In apertura della conferenza possiamo chiederci cosa sia la genetica, questa scienza che, rispetto al senso comune, talvolta suscita ingiustamente orrore. Per definizione la genetica è la scienza della realtà biologica in generale, ovverosia degli animali, delle piante, dei microbi. Una scienza nata nell’orticello di un prete, il quale nel 1865 si mise a studiare i fiori dei piselli. Una scienza che ha posto come oggetto dei propri studi anche il problema dell’evoluzione, cioè il problema della storia della vita sulla terra.
Di fronte al dilemma se la verità di fede e la verità scientifica siano estranee fra loro, Galileo afferma che esse sono campi diversi che non interferiscono tra loro. Io non sono del tutto d’accordo con la tesi galileiana; secondo me l’uomo ha due libri di fronte a sé: uno è la rivelazione e l’altro è la natura. I due libri non possono essere in contrasto l’uno con l’altro. Evidentemente non si deve utilizzare la conoscenza per sviluppare ideologie o per volere dimostrare qualcosa di estraneo alla scienza, ma la conoscenza serena e obiettiva della natura non può che avvicinarsi alla realtà.
Così anche la conoscenza di fede ci porta fino al limite del mistero e non oltre; ma non ci conduce alla risoluzione di tutti i problemi. Ritornando al tema dell’evoluzione, è necessario precisare come evoluzione e evoluzionismo siano concetti che non sono mai stati definiti chiaramente. Benché oggi tutti siano convinti della realtà dell’evoluzione e non vedano altra spiegazione per giustificare la presenza dei viventi sulla terra e dei fossili sotto terra, questa parola non è mai stata chiaramente definita, oppure le sono stati attribuiti significati così numerosi e contrastanti fra loro, che è difficile sceglierne uno definitivo. Ricordo una riunione tenutasi all’Accademia dei Lincei, in cui il professore Omodeo di Padova parlava appunto dell’evoluzione. Alla fine della riunione gli chiesi che cosa fosse l’evoluzione. Il professore rispose che non solo non poteva darne una definizione, ma nemmeno sapeva dire quale fosse lo statuto epistemologico dell’evoluzione stessa. Definì invece l’evoluzione come un atteggiamento nei confronti della realtà, piuttosto che una vera e propria teoria scientifica. Non si può dunque presentare l’evoluzione come una teoria, in quanto esistono diverse teorie dell’evoluzione a seconda degli evoluzionisti, i quali però sono uniti nell’affermare che l’evoluzione è un fatto certo e in quanto tale non più suscettibile di messa in discussione.
Chiamare fatto una costruzione scientifica non è certo darle garanzia di fermezza, perché un fatto è una cosa ovvia, una cosa scartata per la sua usualità: un “fatto” è il sorgere del sole, un “fatto” è il cadere di un oggetto. La teoria è una concezione che riassume una serie di fatti dai quali fa scaturire un modello, un sistema di leggi naturali che consentono di fare delle previsioni, quindi in ultima analisi, di verificare la teoria. Il sole che sorge è un fatto, ma è teoria scientifica l’intuizione di Copernico e di Newton che la terra ruota e il sole solo apparentemente si alza sull’orizzonte. Ma se l’evoluzione fosse un fatto ovvio, non sarebbe nulla di straordinario e non si capirebbe perché dobbiamo considerare Darwin un genio e l’evoluzione come qualcosa che ha aperto gli occhi agli uomini. L’evoluzione è quindi un fatto in quanto episodio o meglio insieme di episodi storici.
E’ avvenuto un processo, di cui abbiamo alcune testimonianze e un esito finale: noi, viventi in questo momento sulla terra. Ma l’evoluzione è solo questo, in quanto non possiamo trovare nel processo storico nessuna legge, poiché si è concretizzato come storia un insieme di accidenti e di coincidenze che hanno portato via via la realtà verso l’attuale complessità. Anche gli storici positivisti si sono compiaciuti nel vedere la storia da questo punto di vista ed hanno attribuito grandi fenomeni storici a piccoli episodi, a circostanze particolari.
