È difficile leggere una enciclica come la “Laborem exercens” senza tenere conto dei precedenti. Una enciclica è sempre un documento che si innesta in un itinerario che ha dei precedenti ed avrà un seguito.
Nel leggere una enciclica dobbiamo cercare di cogliere quello che conferma, ed è sempre importante una conferma del magistero, e quello che innova, sia nel linguaggio, sia nei concetti, sia nelle proposte e negli stimoli.
Insisto su questa lettura sistematica dell’enciclica perché solo essa ci permette di rilevare che cosa si muove nell’itinerario dell’insegnamento della Chiesa in campo sociale.
Ed è lo stesso Papa Giovanni Paolo II che, quando si richiama (nel discorso non letto del 13 maggio 1981) alla ”Rerum Novarum”. l’enciclica di Leone XIII, ne parla come del “punto di riferimento dinamico” dell’insegnamento della Chiesa in campo sociale”, facendo capire che come c’è stato un insegnamento della Chiesa in campo sociale dell’epoca preindustriale, ve n’è uno per questa epoca che continuamente si sviluppa e che un altro ne seguirà poi.
E’ allora importante cogliere di questa enciclica, subito, il punto fermo, quello che il Papa chiama “il midollo perenne e fondamentale”: e cioè che il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. E’ il punto fermo, che non cambia; che non cambia dalla Rerum Novarum ad oggi.
Accanto a questo è importante però cogliere le variabili legate al tempo, gli strumenti, le modalità differenti di affermazione di questo valore.
Non è casuale che il Papa colleghi all’affermazione per cui il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro, l’enunciazione del Vangelo del lavoro, che egli fa anche in termini storici quando ricorda che il cristianesimo, ampliando alcuni concetti propri già dell’Antico Testamento, ha operato una fondamentale trasformazione di concetti. Ciò partendo dall’intero contenuto del messaggio evangelico “e soprattutto dal fatto che colui il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente Vangelo del lavoro”. Il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non è infatti il genere di lavoro che si compie, intellettuale o liberale, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Ecco questo mi pare il nucleo essenziale che viene ribadito, enfatizzato, rafforzato e messo come punto fermo di partenza. Ed ora alcune annotazioni sui caratteri distintivi di questa enciclica.
Un elemento che vorrei mettere in luce innanzitutto è la sua parzialità. Mi spiego con un esempio: se prendete un accreditato manuale di dottrina sociale cristiana – quello del cardinale Hoffner, primate di Germania trovate che il capitolo “lavoro e professione” è collocato nella sezione seconda della parte seconda, dopo la sezione prima “matrimonio e famiglia” e prima della sezione terza “l’economia”, ecc. Troviamo cioè una visione sistematica dove il lavoro va a collocarsi in un determinato punto, è un capitolo tra gli altri.
Ecco: la parzialità di questa enciclica (parzialità in senso positivo), sta nel fatto che il Papa prende i problemi “da una parte”, la parte del lavoro. E questo taglio, che non è una posizione di parte ma una accentuazione, illumina il sistema, illumina il tutto e lo influenza a mio giudizio in modo determinante.
Possiamo ancora immaginare che la questione del lavoro sia una questione da specialisti? L’enciclica risponde di no: è affare di tutta la comunità, e di tutte le comunità cristiane. Non si può più dire: se ne occupano le ACLI, come una dispensa per gli altri di occuparsene. Non c’è più insomma una delega: la questione del lavoro compete a tutta la Chiesa.
Vi sono poi altri caratteri specifici, che considero distintivi ed innovativi della “Laborem exercens” rispetto ai contenuti del precedente magistero.
Si è notato che c’è nell’enciclica una forte accentuazione del senso soggettivo del lavoro. Colui che lo compie e una persona. Se qualcuno offende la persona, il lavoro perde di senso e di valore. Il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. Per questo non può essere considerato una merce, per questo non può essere considerato pura e semplice forza – lavoro come lo considera questa civiltà “unilateralmente materialista”.
