Mi trovo a far parte della commissione insediata dal Ministero della Sanità per preparare la legislazione sulla manipolazione genetica che dovrà essere presentata al Parlamento quest’anno. Vorrei però, prima di parlare d’altro, introdurvi un tema tanto delicato quanto poco trattato: l’eutanasia. Se ne possono segnalare quattro tipi:
Prendendo in considerazione il primo tipo di eutanasia si pone una riflessione importante: utilizzare la morte come analgesia (cioè come soppressione del dolore richiesto dal paziente) è una situazione che è stata superata dalla medicina attuale, perché non esistono più dolori non placabili con analgesici diversi. L’eutanasia risulta un mezzo primitivo: anche un cavernicolo avrebbe potuto effettuarla con la sua clava, quindi è una forma assolutamente regressiva sul piano tecnico e chimico nel sedare una sofferenza organica. Qualunque soluzione di problemi che preveda l’eliminazione del soggetto del problema è regressiva. Anche l’aborto è una soluzione regressiva e tende ad evitare problemi reali quali quello economico, sociologico, interpersonale. Quindi l’analgesia organica è superata tecnicamente come l’analgesia psicologica è superata psicologicamente. C’è una vera e propria ars moriendi. Esistono dei corsi della durata di un mese che permettono l’istruzione sulle nuove tecniche psicologiche americane, orientali, transumanistiche, sulle tecniche di compagnia al moriente scoperte in terra cristiana. Vi sono vari studi che hanno portato ciò anche nel mondo della terapia medica. Quindi né gli analgesici fisici né quelli psichici passano per l’eutanasia.
L’eutanasia esclusione si pone nel prolungamento dell’esclusione sociale; è l’eliminazione dei non normali, dei non gratificanti, dei malati cronici, degli anziani, dei delinquenti. Sono condannati all’eutanasia quelli già condannati all’esclusione sociale. “Questo letto lo voglio libero per lunedì”, famosa frase del medico che vuole liberare un posto occupato per troppo tempo da un certo paziente. Può essere un’eutanasia strisciante; ci sono delle ars non moriendi, ma occidendi, che purtroppo vengono applicate negli ospedali dello stato: è pericoloso entrare in ospedale. Un esempio di eutanasia esclusione è l’aborto, anche se non si tratta di eutanasia, perché la morte del nascituro non è indolore. Vengono protetti gli animali adulti e non l’embrione che ancora non sente; accanto vi è la posizione cristiana del cattolicesimo classico per cui ha tutti i diritti l’embrione e nessuno l’animale adulto. Hanno dunque diritto i senzienti; si comincia a pensare di tutelare il senziente fino al quattordicesimo giorno in provetta, mentre quando è in utero lo si può massacrare fino al quarto, quinto mese nella civile Inghilterra. Quindi se si porta avanti la legge dell’embrione in provetta, bisogna ritoccare la legge sull’aborto. Non si può pensare che la provetta sia un luogo di maggior protezione rispetto all’utero materno. Si arriva a forme di disumanità sconcertante con prospettive utilitaristiche.
Eutanasia esclusione significa togliere pesi alla società, negare l’altro e atrofizzare la propria vita. Se non accetto la sfera dell’altro, riduco la mia umanità, perché essa, come cultura, consiste nel saper vivere dall’interno il più ampio spettro possibile di esperienze umane. La condivisione di vita del cieco o dell’anziano può essere considerata cultura; recidendo da me queste esperienze umane fatte senza la luce degli occhi o il vigore del corpo, non sono l’infinità dell’uomo nel finito; precludendo l’esperienza dell’infinità dell’uomo nel finito, quella che vivrei se non avessi più forza o non vedessi, riduco la stessa cultura umana e la stessa mia umanità, quella di tutti gli uomini a cui partecipo. La mia umanità è la mia partecipazione a tutto l’umano. Inoltre tutto ciò riduce la creatività, perché non saper che fare di un malato, di un povero, di un morente significa questo.