A Firenze Goold affermò che l’evoluzione ci ha portati alla nostra condizione attuale, condizione della cui storia non possiamo definire le leggi.
Ora il concetto di evoluzione è però cambiato profondamente. Infatti l’evoluzione ha rinunciato ad essere scienza per essere storia, fatto. Della scienza adotta gli strumenti, poiché è la scienza che studia i fossili, gli organismi; la scienza allora rimane solo mezzo, ma non fine.
In effetti, insisteva Goold, non siamo in grado di prevedere in nessun modo quale sarà il mondo futuro, cosa deriverà dai viventi attuali e non siamo neanche in grado di capire quello che deve essere stato prima. In caso contrario potremmo verificare la teoria. Ricordo quando, come giornalista della RAI, intervistai un genetista di popolazioni che lavora insieme a Goold.
Trovandomi casualmente in veste di intervistatore gli chiesi, con un po’ di malignità, se pensava che l’evoluzione del cosmo, l’evoluzione della vita e l’evoluzione dell’uomo fossero fenomeni compatibili tra di loro. Conosciamo, forse a sommi capi, la teoria del Big Ben: il comparire improvviso circa dieci, quindici miliardi di anni fa di tutta la materia, di tutta l’energia concentrata in un punto, in una palla di fuoco che esplodendo dà origine alla vita del mondo e che poi inizia la sua espansione constatabile nella fuga delle galassie che si allontanano tanto più velocemente quanto più lontane si trovano. Ebbene egli rispose negativamente. La storia dell’universo ha una sua logica, che noi possiamo ricostruire nelle sue fasi, possiamo anche spiegare attraverso le leggi scientifiche, quindi la storia dell’universo ha una sua “ragione scientifica”, ha le sue regole che ci permettono di prevedere come sarà l’universo anche tra un miliardo di anni; l’evoluzione biologica invece non è prevedibile perché è governata fondamentalmente dal caso.
Nell’evoluzione sociale entra il fattore consapevolezza e quindi esiste una certa regola di sviluppo che possiamo rintracciare. Al puro caso era affidata dunque solo l’evoluzione dei viventi. Feci allora un’altra domanda: “Nell’evoluzione dei viventi c’è progresso?”. La risposta fu negativa. Non può esserci progresso altrimenti ci sarebbe una regola all’interno dell’evoluzione. La stessa affermazione fu data da Goold a Firenze e riconfermai la mia contestazione. Si cade infatti in una contraddizione etimologica. Anche l’uomo della strada identifica l’evoluzione con il progresso: se una persona, un paese è evoluto rispetto ad un altro, vuol dire che è progredito.
Quindi usiamo il termine progresso con un fondo, se vogliamo, di giudizio morale, indicando come da una peggiore situazione, si passa ad una migliore. Così gli ultimi fautori dell’evoluzionismo sostengono qualcosa che non è una teoria scientifica, ma è semplicemente un fatto che si identifica con il progresso che invece è assente. Afferma Goold, non a torto, che in fondo anche Darwin nella sua “Origine della specie” parla molto poco del progresso nell’evoluzione.
Quello che interessa a Darwin è l’adattamento della specie alle condizioni varie dell’ambiente, ma ciò non è un processo di sviluppo, in quanto l’adattamento può avvenire in altri modi. L’adattamento è un ripiego piuttosto che un progresso evolutivo, è un accontentarsi, un arrangiarsi in una particolare nicchia ecologica che la natura ci affida.
