Desidero fornirvi ogni informazione circa l’impegno del FAI a favore degli aiuti al terzo mondo sia relativa alla metodologia, alla “filosofia” e alle procedure nuove che abbiamo cercato di organizzare, sia in rapporto ai problemi che sono tuttora in discussione.
Qual è la strada che sin dall’inizio abbiamo dovuto imboccare per orientare in modo diverso l’impegno del governo italiano a favore di questi paesi? Ho avuto l’occasione e la fortuna, direi, di collaborare con il ministro Forte fin quasi dal primo momento. La prima fase di avvio del FAI è stata caratterizzata da una situazione piuttosto burocratica e difficile che non ha dato immediatamente i frutti sperati. Di fatto l’azione del FAI è partita, non nel marzo dell’anno 1985, data d’entrata in vigore della legge, ma in concreto ha dovuto prima superare una serie di problemi “romani” ed è entrata a regime di attività nell’estate dello stesso anno. Quindi per valutare obiettivamente l’impegno e l’azione del FAI bisogna avere come periodo di riferimento un anno, un anno netto. In questo anno che cosa abbiamo fatto, che cosa siamo riusciti a organizzare nonostante le immense difficoltà di ogni genere, sia oggettive, sia originate dall’apparato amministrativo dello stato, non abituato a gestire impegni finanziari di questo genere, risorse finanziarie di questa dimensione? Nel nostro paese c’è stata una sola esperienza precedente: è stata quella della legge a favore delle aree terremotate del Sud, la legge 219, che ha maturato una procedura analoga a quella che poi è stata seguita per quanto riguarda il FAI. La responsabilizzazione a livello massimo dell’organo politico per poter prendere delle decisioni e per poter poi essere controllato ex et post dalla Corte dei Conti. Questa è stata l’impostazione. Evidentemente l’organizzare e gestire un intervento pubblico rivolto all’estero va da ad che ora molto più complicato. Innanzitutto è emerso immediatamente il problema di come interpretare questo intervento di urgenza. Una visione riduttiva era quella di confinarlo nello stretto ambito degli aiuti alimentari e sanitario. Limitarsi a questo settore, anche se in obbedienza a esigenze strettamente umanitarie, parve fin dall’inizio sia al prof. Forte che ai suoi collaboratori, quasi tutti studiosi di economia, del tutto velleitario. Il fondo aiuti italiani nasceva in un momento in cui la sensibilizzazione a favore dei popoli in via di sviluppo era massima nel nostro paese e nell’opinione pubblica internazionale; limitare l’intervento al solo ristretto ambito dell’emergenza dell’aiuto alimentare, ci sembrava molto riduttivo e, ad un’analisi più attenta non solo riduttivo, ma anche pericoloso. Il motivo è molto semplice: l’eccesso di aiuto alimentare concentrato in poco tempo a un paese che soffre anche grande carestia, procura ulteriori danni immediatamente successivi, perché deprime i prezzi dei prodotti agricoli e spiazza completamente le possibilità di sviluppo dell’agricoltura che è la risorsa prima di quei paesi. Quindi, paradossalmente, quello che sembra un aiuto, alla fine, diventa un disaiuto, trasformandosi in una valvola di sfogo per gli interessi dei paesi industrializzati sempre alla ricerca di nuovi sbocchi alle proprie eccedenze alimentari. Un punto chiave alla nostra azione doveva essere un rapporto equilibrato tra aiuti alimentari e progetti di sviluppo. Rapporto equilibrato è un’espressione generica se non si precisa l’incidenza dei vari fattori. Tutti gli aiuti di emergenza alimentari e nel campo sanitario devono essere articolati in base a due caratteristiche: obiettive esigenze umanitarie, immediate, specialmente provenienti da aree cosiddette “fuori mercato”, per esempio i campi profughi, con la certezza che questi aiuti, attraverso organizzazioni internazionali, raggiungano le popolazioni interessate; in secondo luogo collegamento funzionale degli aiuti alimentari ai programmi o progetti multilaterali o bilaterali di sviluppo. A consuntivo di un anno di lavoro, si può dire che l’idea iniziale di collocare risorse per gli aiuti alimentari nell’ordine del 15% dell’impegno totale finanziario, sia stato leggermente superato. Siamo forse intorno al 17,18% per una serie di evenienze che ci hanno portato a intervenire al di fuori dell’area sub sahariana. Sono capitate in questo ultimo anno catastrofi internazionali che hanno obbligato il FAI ad intervenire anche in sud America, quindi in altre aree al di fuori della zona sub sahariana. Realizzare un obiettivo di creazione delle precondizioni di sviluppo nei paesi beneficiari ha dovuto contrastare un’abitudine consolidatala livello non tanto italiano, quanto europeo, e internazionale, di concentrare gli aiuti di emergenza alle semplici forniture e spedizioni di vari prodotti.
