Chiesa. Con queste riflessioni quindi intendo avere presente in modo particolare i credenti, e non perché l’enciclica sia strettamente rivolta al mondo dei cristiani, essendo anzi un’enciclica realmente universale nel suo respiro e soprattutto attenta ai problemi del lavoro come realtà umana.
E’ infatti un’enciclica sostanzialmente laica, i cui punti di riferimento sono, da una parte sì nella Bibbia (i primi versetti del libro della Genesi), ma come riferimento secondo e non meno terminale l’attenzione del Papa è rivolta, più che verso i movimenti di ispirazione cristiana, proprio alle strutture della società civile, quelle strutture che la società sì è data in modo particolare per regolare, per intervenire, per promuovere la condizione dei lavoratori, per valorizzare il lavoro umano.
Un’enciclica, quindi, che non fa un appello particolare a strutture confessionali, e che pure possiede una profonda ispirazione religiosa che deve toccare il cuore della Chiesa e deve scuoterla.
L’enciclica, ancora più che un documento di analisi sociologica è un documento religioso e morale, cioè fa forza su quegli obblighi che legano, che ispirano e che guidano la coscienza di ogni uomo. Fa appello all’uomo, ai valori più fondamentali e quindi cerca di determinare un orientamento delle coscienze appellandosi a quella visione dell’uomo che nasce dalla Bibbia e dalla Rivelazione.
Il Papa dice esplicitamente che la Chiesa matura la sua concezione del lavoro aiutata anche dallo sviluppo e dall’apporto delle scienze umane, dell’economia, della psicologia, della politica, della sociologia, ma soprattutto la Chiesa sviluppa la sua interpretazione, la sua visione del lavoro alla luce della Rivelazione cristiana.
Ecco allora che queste premesse ci fanno vedere che la comunità ecclesiale è chiamata in causa direttamente, é chiamata in causa a riflettere sulla coerenza della propria vita, ma soprattutto a riflettere e interiorizzare il Vangelo del lavoro.
Il Papa usa questa espressione di frequente: “il Vangelo del lavoro”, una espressione peculiare di questa enciclica che aveva usata anche parlando ai lavoratori di Terni. Vangelo del lavoro, cioè quell’annuncio contenuto nella Bibbia e nella Rivelazione cristiana che fa riferimento al lavoro, che spiega il lavoro, che in qualche modo annuncia e stabilisce la liberazione del lavoro fino a spiegarlo e darci dei lumi per capire come esso è strettamente assorbito nel mistero di Cristo e partecipa alla Pasqua di Cristo, all’aspetto penoso della sua passione, ma anche all’avvento di quei “cieli nuovi e terra nuova” che nella resurrezione di Cristo sono anticipati.
Il lavoro assunto in una visione cristiana diventa, illuminato dal Vangelo, un oggetto di riflessione di fede. Non si tratta soltanto di una riflessione di tipo umano, sociale, sociologico, che il Papa pure ha presente, ma qui si tratta soprattutto di trarre dal Vangelo del lavoro quel le cose nuove e vecchie che devono rinnovare ed essere la base di una continua conversione di un continuo miglioramento e di un atteggiamento nuovo del credente di fronte al mondo.
E il Papa sottolinea con rigore qual è il compito della comunità ecclesiale, il compito della Chiesa. Egli già all’inizio di questa enciclica aveva detto che non è compito del magistero della Chiesa fare delle analisi prettamente sociologiche ed economiche sul lavoro, ma che suo compito è soprattutto quello di analizzarlo ed illuminarlo alla luce del Vangelo; denunciare le ingiustizie che coinvolgono e che mortificano questa esperienza umana, denunciare le situazioni in cui i lavoratori vedono non rispettati i loro diritti e soprattutto prospettare una ripresa, un’attenzione, un impegno più vivo per testimoniare nel mondo del lavoro il Vangelo del lavoro.
Questo è il compito della Chiesa, ma come ci arriva la Chiesa?
Il Papa dice: “dovrebbe la Chiesa formulare, aiutare a creare una nuova spiritualità del lavoro. Una spiritualità autentica, e per questo è necessario che i credenti siano aiutati a interiorizzare tutte quelle luci sparse nel Vangelo che riguardano il lavoro”. Si tratta quindi di uno sforzo di riflessione, di attenzione, di lettura e soprattutto uno sforzo di comprensione profonda della realtà del lavoro come dimensione della persona umana, come qualche cosa che entra nella costituzione della persona umana e quindi entra anche a formare la sua spiritualità. Il lavoro non può essere escluso da una riflessione cristiana, ed anzi la riflessione cristiana in questi momenti è particolarmente sollecitata a considerare tutte le dimensioni dei lavoro tra cui la dimensione morale e la dimensione religiosa.
Ora è facile constatare come questa esigenza di tornare ad una spiritualità del lavoro sia un’esigenza già sentita e in qualche modo divulgata, connaturale, per esempio tra gli aclisti degli anni cinquanta, quando si parlava realmente di una spiritualità del lavoro e si cercava di coinvolgere tutta la comunità cristiana in questo tipo di riflessione.
Oggi questa esigenza viene enunciata, viene proclamata dal Papa, ed è lecito quindi sperare che questa volta non si tratti di una voce isolata, che questa volta non si tratti di un documento che commemoreranno i nostri successori da qui a novant’anni.
Tornare alla spiritualità del lavoro significa riflettere alla luce della fede, in pienezza, su questa esperienza umana, e far sì che questa riflessione coinvolga tutta la dimensione cristiana del credente. Non si tratta di sottolineare momenti particolari o specifici dell’esistenza umana, ma di valorizzare, dare il senso pieno a tutto il nostro lavoro quotidiano. Questo il Papa dice ripetendo alcuni passi del Concilio.