Darwin non parla di evoluzione. E’ considerato il padre dell’evoluzionismo ma si può a difficoltà considerare un evoluzionista. Nelle prime edizioni della “Origine della specie”, per selezione naturale il termine evoluzione non è toccato ed è introdotto solo secondariamente, proprio perché Darwin era contrario all’idea di sviluppo prestabilito. Riteneva piuttosto che la vita fosse regolata essenzialmente da variazioni casuali e dallo scrutinio della selezione naturale. Darwin insiste nella sua corrispondenza su questo punto e afferma di non essere l’inventore di una teoria dell’evoluzione, in quanto molti ne hanno parlato prima di lui, ma di essere soltanto colui che ha offerto un “meccanismo” per spiegare non tanto l’evoluzione, ma l’origine della specie. L’origine di un orso bianco da un orso bruno o viceversa non è un processo evolutivo che comporta un aumento di complessità, di organizzazione; solamente, un orso bruno diventando bianco si adatta meglio a vivere al Polo Nord. Così ho combattuto la mia battaglia per il concetto di evoluzione contro autorevoli evoluzionisti, che in patria sono meno evoluzionisti di quanto lo sia io.
In effetti, proprio ascoltando i fautori dell’evoluzionismo mi sono accorto che il sistema creato da Darwin e soprattutto dai darwinisti era completamente caduto.
Il problema è perfettamente presentato con la seguente domanda: “Può la microevoluzione spiegare la macroevoluzione?”. Secondo la maggior parte dei genetisti questa spiegazione non c’è. Ma, in prima analisi, che cos’è la microevoluzione? E’ quella che Darwin chiama origine della specie, cioè un piccolo passaggio fra una specie e un’altra senza un profondo cambiamento. E’ dunque solamente una variazione all’interno di un genere, oppure tutto l’insieme delle variazioni all’interno di una stessa specie, per cui una razza prevale sull’altra.
Questa è la microevoluzione che la genetica studia anche sperimentalmente in laboratorio. Il genetista si costruisce delle popolazioni; evidentemente per studiarle in modo appropriato queste devono essere contenibili in recipienti ragionevoli ed ecco quindi lo studio su mosche o batteri, sul loro progresso, il loro decorso in diverse condizioni. Ne risulta che la microevoluzione non è un’evoluzione, è semplicemente un cambiamento orizzontale. Ora, la macroevoluzione è, al contrario, l’origine dei grandi tipi, ciò che spiega l’origine dei vertebrati, dei celenterati, delle grandi categorie dei viventi. La macroevoluzione è “la vera evoluzione”. Il vero problema dell’evoluzione è spiegare i grandi cambiamenti e non tanto le modifiche da una generazione all’altra. Ora, accertato che la microevoluzione non spiega la macroevoluzione, dobbiamo ammettere che la teoria proposta da Darwin, che è una teoria di microevoluzione, non spiega il processo storico dell’evoluzione stessa. Proprio in quegli anni fatidici che vanno dal centenario della pubblicazione de “Le origini della specie” nel 1959 al centenario dalla morte di Darwin, nel 1982, sono avvenuti quegli sviluppi scientifici che hanno portato praticamente alla caduta dell’evoluzione, che è rimasta solo un atteggiamento. Possiamo studiare l’atteggiamento perché è questo che possiamo oggi criticare, è questo che ci è rimasto dell’evoluzione. L’altra critica dell’evoluzione l’hanno già fatta gli evoluzionisti stessi.
Passando ad esaminare l’atteggiamento dell’evoluzionista non si può non prendere in considerazione Darwin. Infatti l’atteggiamento tipico è di negare che la specie abbia un valore naturale. La specie secondo Darwin è una “entità passeggera”, un’entità che si è formata durante il processo di trasformazione casuale della vita. Per un certo periodo si è sviluppata con uniformità, ma il suo destino è quello di divenire un’altra specie, quindi la specie non è che una “tappa”. Fondamentale è quindi nel darwinismo la negazione del concetto di specie ed anche ogni altro raggruppamento superiore, diceva Darwin, esiste semplicemente per comodità dei sistematici. Per Darwin la specie è un criterio di suddivisione che facilita la clonazione. La specie tende sempre ad alterare se stessa e non a progredire, perché questo è estraneo al pensiero di Darwin. In un certo senso tende all’alienazione, a diventare qualcosa di diverso.