Vi sono molti casi in cui non si può distinguere la differenza tra eutanasia passiva ed attiva. Un caso particolare è quello dei neonati difettivi. Esistono impressionanti casi americani, fra i quali quello del bambino mongoloide con l’esofago che non si poteva aprire e necessitava di un’operazione. I genitori consultati i medici decisero di non procedere all’operazione. Lo misero in una stanzetta particolare e il bimbo impiegò quindici giorni a morire di fame per decisione dei genitori. Questo venne indicato come caso di eutanasia passiva, perché nei confronti del neonato difettivo non c’è l’obbligo di operare. Tutto ciò è particolarmente ipocrita, perché considerandola passiva è concesso il lasciar morire. Qualcosa di simile si compie nei confronti dei malati mentali cronici; si tratta di un’eutanasia passiva strisciante, ma non per questo accettabile.
Il terzo tipo di eutanasia è quella che prevede l’interruzione del trattamento intensivo di un malato terminale.
A questo proposito vi è una casistica vastissima e non è facile risolvere il problema sia per quello che riguarda il singolo che per ciò che riguarda il rapporto tra il singolo e gli altri per i casi di priorità: se effettivamente ci sono risorse limitate e tenere in rianimazione una persona senza speranze non permette di assisterne altre che offrono una possibilità reale, si pone il triste problema comparativo.
Le opinioni sono tante. La Chiesa si pone contro l’accanimento terapeutico dei mezzi straordinari. Anche la differenza tra mezzi straordinari e mezzi ordinari è molto problematica, perché quello che è straordinario a Rocca Cannuccia, è ordinario a Houston in Texas o viceversa e ciò che oggi può essere straordinario, domani potrà non esserlo più.
Bisogna piuttosto chiedersi che tipo di vita viene a mantenersi attraverso questi interventi. Si può dire che se la vita mantenuta include momenti umani di coscienza, in cui l’esistenza può essere reinterpretata dal suo autore, certo è più importante mantenerla rispetto ad una vita che è esclusivamente vegetativa. Tuttavia è assai problematico per il medico prevedere se quella vita sarà solo vegetativa o racchiuderà anche momenti di coscienza. E’ analogo il caso del malato mentale, non più in grado di reinterpretarsi.
Io, come interprete del mio dolore, posso avere un significato infinito; ed ecco il significato del dolore del morente. Che significato ha la mia vita quando non posso conferirle significati? Siamo davanti al buio.
Dal punto di vista teorico il caso di eutanasia più rilevante è il suicidio procurato, non analgesico; occorrono due parametri fondamentali: il dolore atroce e la malattia terminale; un dolore atroce che permettesse di superare una fase e poi di rivivere non configurerebbe il caso classico dell’eutanasia analgesica. Qui si parla dell’eutanasia come espressione del diritto a morire di cui è stato fatto bandiera il caso del suicidio di Freud pattuito con l’amico in caso di malattia incurabile. Quest’ultima è forse la vera eutanasia.
Dal punto di vista culturale le due ipotesi più rilevanti sono quella dell’eutanasia esclusione (eliminare una vita giudicata indesiderabile) e l’eutanasia come rimedio non doloroso assistito dalla medicina. Perché sono culturalmente molto rilevanti? Perché entrambe rientrano in un orizzonte teorico tipico del moderno e descrivibile con precisione. Esso oscilla tra le filosofie del soggetto assoluto e le filosofie della morte del soggetto, che sono poi la stessa cosa. Soggetto assoluto è quel soggetto che si pone come criterio ultimo dei valori di fronte al mondo, di fronte all’essere, considerato come assolutamente privo di significati vincolanti. Se si riducono l’essere, il mondo e tutto ciò che ci circonda a materia plasmabile ed energia sfruttabile ecco che di fronte all’essere così ridotto, il soggetto si trova a conferire dei significati dedotti dal nulla, solo dalle sue personali preferenze ed opzioni. Sono le filosofie del soggetto assoluto. Però, per una logica necessaria, queste filosofie si capovolgono sempre nella filosofia della morte del soggetto, come è avvenuto nei duecento anni di cultura europea, perché se tutto è materia ed energia, ben presto anche il soggetto verrà ridotto a ciò; quindi affermare che esista un soggetto sarebbe sostenere un postulato senza alcuna scientificità. Il soggetto è placato dentro lo sfondo materico delle cose attraverso un puro atto di volontà; quando questo cade, il determinismo universale, che regge la materia e l’energia del mondo, afferra il soggetto e lo travolge dentro se stesso, abolendolo. Il progredire del pensiero moderno porta al determinismo universale e alla morte del soggetto.