Si tratta quindi di un impegno che è di pertinenza della Chiesa, che fa parte della missione essenziale della Chiesa di annunciare il Vangelo e di annunciare quello che nel Vangelo riguarda il lavoro. Si tratta di formare una spiritualità che tuttavia non sia chiusa in se stessa; non solo cioè una spiritualità del lavoro tale da consolare, illuminare, fortificare i singoli credenti così che svolgano con pace, con serenità di spirito il loro lavoro, così che lo possano offrire al Signore in unione al mistero di Cristo: questa definizione della spiritualità del lavoro sarebbe estremamente riduttiva.
L’enciclica è tutta tesa a far capire che la spiritualità del lavoro deve essere una spiritualità matura come esigono le tensioni e le inquietudini delle menti e dei cuori. Deve consentire non solo di assumere e di vivere la fatica del lavoro quotidiano in una prospettiva di salvezza, secondo il piano di Dio, quindi associati al mistero della redenzione, ma soprattutto di vivere assumendo tutte le tensioni che attorno alla realtà del lavoro vengono sviluppandosi. Lavorare ed accettare la fatica del lavoro vuol dire accettare anche di partecipare in pieno a tutte tensioni quindi assumere in pieno una partecipazione viva, cosciente ai problemi che interessano il lavoro considerato come realmente il cuore di tutta la questione sociale. E’ quindi una spiritualità dove la dimensione sociale e politica viene strettamente collegata ad un impegno di fede, ad una esigenza di conversione profonda.
Una spiritualità che non è moralismo né spiritualismo, ma è prendere coscienza che vivere il lavoro in modo cristiano, accogliere in pieno il valore del lavoro alla luce di Dio vuol dire partecipare, essere solidali con tutti gli uomini del lavoro, promuovere una solidarietà tra gli uomini del lavoro e con gli uomini del lavoro. Anzi la spiritualità del lavoro conduce ad una sensibilità verso quelle nuove forme di ingiustizia, verso quelle nuove forme di emarginazione che sono appunto in gran parte frutto di una concezione non esatta del lavoro, che domina nella vita moderna, di fronte alla quale la Chiesa deve reagire formando i credenti ad un atteggiamento profondamente nuovo, cioè ispirato al Vangelo.
Trattando della virtù della laboriosità il Papa nella enciclica, al numero 9, ultimo paragrafo, dice che il lavoro deve essere vissuto come un’esperienza, un impegno non solo ordinato a trasformare la natura, ma anche come un impegno ordinato alla promozione della singola persona umana. L’uomo realizza se stesso nel lavoro! In questo senso – dice il Papa – in questo senso solo la laboriosità è una virtù; senza queste considerazioni non si può comprendere il significato della virtù della laboriosità, più particolarmente non si può comprendere perché la laboriosità dovrebbe essere una virtù.
Che significano infatti laboriosità e virtù? Virtù è un atteggiamento dello spirito per il quale noi ci impegniamo in qualche cosa: la laboriosità è quell’atteggiamento dello spirito per cui noi ci impegniamo nel lavoro nonostante i pesi e le fatiche che esso comporta, e ci impegniamo a fondo per realizzare in questo modo la nostra personalità, per diventare più buoni in quanto uomini. Quindi la laboriosità come virtù implica un miglioramento radicale, una tensione, una qualità per cui attraverso il lavoro vissuto con impegno noi miglioriamo noi stessi, e non soltanto facciamo qualche cosa di buono esteriormente, produciamo dei beni, produciamo dei servizi! Solo così la laboriosità è una virtù, perché il Papa dice “questa considerazione del valore della laboriosità come virtù, dell’impegno del lavoro, dell’amore per il lavoro come virtù, non toglie per nulla la nostra giusta preoccupazione affinché nel lavoro mediante il quale la materia viene nobilitata, l’uomo stesso non subisca una diminuzione della propria dignità. Tutto ciò depone in favore dell’obbligo morale di unire la laboriosità come virtù, con l’ordine sociale del lavoro che permetterà all’uomo di diventare più uomo, di diventare più uomo nel lavoro, e non già di degradarsi a causa del lavoro” logorando non solo le forze fisiche, il che, almeno fino a un certo punto, è inevitabile ma soprattutto intaccando la dignità e soggettività che gli sono proprie.
Ecco allora che la spiritualità del lavoro valorizza la virtù della laboriosità, in un senso ben preciso: non come puro atteggiamento di sottomissione ad un ordine costituito che non rispetta la dignità del lavoro, ma come un principio che rivolgendosi al lavoro tende a cambiare radicalmente, come dice il Papa nella sua enciclica, questo ordine sociale nel quale il lavoro è mortificato.
Come comunità ecclesiale dobbiamo quindi verificare se realmente nella nostra catechesi, nella nostra liturgia, nella nostra formazione diamo all’impegno del lavoro questa rilevanza piena e non ci limitiamo invece a predicazioni superficiali sul lavoro, non facendo nessuno sforzo per assumere la dimensione del lavoro in questi suoi aspetti profondamente umani, sociali e quindi anche politici, nel senso che questi rapporti regolano il nostro atteggiamento verso la società e nella società.
Non si può predicare una spiritualità del lavoro avulsa da queste dimensioni; mi sembra questo il senso profondo dell’enciclica: riportare il lavoro al centro non solo della questione sociale, ma al centro anche dell’impegno della Chiesa per l’uomo.
Se la via della Chiesa è l’uomo – come ha detto il Papa – percorrendo questa via incontriamo il lavoro, che esige da noi una interiorizzazione dei valori spirituali evangelici; e questa interiorizzazione ci abilita ad impegnarci realmente per una riforma, per un rinnovamento delle strutture sociali e politiche che mortificano il lavoro.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 19.10.1981 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.