Ecco, questa civiltà “unilateralmente materialista” di cui si occupa il Papa è quella che il Papa stesso chiama “il capitalismo”: è il capitalismo che compie una inversione d’ordine perché mette al primo posto l’oggetto e non il soggetto. Allo stesso risultato di reificazione del lavoro, di strumentalizzazione del lavoro si giunge quindi in tutti i sistemi in cui l’uomo venga trattato come strumento. E qui vorrei fare una chiosa; io non so se si possa dire che il Papa non opta, non sceglie. Certo non si pronuncia se è meglio il capitalismo o è meglio un altro sistema. Non è giusto interpellarlo su questo. Ma nel testo c’è una critica., una denuncia fortissima del rovesciamento di prospettiva che si realizza originariamente col capitalismo.
E’ proprio dal giudizio negativo che si dà di questa forma storica che emerge l’altro elemento fondamentale di questa enciclica: la valorizzazione del “moto” degli uomini del lavoro, della “solidarietà” degli uomini e del lavoro; diremmo con parole nostre “del movimento operaio” in senso lato, intendendo per movimento operaio l’insieme degli sforzi che i lavoratori hanno realizzato nella storia per emanciparsi; e comunque tutti i movimenti di liberazione, di progresso, di sviluppo di promozione, tesi ad affermare i diritti della persona. Ora la solidarietà degli uomini del lavoro che si è storicamente prodotta per mettere l’uomo al giusto posto nel processo produttivo, ha una precisa giustificazione morale nella “Laborem exercens”.
Dice il Papa: la solidarietà dei lavoratori fu giustificata dal punto di vista morale e sociale come reazione contro il sistema di ingiustizia e di danno che pesava sull’uomo del lavoro. Si trova qui un giudizio storico negativo su quel sistema, e da esso si giustifica la risposta degli uomini del lavoro, il loro movimento di solidarietà.
Mi pare che qui si compia un passo più avanti della “Pacem in terris” di Papa Giovanni: lì il movimento dei lavoratori era colto, nel giusto modo come segno dei tempi; qui viene valorizzato il suo ruolo nel senso di umanizzatore del lavoro e della storia, con una legittimazione morale e con una assunzione anche culturale che, per quanto ricordi, non si trova in identico modo in altri precedenti documenti.
Tutto ciò è importante perché nella cultura cattolica la percezione del movimento operaio come soggetto di umanizzazione della società non è ancora completa, non è ancora stata accolta.
Posso ricordare qui l’esperienza non delle ACLI degli anni settanta, ma delle ACLI degli anni ’50, quando importammo dalla Francia, con l’aiuto di Padre Boschíni, il movimento operaio, ed esso non passò perché veniva guardato con diffidenza, veniva assimilato ad ideologie non condivise, veniva inficiato di marxismo; destino non dissimile da quello che altri hanno avuto nella vicenda storica dalla Rerum Novarum in qua. Si pensi al mite Giuseppe Toniolo che affermava che i sindacati dovessero essere di soli lavoratori, e non di datori di lavoro e lavoratori insieme come prioritariamente indicava la Rerum Novarum, e che venne anch’egli accusato e tacciato di socialismo come del resto lo stesso Leone XIII.
Colgo, come si vede, solo alcuni elementi nel dinamismo di uno sviluppo, dove però si individua un punto fermo molto preciso: non esiste legittimità del movimento operaio in quanto espressione di una classe che, solo perché classe operaia, sia chiamata a redimere l’umanità; la legittimità è un derivato del valore della solidarietà. Il Papa insiste su questo concetto: la solidarietà degli uomini del lavoro è la discriminante vera della legittimazione mora le della iniziativa di classe.
Una solidarietà che non è un valore statico, non è cristallizzazione, tant’è che il Papa sottolinea che occorrono sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Anche noi e le nostre forme organizzative dobbiamo quindi continuamente verificarci rispetto alle esigenze ed ai bisogni nuovi degli uomini.