Nel caso del suicidio ci si può chiedere se chi lo compie sia nel lecito perché è un soggetto assoluto o perché chi lo subisce è un non soggetto. E’ lecito perché chi subisce l’atto è solo un grumo di materia.
Questo è il paradosso del suicidio lecito come espressione delle filosofie del soggetto assoluto e delle filosofie della morte del soggetto. Se il medico diventasse il somministratore della morte sia come soppressione degli indesiderabili sia come suicidio su richiesta, la sua figura verrebbe deformata. E’ da tenere presente come sia stata trasformata la figura della madre dall’aborto. Il fatto che ogni anno in Italia abortiscono trecentomila donne, il fatto che i bambini che noi vediamo sono sentiti come sopravvissuti ad un primo esame sta ad indicare come il rapporto figlio-madre non è più considerato come rapporto di incondizionata accettazione. Ciò si riflette anche sui bimbi nati e sul loro modo di vedere la madre: “A me hai detto sì, a mio fratello hai detto no, ma potevi dire no anche a me e avresti potuto uccidermi come hai fatto con lui”. Ciò cambia la figura di tutte le madri: “Quando io sono nato tu ci hai pensato su; un domani tu sarai vecchia, la tua vita sarà nelle mie mani e si capovolgerà il rapporto: potrò decidere anch’io se ti voglio o no”.
La rivendicazione del diritto di morire significa la rivendicazione dell’abolizione dell’ordine morale, perché se è possibile sopprimere il sé e non solo il corpo, cioè non è possibile solo il “somacidio”, ma anche il “suicidio”, ci si può sottrarre dalle sanzioni giuridiche di tutti i mondi e anche alla giustizia divina. Se Dio non esiste tutto è permesso; se Dio esiste ed è possibile uccidersi, tutto è ugualmente permesso.
Quindi o Dio non esiste o non può creare dei soggetti moralmente responsabili che siano non immortali e capaci di suicidio.
Non può esserci giustizia divina senza sopravvivenza alla morte fisica, occorre almeno quel tanto di sopravvivenza per cui Dio sanzioni il bene e il male.
Il soggetto morale che si può suicidare è assoluto e abolisce la giustizia di Dio, quindi l’impossibilità del suicidio del soggetto morale è un postulato imprescindibile dalla ragion pratica, come diceva Kant, ossia dall’ordine morale: un uomo che si potesse suicidare sarebbe al di sopra di Dio, degli angeli e dei demoni, ciò vale anche per gli uomini. Un ordine di giustizia umano presuppone delle tecniche raffinate per impedire il suicidio al colpevole.
Supponendo che la giustizia di Dio sia di amore e non giuridica, sarebbe al tempo stesso più spietata e più misericordiosa: l’amore non perdona. L’amore vuole la riconciliazione, vuole ristabilire il suo ordine tra coloro che sono separati dall’odio e dall’ingiustizia; Dio non vuole che il peccatore sia punito e muoia di morte morale, ma che si penta e viva: ciò significa riconciliarsi con Dio e con l’altro.