Al 30 settembre dell’86 il consuntivo degli impegni firmati dal sottosegretario per i progetti bilaterali, cioè Italia – paese beneficiario, e multilaterali, cioè Italia – organismo internazionale – paese beneficiario, hanno assorbito più della metà, circa il 55,56%, della somma totale stanziata dal FAI che, per l’esattezza, erano 1900 miliardi di lire.
L’idea direttiva è stata la seguente: abbiamo cercato di organizzare, scegliere i progetti di intervento innanzitutto nell’ambito del settore agricolo o in comparti strettamente legati all’agricoltura; trasformazione dei prodotti agricoli e loro commercializzazione e tutta una serie di altre iniziative che riguardano attività artigianali, pesca, riabilitazione, ospedali. Il nucleo della nostra progettazione e i nostri programmi d’intervento si sono concentrati sul bilancio dell’agricoltura. La cosa è abbastanza ovvia e evidente: la causa della carestia, come è ampiamente documentata anche in relazioni delle Nazioni Unite e di organismi scientifici internazionali, nei paesi sub sahariani e nei paesi sahariani, è strettamente legata a un problema di crisi dell’agricoltura e solo in modo congiunturale al problema della siccità. La siccità è stata in altri termini la…goccia che ha fatto traboccare il vaso. Stranamente è un problema di crisi crescente storica dell’agricoltura, che è andata procedendo con desertificazione progressiva dei territori, abbandono di certe aree, cioè il fatto che nelle aree, che si venivano via via abbandonando da parte dei contadini, permanevano popolazioni nomadi con allevamenti sparsi i quali raspavano quel po’ che restava di vegetazione. Quindi era evidente che il nostro intervento doveva aggredire in qualche modo il problema agricolo. Il problema agricolo è stato aggredito essenzialmente con progetti integrati, cioè l’intervento non è stato solamente economicistico, ha riguardato l’agricoltura e una serie, un contesto di azioni più piccole che giravano intorno all’insediamento agricolo. In molte zone abbiamo cercato di realizzare dei perimetri irrigui, faccio un esempio di interventi agro-idraulici. Intorno al perimetro irriguo abbiamo svolto indagini e scelte operative sulla dimensione ottimale del blocco unitario, sull’unità unitaria da assegnare al contadino locale, sulla meccanizzazione, sulla formazione professionale e sulla viabilità interna a queste aree e i modi più opportuni per i collegamenti; abbiamo dovuto affrontare inoltre una serie di problemi civili e sanitari. Quindi abbiamo operato non solo a realizzare delle strutture d’intervento che dessero un minimo di nuove prospettive economiche alla zona dove ci siamo concentrati ma anche delle condizioni di sussistenza della popolazione oppure di richiamo della popolazione in queste aree, perché, ovviamente, non basta realizzare un progetto ci vuole chi ci lavora, chi lo gestisce per il futuro, altrimenti diventa pur sempre una cattedrale nei deserti africani. Questa è stata la prima caratteristica. La seconda riguarda il modo in cui abbiamo impostato i contratti con le società che venivano di volta in volta incaricate di svolgere le diverse azioni che vanno dalla progettazione fino all’esecuzione e all’assistenza tecnica e alla gestione delle opere avviate. Abbiamo cercato di organizzare dei progetti cosiddetti “chiusi”; cioè noi siamo andati in questi paesi, abbiamo visto quali progetti esistevano a livello di fattibilità tecnico-amministrativa, già studiati, ma non finanziati; ne abbiamo fatto una rapida valutazione, dati i tempi ristretti; comunque abbiamo preso progetti che già avevano una loro solidità e abbiamo cercato di mandarli a effetto. Normalmente la maggior parte degli organismi di intervento che fa azioni nei paesi in via di sviluppo, fa azioni di collaborazione con strutture dei paesi beneficiari. Noi, per quanto riguarda i progetti, abbiamo ritenuto che fosso più serio e più valido, anche sotto il profilo umanitario, realizzare quelli che arrivassero fino alla cosiddetta “messa-coltura”, cioè non solo progettazione non solo opere non solo strutture, non solo predisposizione, ad esempio, di perimetri irrigui, ma anche tecniche colturali, semina, coltivazione e gestione per un periodo convenzionale di due anni che siamo stati obbligati a non superare per motivi amministrativi. Molte delle nostre iniziative rientrano nei cosiddetti progetti “chiusi”. Sia ben inteso che questo riguarda la parte di progettazione; con questo non abbiamo esaurito i programmi, perché abbiamo dato notevole spazio, uno spazio che finanziariamente interessa circa il 7-8% dell’impegno finale, a interventi di organizzazioni non governative, cioè a una serie di piccoli interventi, di microrealizzazioni urgenti, ma non casuali, gestite in stretta collaborazione con le autorità e le popolazioni locali in uno spirito di effettiva intesa. Io ho visitato molte di queste organizzazioni non governative di diversa ispirazione che lavorano veramente in un modo affascinante in Africa e con un impegno eccezionale ed effettivamente danno garanzia che le risorse, i soldi dati loro raggiungano lo scopo. A un risultato del genere concorrono vari motivi. Si tratta, infatti, di organizzazioni già radicate in questi posti, hanno delle basi dove fanno attività produttiva, attività di formazione, conoscono i locali, alcune parlano addirittura la loro lingua. Cercano generalmente dimensioni di intervento molto limitate, quindi facilmente gestibili, e in questa logica si articolano i programmi pluriennali di collaborazione con le popolazioni dei paesi beneficiari. Facendo leva sulle organizzazioni non governative, il FAI è riuscito a conciliare in modo organico l’urgenza degli aiuti e la razionalità dei progetti, che in moltissimi casi realizzavano l’obiettivo finale. A questo scopo sono stati riservati dei plafonds di spesa per opere idrauliche, per pozzi, per iniziative più piccole da parte essenzialmente delle organizzazioni non governative e in primo luogo della Caritas, che ha saputo gestire innumerevoli decisivo iniziative. Nel complesso questa è stata la linea ispiratrice del FAI nel portare avanti una diversa logica di progettazione. E’ stato un grande sforzo anche perché il FAI, dovendosi creare una sua struttura amministrativa e gestionale, ha dovuto attingere in gran parte il personale tra chi aveva già lavorato nella cooperazione allo sviluppo con una metodologia sotto tanti aspetti divergente rispetto alla nuova impostazione. Un altro elemento caratteristico dell’azione del FAI è stato il tentativo, non sempre appieno riuscito, di concentrare l’intervento territorialmente. Come è noto quella e realtà designata col termine terzo mondo è diviso in terzo e quarto mondo e il quarto mondo è essenzialmente l’Africa Sahariana, questa fascia di paesi dell’Africa centrale, dell’Africa nera che lambisca a nord il Sudan e i paesi sub sahariani e al sud arriva fino al nord del Kenia.
Questa fascia è obiettivamente povera, rappresenta all’incirca un po’ meno del 10% della popolazione mondiale ed è l’unica parte tra i paesi sottosviluppati che non è riuscita a risolvere il problema dell’autosufficienza alimentare. Molti altri paesi tipici del sottosviluppo che fino a dieci anni fa erano in condizioni precarie di carestie e di sottosviluppo diffuso, l’India, il Pakistan, negli ultimi anni hanno nettamente migliorato la propria capacità produttiva in campo agricolo e addirittura oggi sono esportatori di prodotti agricoli. Questo risultato è stato raggiunto grazie ad un’accorta realizzazione di progetti di sviluppo e di tecnologie indirizzate essenzialmente all’in cremento della resa per ettaro. I paesi africani presentano caratteristiche molto diverse rispetto ad altre aree del sottosviluppo. Vi è in essi una bassa densità demografica per cui le cosiddette tecnologie “labour intensiv”, cioè fondate solamente sul lavoro, possono essere introdotte solo in determinati casi. Le tecnologie “labour intensiv” vanno benissimo nei paesi asiatici e vanno bene solo in due minuscoli paesi africani, Ruanda e Borundi, in cui il FAI è intervenuto. Sono gli unici due paesi “asiatici” dell’Africa. Tutti gli altri sono paesi a bassissi ma densità demografica, con grandi potenzialità di sviluppo agricolo e di sfruttamento di risorse naturali. Le tecnologie introdotto nei nostri progetti sono, pertanto, non sofisticate, ma essenziali, come quelle che servono i processi tendenti ad una elementare meccanizzazione. Mi sia consentito parlarvi di un programma di sviluppo integrato lungo il fiume Senegal. A fianco di una serie di interventi da parte della comunità eu ropea, noi abbiamo cercato di individuare dei perimetri di limitata dimensione per realizzare in queste sono dei centri di piccola