Questo pensiero centrale ha delle grandissime conseguenze dal punto di vista filosofico, in quanto è in definitiva la negazione dell’Idea, è la negazione del Tipo. Il grande rappresentante di questi sistematici cui faceva riferimento Darwin è il Linneo che, quasi esattamente un secolo prima di Darwin, cioè nel 1735, aveva elaborato il suo sistema naturale, il quale consiste nella classificazione di tutte le specie animali. Linneo è considerato nella storia della biologia come l’assertore più rigoroso del “fissismo”, atteggiamento che si oppone all’evoluzionismo e a qualunque forma di trasformismo. Ecco, Darwin più propriamente dovrebbe essere considerato un trasformista piuttosto che un evoluzionista.
Linneo affermò che le specie sono tante quante ne ha create in principio l’Ente Supremo. La posizione di Linneo, che si riallaccia alla concezione di Agostino, propone che in principio Dio abbia creato le “formas”, cioè le idee, le quali poi sono diventate via via, durante lo sviluppo della storia, degli “atti”. Atteggiamento questo meno ingenuo e semplicistico di quanto non possa offrire un creazionista ad un fissista ad oltranza. Tra l’altro si trova, tra i suoi scritti, l’asserzione che le specie sono figlie del tempo, ritenendo cioè che le specie possano modificarsi l’una nell’altra, così pure i generi; non però le famiglie e gli ordini.
Quindi, in un certo senso, Linneo accettava il concetto di microevoluzione darwiniana, ma non accettava l’idea della macroevoluzione. Ora la più recente genetica giapponese si è opposta al concetto darwiniano di adattamento, contrapponendovi l’idea di “identità”. E’ il giapponese Imanishi, non molto noto in Italia, che ha sostenuto questo principio, secondo il quale una specie tende a mantenere la propria identità, non ad alienarla; si chiude contro tutte le forze esterne che operano in vista di modificazioni. Quindi la risposta della specie non è di passivo adeguamento, ma di resistenza attiva, magari trasformandosi contingentemente per poi restituirsi alla condizione primitiva, cioè per ritrovare la propria identità. Nel 1981 si è tenuto a Chicago un congresso di genetisti, di biologi, di geologi, di tutti quanti coloro che potevano contribuire alla questione che veniva proposta mediante l’interrogativo: “Può la microevoluzione spiegare la macroevoluzione?”. Il parere quasi unanime dei partecipanti era un deciso no: la microevoluzione, la teoria genetica che noi descriviamo quando parliamo della selezione, non può spiegare la macroevoluzione. Inoltre è stato osservato come il fenomeno più tipico della paleontologia sia la stasi. Quando cioè una specie si forma, tende a rimanere quella che è per milioni di anni, in seguito improvvisamente la specie scompare e, al suo posto si riforma qualche cosa di nettamente differente benché imparentato con la specie precedente. La tendenza della specie è la “stasi”, tranne nel momento in cui le specie scompaiono o nel momento in cui le specie appaiono.
La stasi però richiede un meccanismo per la propria identità. Se la specie non avesse un processo omostatico per mantenersi fedele alla propria identità non si potrebbe verificare, nel cambiamento che in milioni di anni accade nelle diverse condizioni ambientali, quello che i paleontologi riconoscono come stasi. I concetti di identità e di tendenza prendono il posto di quello di adattamento.