In questo caso vale l’esigenza dell’impossibilità del suicidio, perché sarebbe un sottrarsi al processo della riconciliazione; ad esempio: io odio, l’altro muore. Penso che la morte mi abbia liberato di lui; ma se nessuno dei due muore dobbiamo camminare l’uno verso l’altro sotto lo sguardo di Dio finchè non ci siamo riconciliati. Finché non mi sarò riavvicinato a lui non entrerò nel regno di Dio, sia che l’abbia ucciso sia che l’abbia solo odiato, lo trovo sempre davanti a me. Con il suicidio posso abolire il volto dell’altro, se il suicidio è impossibile no. Il volto di Dio e dell’altro sono incancellabili e non posso fuggire all’amore che non perdona.
E’ la grandezza dell’uomo che lo rende piccolo, è la sua indistruttibilità che lo rende non assoluto, è la sua superiorità sulla morte che lo fa suddito e non sovrano, è la sua somiglianza con Dio che gli impedisce di rendersi uguale a lui; allo stesso modo sono la sua grandezza e la sua mortalità che lo rendono non isolato e superbo, ma dialogante e coesistenziale.
Si capisce qual è la gravità della rivendicazione del diritto a morire che portato al limite, significa rivendicazione del diritto a sottrarsi all’ordine della giustizia, a Dio, all’altro. E’ chiaro che, da come io concepisco l’uomo, deriva la mia formulazione del diritto con necessarie mediazioni, perché la morale non si può trasporre immediatamente all’ordine giuridico.
La nascita della vita è un problema totalmente opposto all’eutanasia. Uno dei motivi che spiega la diversità è l’educazione, la preparazione ad essere medico che fa affrontare in modo più singolare il problema, nel senso del rapporto con l’atto singolo, piuttosto che una panoramica di ordine filosofico.
Si può partire col parlare della fecondazione in vitro, basandosi sulla concretezza del lavoro medico.
Nel caso specifico si tratta della coppia incapace di avere figli. Sorge il problema di superare questo stato di sterilità. Ci sono molti sistemi, dalle terapie mediche a quelle chirurgiche, che permettono di superare questi stati sterili, ma ci sono casi in cui la scienza non è in grado di vincere e ha trovato come soluzione il concepimento in provetta. La cosa sembra abbastanza facile dal momento che da vari secoli questi tentativi sono stati portati avanti e si sono raggiunti buoni risultati in campo animale. Sugli uomini i tentativi sono invece molto più recenti. Quello che ufficialmente può essere considerato l’anno d’inizio è il 1969. Dopo dieci anni si raggiunse il primo risultato; ma dal ’78 ad oggi sono circa un migliaio i bambini nati in provetta. Il medico, di fronte a questo problema, inizia ad analizzare quali sono i candidati alla fecondazione in vitro, cioè quali sono le coppie che possono trovare una risposta al loro desiderio attraverso questo mezzo. Tra queste possiamo annoverare quelle che già hanno tentato interventi chirurgici di apertura della tuba, poi falliti; oppure coppie in cui la donna si è rifiutata di sottoporsi all’intervento chirurgico, che porta in sé un rischio di morte o sofferenza. Altri casi sono quelli di sterilità non definita detti di “sterilità ideopatiche”, in cui uomo e donna apparentemente sono fertili, ma non riescono a concepire e non si capisce la causa; oppure i casi delle sterilità immunologiche, molto vicine alle ultime poco prima dette. Altre cause che richiedono la fecondazione in vitro sono le oligoastenoazoospermie, cioè i difetti del liquido seminale maschile (spermatozoi scarsi, deboli o mancanti), oppure nella donna problemi di aplasia tubarica, cioè mancanza delle tube che mettono in comunicazione l’ovaio e l’utero. Oppure quei casi in cui, nella coppia, c’è malattia ereditaria.
Un campo particolare è quello delle coppie che hanno chiesto la sterilizzazione. Mentre nel maschio la sterilizzazione è al cento per cento irreversibile, nella donna, con intervento chirurgico, la possibilità di reversibilità è del 30-40%.