meccanizzazione i quali servono le cooperative, operanti su un territorio all’in circa di quaranta ettari e che raggruppano una ventina di famiglie. L’opera di meccanizzazione compensa così la carenza del fattore umano, particolarmente forte nelle campagne. Al contrario, le grandi città sono molto affollato e presentano tutto le caratteristiche negative dell’inurbamento selvaggio. Se si avviasse con successo un razionale processo di sviluppo, la gente potrebbe tornare nelle zone risanate. E’ questo un esempio del diverso modo di concepire il ruolo delle tecniche nei paesi africani rispetto a quanto in passato hanno fatto le Nazioni Unite in India, in Pakistan e nelle Filippine. L’uso appropriato di queste tecnologie, si è reso necessario per consentire a questi paesi di mettere in moto un processo produttivo che potesse funzionare per proprio conto una volta cessato il nostro intervento. Sui paesi tra i più poveri del mondo, tipo la Somalia, grava enormemente il peso delle importazioni. Difatti già all’inizio del disegno dell’intervento, il Fondo Umanitario Internazionale e la Banca Mondiale temevano che l’azione del FAI comportasse, attraverso la realizzazione di aiuti e interventi in paesi poverissimi, un’espansione della spesa in questi paesi. Occorreva intervenire in modo accorto, cercando di fiscalizzate tutte le spese e di evitare che, pur realizzando una cosa buona, si mettesse in azione un meccanismo perverso il cui effetto sarebbe stato la diminuzione del potere di acquisto da parte di paesi che già sono poveri. Si è cercato, attraverso i nostri progetti, di assicurare le condizioni per produrre, con una certa validità di mercato, determinati prodotti. Non sempre ci siamo riusciti, come nel caso di un intervento per la riattivazione di uno zuccherificio in Somalia, impresa in cui era già fallita la Germania Federale. Comunque non ci siamo riusciti neanche noi, perché una tecnologia costosa, applicata a un impianto fatiscente consentiva di produrre zucchero a più del doppio del prezzo che ha sul mercato mondiale. In casi del genere non è consentito parlare di interventi umanitari, giacché si tratta di veri e propria sprechi, in altri casi. Per esempio stiamo cercando di realizzare un minimo di produzione di latte a servizio di Mogadiscio? Abbiamo fatto dei calcoli: il costo di approvvigionamento, cioè il prezzo, dovrebbe essere accettabile e quasi concorrenziale col prezzo di importazione. Perché tutto questo? La risposta è ovvia: occorre produrre sul posto per sostituire il più possibile le importazioni. Se si fa vivere una struttura produttiva diffusa e a costi competitivi, si può sperare che la popolazione, ormai concentrata in bidonvilles intorno alle capitali si ridistribuisca più razionalmente. Il FAI ha programmato e attuato interventi complessivi di qualsiasi genere su 37 Paesi. Per motivi di stretta emergenza ha operato anche fuori dell’Africa, però la massima parte degli interventi che si sono realizzati attraverso emergenza funzionale, progetti di sviluppo in vari campi, agricoli, infrastrutturali, viari, porti, pesca ecc., ospedali, si sono concentrati in 20 paesi. Sono state mosse al FAI molte critiche, sebbene di segno diverso: per alcuni l’intervento era poco concentrato; per altri invece, sì, era concentrato, però dagli aiuti avrebbero dovuto essere esclusi quei paesi i cui governanti non erano affidabili. Esigenza giusta quest’ultima e tuttavia di difficile esecuzioni dal momento che un po’ in tutti i paesi dell’Africa sub sahariana e del Corno d’Africa non esiste un regime completamente democratico. Il FAI ha operato in un numero di paesi inferiore rispetto alla delibera CIPES che, inizialmente. lo autorizzava a intervenire non solo in Africa, ma anche in tre paesi asiatici: Nepal, Budan, Bangladesh. Occorreva però evitare la dispersione negli interventi e anche per motivi logistici, puntare verso l’Africa sub sahariana. I paesi che hanno usufruito delle principali forme differenziate d’intervento, sono in ordine alfabetico e non per la rilevanza dell’impegno finanziario: Burkina Faso, Etiopia , Gibuti, Nord Kenia, Mali, Ruanda, Senegal, Somalia, Sudan e in misura minore Sierra Leone ed Uganda. La zona Somalia – Etiopia, Sudan è stata quella in cui si è concentrato circa il 40% dell’impegno FAI.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 3.10.1986.