Certamente le specie si modificano, in modo tale però da non compromettere la propria identità o di recuperarla quando si ritrovano in condizioni ambientali adatte. Si può comprendere la profondità della differenza di atteggiamento fra Darwin e Imanishi, sostenitori rispettivamente dell’adattamento come stile di vita delle specie viventi e della preservazione dell’identità. In un mondo in cui l’adattamento è la concezione dominante nessun oggetto, nessun vivente ha un significato, ha un valore per se stesso. Ma in un mondo, in cui si crede che le specie tendano a mantenere la loro identità, acquistano valore anche le varie entità sistematiche che sono dietro all’uomo. Considerando l’uomo come essere pensante in relazione a questi due atteggiamenti di vita oltre che di studio, si nota come si adatti, tenda a rendere più agevole la propria sopravvivenza, ma non conservi la propria dignità, la propria identità di uomo. Pensando alla crisi del mondo moderno ci si accorge che il nodo cruciale è proprio questo: la perdita dell’identità dell’uomo; l’uomo non si conosce più, non riconosce più se stesso. E’ stato educato ad adattarsi, a specializzarsi per fare questo o quel mestiere per sopravvivere, adeguando i suoi comportamenti. Un uomo che sceglie di avere un’identità e una legge nella propria coscienza la difende a tutti i costi e non è disposto a scendere a compromessi violando la propria identità.
Per finire, secondo Darwin e i darwinisti moderni, la vita è il risultato di una serie di accidenti. Cito anche Monnot il quale, trovandosi consenziente, ha scritto un libro nel quale afferma che non c’era nessuna necessità che l’uomo comparisse. La legge della storia della vita sulla terra non sarebbe stata per nulla turbata dal fatto che l’uomo non fosse comparso. Il libro di Monnot, uscito nel 1970, terminava, molto onestamente, con accenni veramente disperati; sottraeva alla figura dell’uomo ogni dignità, ogni destino, ogni speranza, negata dalla sua necessità: “Siamo estranei al mondo, siamo come zingari e ci muoviamo alla periferia di una realtà che ignora i nostri desideri, che ignora i nostri sentimenti”. Ma ecco che di fronte a questo atteggiamento di disperazione che nega la necessità della realtà, si sta sviluppando in questi ultimi anni un atteggiamento che invece restituisce a dignità la necessità delle forme.
Non è vero, come sostiene Monnot e così anche i darwinisti, che tutto è un risultato del caso. Esistono delle leggi che prescrivono le forme possibili nella natura vivente. Esistono delle necessità strutturali per cui la natura tende a realizzare certe configurazioni quasi come in chimica, in fisica e anche in biologia. Naturalmente sono molto più difficili a definirsi questi modelli strutturali. La vita si avviluppa non alla cieca, ma entro una trama che stabilisce non quali dovranno essere i viventi, ma quali potranno essere i viventi stessi. Un vivente dovrà scegliere via via l’onda dell’esistenza, dovrà avanzare fra le varie forme possibili che gli sono destinate e una di queste forme possibili è la forma umana. Quindi tutto era già in principio nella trama della vita, millenni, milioni, miliardi di anni dovevano trascorrere perché ad un certo punto questa strada fosse imboccata. C’è un’immagine molto efficace che rappresenta una montagna dalla quale scendono numerosi impluvi e una valanga rappresentante lava che, sempre dalla cima, va verso la pianura. Ora, la valanga discendendo verso la pianura è libera nei suoi movimenti, ma deve scegliere fra i canali che sono di fronte. Incontrerà punti di biforcazione, punti cruciali in cui dovrà fare una scelta. In qualche momento agirà il caso che la manderà da una parte piuttosto che dall’altra, o potrà agire un piccolo accidente che ne determinerà il destino, però i cammini che la vita può percorrere sono definiti degli impluvi che conducono verso la pianura dell’esistenza.