Dopo aver stabilito che non si possono utilizzare altri mezzi si procede ad un esame accurato della coppia: fisico, psicologico, fisiologico, (l’evoluzione ormonale della donna). Ci possono essere problemi di salute fisica che portano rischio alla gravidanza, oppure situazioni di rischio psicologico da parte dell’uomo, della donna o della coppia. Queste coppie arrivano alla fecondazione in vitro dopo anni di ricerca affannosa dei figli.
Superati tutti gli ostacoli si raccolgono i gameti maschili; oggi la tecnica usata universalmente è la masturbazione. Gli spermatozoi possono essere usati subito o, come spesso accade, vengono conservati a freddo finché non si ottiene l’ovocita femminile. Nei primi esperimenti si aspettava che l’uovo maturasse e lo si andava a raccogliere; oggi si trova più comodo, utile e produttivo stimolare l’ovulazione al fine di ottenere una datazione precisa del momento della maturazione dell’uovo ed al fine di ottenere più di un ovulo maturo: se in natura si ha generalmente la maturazione di un solo uovo, con l’induzione ormonale si ha la formazione di più ovuli contemporaneamente. A questo punto attraverso una laparoscopia o una puntura sotto controllo ecografico dell’addome, si vanno ad aspirare gli ovociti maturi, se ne controlla al microscopio lo stato di maturazione e si pongono in un mezzo di incubazione, a cui viene aggiunto lo spermatozoo. Concentrazione degli spermatozoi, sostanze presenti nel liquido di cultura ed incubazione sono tutti problemi biologici che possono trovare una soluzione abbastanza facile. Una volta incubati in poche ore gli spermatozoi fecondano l’uovo, lo raggiungono, lo penetrano e formano lo zigote, la cellula capostipite dell’individuo adulto. Trentasei, quarantotto ore dopo, da ogni zigote derivano due cellule, poi quattro e così via. A questo punto l’embrione viene depositato nell’utero materno con una cannula e si lascia che trovi qui la sua nicchia.
Ciò che si raccomanda è il controllo accurato di queste fasi e che la gravidanza venga monitorata continuamente, non tanto perché la gravidanza in sé possa arrecare problemi particolari, ma in quanto è una gravidanza preziosa, ottenuta dopo anni di tentativi e fatica.
I risultati oggi sono ancora poco chiari; non è facile definirli da ciò che si legge comunemente, perché i problemi restano tanti.
Si parla di numero di gravidanze ottenute, di numero di parti avvenuti, ma non si spiega se queste notizie riguardino il numero degli ovuli prelevati o il numero degli embrioni ottenuti in vitro o il numero degli embrioni trapiantati: tutti questi sono aspetti molto importanti. I dati più precisi riguardano il rapporto tra gravidanze e numero di embrioni trapiantati: c’è una situazione abbastanza omogenea e sembra che quando si trapianta un embrione solo in utero si ottenga il 10% di gravidanze, se se ne trapiantano due si ha il 15-17%, se se ne trapiantano tre o quattro si arriva al 38-40%. Tra l’altro circa il 60% di queste gravidanze con tre o quattro embrioni sono gemellari.
Davanti a questi risultati il medico può assumere due diversi atteggiamenti. L’aspetto scientifico e di ricerca in un campo così attraente come quello della fecondazione e del concepimento allettano un medico. Il dottor Cittadini, il più avanzato studioso della fecondazione in vitro, dice che una delle sue prime pazienti si espresse nei suoi confronti dicendo: “Questo non è figlio mio, ma vostro”, riferendosi all’equipe. L’altro atteggiamento è quello del medico che si pone davanti a questi risultati scientifici domandandosi che cosa vogliano dire per se stesso e per l’uomo. Se si iniziano a porre queste domande sorgono molti problemi, a cominciare dal modo di raccolta dei gameti. Per il cattolico la masturbazione è sempre stata un problema; la Chiesa si è espressa più volte condannandola se praticata per puro scopo di autoerotismo e dandole uno spazio di apertura, se necessaria, per studi medici e diagnostici. Molte delle coppie, però, sono sterili per sterilità maschile o per anovularietà, cioè non maturazione delle ovaie; l’unica soluzione è intervenire con gameti provenienti da una terza persona o con gameti conservati.