Un altro punto che è stato colto nelle esegesi correnti è la comprensione particolare del conflitto sociale.
Il conflitto socio-economico a carattere di classe – nota il Papa – si esprime poi in un conflitto ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, ed il marxismo inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo. Credo che mai un Papa abbia chiamato così le cose, con il loro nome e cognome. Questa disinvoltura anche nell’uso del linguaggio evita tutta una serie di perifrasi che portano lontano dall’oggetto: qui sappiamo cosa si intende per liberalismo, cosa si intende con socialismo scientifico e comunismo, cosa si intende per conflitto socio-economico di classe e cosa si intende per conflitto ideologico.
Il conflitto è chiaramente considerato, non è rimosso, non è esorcizzato. Se ne prende atto e si fissano criteri di discernimento per la sua soluzione, anche se non si offrono ricette risolutive.
Quali criteri? Innanzitutto il principio della priorità del lavoro nei confronti del. capitale. Il capitale è inteso come “patrimonio storico del lavoro umano” una definizione, forse una intuizione, che certamente dovremo ancora approfondire, un lampo che ci aiuta a comprendere qual è lo spirito profondo di questa enciclica. Quindi il principio del superamento dell’antagonismo tra lavoro e capitale, ma – attenzione! – da perseguire non tanto come un semplice mettersi insieme (come si dice a Roma, con un “volemose bene”), ma con la “sostanziale ed effettiva priorità del lavoro, della soggettività del lavoro umano e della sua efficiente partecipazione a tutto il processo di produzione, e ciò indipendentemente dalla natura della prestazione che è eseguita dal lavoratore”.
Troviamo inoltre la critica del materialismo pratico, che viene prima del materialismo teorico: materialismo pratico che è stato decisivo, prima ancora del sistema filosofico materialistico, nella impostazione non umanistica del problema del lavoro. E troviamo ancora il principio della proprietà privata dei mezzi di produzione subordinata al diritto dell’uso comune (altrove il Papa disse di una “ipoteca sociale”, sui mezzi di produzione). Qui c’è una frase nuova, e non credo sia solo una frase: i mezzi di produzione “non possono essere posseduti contro il lavoro, ma devono servire al lavoro, sia quando si agisca in un regime di proprietà privata, sia quando si agisca in un regime di proprietà pubblica e collettiva”.
Sono spunti di riflessione che ci portano un po’ lontano, dall’acqua bassa dove non c’è pericolo di affondare; qui siamo in alto mare ed il pericolo di qualche oscillazione c’è. Perciò occorre tenere salda la rotta e ben orientare le vele.
Trovo poi nell’enciclica una relativizzazione delle ricette classiche di comproprietà dei mezzi di lavoro. Il Papa dice: sono stati avanzati da esperti e dallo stesso magistero rimedi come la partecipazione alla gestione, ai profitti, l’azionariato del lavoro e simili, e nota che, “indipendentemente dalla loro applicabilità concreta”, questi rimedi mantengono un valore che postula e richiede un equilibrio diverso tra lavoro e proprietà.
Io non so se il Papa riproponga davvero con enfasi questi rimedi. Certamente non li esclude. Mi sembra però che tenga conto anche del fatto che storicamente sono stati proposti ma hanno incontrato difficoltà di attenzione. E mi sembra che prenda in considerazione, oltre questi, anche altri modi di intervento. nessuno però assolutizzato, considerato ricetta risolutiva.
Come vengono relativizzate le ricette classiche di comproprietà dei mezzi di lavoro, altrettanto vengono relativizzate le ricette di esproprio e di collettivizzazione. La sottrazione del capitale ai privati non è sufficiente a socializzarlo in modo soddisfacente. E qui ci si imbatte in una novità: una definizione del concetto di socializzazione che non ho trovato in precedenti elaborazioni del magistero, dove si parla bensì di socializzazione, ma in termini differenti e non con riferimento ai mezzi di produzione.