La stessa immagine è stata ripresa da un biologo scozzese, il quale afferma che la nostra natura esibisce soltanto un riflesso delle forme rigorose completate dalla geometria. Si riferisce particolarmente alla natura vegetale con tutte le forme simmetriche di fiori, di foglie e della natura dei protozoi. Quando si va verso organismi più complessi il discorso della geometria diventa più difficile a immaginarsi. Rene Thom, topologo e matematico contemporaneo, sostiene che ogni forma propria aspira all’esistenza e attrae il fronte d’onda degli esseri esistenti. Egli è anche il formulatore della teoria delle catastrofi, secondo la quale esiste solamente un numero determinato di strutture stabili che tendono a stabilizzarsi anche se condizionate. La natura tende verso l’ordine, non verso il disordine. Vi è quindi il ritorno, nella biologia, dopo che il darwinismo con la sua severità aveva portato l’uomo alla disperazione di cui parla Monnot, delle leggi della forma. Si comincia nuovamente ad apprezzare il valore delle forme per se stesse, per le leggi governatrici e non come funzione di sopravvivenza. Se una conchiglia ha una forma a spirale, questo è perché la legge alla base della sua crescita è una legge che corrisponde alla formula della spirale equiangolare e se un fiore ha una corolla regolare non è perché questa corolla sia particolarmente utile alla sua sopravvivenza. Non si deve cercare in tutti gli aspetti della natura qualcosa di opportunistico, cioè qualcosa che serva solo perché una specie possa prevalere sulle altre.
Bisogna cominciare a guardare la natura con occhio differente, cercarvi l’ordine, la regolarità, l’armonia delle leggi che presiedono la formazione dei viventi.
In definitiva oggi il biologo si trova di fronte al problema dello sviluppo: come da un uovo si arriva ad un organismo complesso, il problema della ontogenesi, che deve essere privilegiato rispetto a quello storico. Solamente quando avremo conosciuto quali sono le leggi che regolano lo sviluppo delle forme, allora potremo porci il problema della modifica delle forme. E’ invertita la posizione darwinista, per cui è invece la trasformazione, la storia, che ci deve dare spiegazioni delle forme. Ma credo che sia la conoscenza di come le forme vengono determinate dalla geometria della vita che ci può dare una spiegazione o prospettare qualche ipotesi sulle trasformazioni di un’identità in un’altra identità. Debbo dire, sul piano personale, che queste considerazioni fatte sono il risultato delle meditazioni dei miei ultimi dieci anni e del mio studio sulle nuove conoscenze che si andavano accumulando, nel campo della biologia. Tutto ciò ha cambiato profondamente il mio modo di vedere la natura. Da tre anni dirigo questa vecchissima rivista di biologia (ha più di settanta anni di vita) che mi è stata trasmessa dal professor Spirito. Ebbene, dirigendo questa rivista mi sono rivolto immediatamente agli autori e studiosi di tutto il mondo, perché non c’era molto da ottenere in campo italiano e sono venuto via via prendendo contatto con le idee, le scie fondamentali del pensiero che circola nel mondo e che purtroppo tende ad arenarsi. Debbo dire che per me l’esperienza è stata veramente preziosa. Ho avuto la consapevolezza di che cosa stia diventando la biologia oggi: sta abbandonando i modelli elementari del tipo della selezione naturale, per portarsi verso una nuova dignità che sta sviluppando una biologia teorica di vaste fondamenta, con un poderoso bagaglio di matematica e che tenta di conciliarsi con l’atteggiamento poco matematico che hanno avuto i biologi precedenti. Così, guardando la natura, osservando i fiori, le foglie, si prova una vera gioia nel verificare la regolarità, l’impeccabile geometria delle forme. Veramente questa geometria innamora, arricchisce lo spirito di chi si volge a vedere nella realtà l’armonia dell’universo e non semplicemente l’opportunismo o l’adattamento ad una specifica funzione. L’adattamento tende a spiegare alcuni casi marginali nella botanica, nella zoologia. Ciò che veramente mi scopre il cuore è invece lo studio delle armonie senza profitto né scopo, dettate proprio dalle leggi di formazione dei viventi.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 2.11.1982 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.