Sono state riportate varie notizie di bambini nati da ovuli congelati. Un uomo e una donna che si sottopongono al processo di sterilizzazione possono conservare i loro gameti nelle apposite banche. E’ noto il caso della donna francese che chiese di essere fecondata con il liquido seminale del marito morto.
Tra i tanti problemi legati all’uso dei gameti vi sono anche quelli riguardanti la loro conservazione. Tuttavia si ritiene questo problema superato nel momento in cui vengono conservati servendosi delle stesse tecniche di conservazione cellulare. Lo stesso problema riguarda anche gli embrioni, in maniera di gran lunga più complicata.
Oggi la tendenza generale è quella di conservare embrioni, così da poterne usufruire in caso di fallimento del primo tentativo, perché stimolare nuovamente l’ovulazione porterebbe dei rischi. Se il primo tentativo riesce, però, di quegli embrioni non si sa che farne, ed alcuni parlano del salvataggio del 10% o al massimo del 50 % di essi.
Questi embrioni vengono ad essere esposti anche al pericolo della sperimentazione, almeno fino a quando non si siano messe a punto le tecniche di conservazione dal momento della fecondazione all’impianto nell’utero; quindi non siamo a conoscenza di quale sia il livello di mortalità embrionale. Inoltre si è fatto strada un altro tipo di problema. In genere è la madre che ospita i propri embrioni nel proprio utero, ma questa non è più regola. Esiste un ampio margine di casi in cui questa possibilità non si dà: i casi dell’utero in affitto. A Los Angeles un professore ha fatto un passo avanti, prevedendo due casi possibili: quello in cui la donna non possa portare avanti la gravidanza o per problemi di utero o per malattia generale, che prevede il trapianto dell’embrione dalla madre all’utero di una donna in grado di completare la gravidanza; oppure quello della donna sterile incapace di concepire, nel qual caso il professore consiglia di far concepire il bimbo ad un’altra donna e di trapiantare l’embrione nell’utero di quella che vuole essere madre.
Tutto ciò porta ad una serie di importantissimi e gravissimi problemi di natura etico- morale.
Vi è un altro passo problematico che non sembrerebbe così importante se non venisse affermato da chi si occupa di diagnosi prenatale ed embriotransfert, cioè il desiderio e la volontà di normalità di questo figlio.
Ed ecco il problema connesso alla diagnosi che con molta tranquillità viene superato dagli ostetrici: se impieghiamo tanta fatica per comprendere lo stato di salute dei bimbi in utero dobbiamo anche andare fino in fondo attraverso l’aborto non più selettivo, ma elettivo, cioè di scelta.
Ci sono pro e contro; è lecito che una coppia desideri un figlio, ma ora sembra pretendere questo diritto, quasi imponendolo a Dio.
Di fronte ad un problema così nuovo, anche i teologi si trovano smarriti e sorgono due reazioni istintive: da una parte quella del possibilismo, cioè considerare queste nuove applicazioni come una conquista della medicina, come un servizio all’uomo; dall’altra parte sorge il timore che non sia un servizio all’uomo, ma un servizio di cui l’uomo si appropria per autogestirsi, discorso questo non molto lontano dal suicidio.
La Chiesa non si è ancora espressa ufficialmente, ma esistono alcuni barlumi e richiami in cui il problema è vissuto già da qualche anno; oggi i teologi sono alla ricerca di una linea comune accettabile.
Per il medico rimane ancora il problema, da una parte, di sperimentare nuove teorie e porre in atto nuove ipotesi e dall’altro il timore di agire negativamente sull’uomo, soprattutto in un periodo in cui la medicina sta diventando chiaramente sempre più oggetto di desiderio da parte del potere, che sta cercando ogni giorno di più di manipolare il medico per affermare una propria linea ideologica.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 15.4.1985.