Come il Papa intende la socializzazione? E’ chiaro che egli si muove con circospezione su un terreno che sa essere opinabile: non dice a nessuno “bisogna fare così”; però dai principi che ha enunciato ci fa vedere come alcuni concetti risaltino meglio: “si può parlare di socializzazione soltanto quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il comproprietario del grande banco di lavoro al quale si impegna insieme con tutti”.
Pare derivarne almeno una ipotesi: associare il lavoro alla proprietà del capitale e dar vita ad una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali, che godano effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri. Il riferimento appare evidentemente più alla ricerca di un correttivo umanizzante nei sistemi collettivistici del socialismo reale che non all’area del mercato capitalistico. Il tema non è focalizzato, ma è decisiva questa rivendicazione della pluralità dei poteri che interagiscono nella guida del processo economico, come correttivo del monolitismo di un potere unico che tutto decide nei confronti quindi della subalternità di chi lavora. Ancora: si insiste che i componenti di questo processo vengano trattati come persone e che anche in una proprietà comune bisogna che sappiano di lavorare in proprio.
C’è chi ha letto qui addirittura un abbozzo del principio di autogestione. Non so se possiamo, far dire al Papa troppe cose: ma certamente ci troviamo davanti a vie aperte, non chiuse alla ricerca.
Sono questi in sintesi i tratti più innovativi, più originali. dal punto di vista dello sviluppo della dottrina. La parte relativa ai diritti degli uomini del lavoro codifica, ripete, riaggiorna discorsi già fatti altre volte dallo stesso Pontefice.
Sottolineo comunque l’enfasi con cui parla, non tanto di programmazione, quanto di pianificazione globale per garantire l’occupazione; il modo con cui affronta il tema del sindacato, non più soltanto un diritto (la “Rerum Novarum” diceva: “il diritto di associazione è un diritto naturale”), ma una necessità anche per un equilibrio di poteri nella conduzione della economia; il modo con cui (questo è un tema che è stato oggetto di polemiche nelle prime interpretazioni) affronta non tanto il tema della donna (perché nella Laborem exercens non c’è un capitolo sul lavoro della donna) ma il tema del salario e della tutela familiare, presentando l’esigenza che la donna, che per libera scelta desideri stare in casa, abbia ad essere non penalizzata rispetto alle altre donne che viceversa si realizzano nel lavoro extra domestico. del quale il Papa prende tranquillamente atto.
Voglio infine sottolineare che la spiritualità degli uomini del lavoro di cui parla il Papa, non è pura contemplazione, non è disimpegno, non è separarsi dai processi, ma è la sottolineatura della doverosità dell’impegno per costruire il mondo. Quindi nessun intimismo, nessuno spiritualismo disincarnato. Non è per caso che proprio all’interno del capitolo sulla spiritualità sia contenuta la frase che è stata scelta per dare titolo alla nostra conversazione: “umanizzare la vita è infatti compìto dei cristiani”.
Umanizzare la vita. Rendere più umana la vita umana. Mi pare che qui ritorni un tema ricorrente dell’insegnamento di Papa Wojtyla, che è poi la traduzione dì quel passaggio di Sant’Ireneo che abitualmente noi trascriviamo in modo meccanico e che il Papa invece coglie nel suo spirito dinamico. Sant’Ireneo dice: “Gloria Dei vivens homo”, che noi traduciamo banalmente “l’uomo vivente è la gloria di Dio”. Il Papa invece l’ha tradotto prima di diventare Papa, ma poi se ne è ricordato in un modo molto più pregnante, e cioè: “la gloria di Dio è che l’uomo viva”. E mi sento di dire dopo avere letto questo passaggio: “che l’uomo lavoratore viva, e viva da uomo”. Perché umanizzare la vita è compito dei cristiani, appunto.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 19.10.1981 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.