Forse non sempre ce ne rendiamo conto, ma stiamo vivendo in un’epoca storica di radicale presa di coscienza dei diritti fondamentali della persona umana nella sfera politica e sociale. Nel passato il diritto di comandare si pensava conferito in qualche modo da Dio, ma era conquistato in realtà con la forza, se necessario, e mantenuto mediante esplicite pretese di superiorità (merito personale, rango, tipo di cittadinanza): ma sempre, in ultima analisi, poggiava sulla forza. Oggi, dopo due terrificanti guerre mondiali, torna a grandeggiate l’idea tipicamente europea, stoica e cristiana, che ogni essere umano ha dei diritti originari che debbono essere riconosciuti, anzi protetti, e che non sono conferiti dalla società. E il riconoscimento di quei diritti tende a divenire universale, anche se non sono ancora pienamente attuati in nessuna parte del mondo.
L’appassionata riaffermazione di una politica umanistica internazionale la dobbiamo in particolare a un gruppo di persone che, all’indomani della seconda guerra mondiale, quando il mondo si svegliava dalle atrocità commesse e dal genocidio hitleriano, spinsero gli Stati membri delle Nazioni Unite a elaborare un testo che ponesse le basi di un nuovo e più degno ordine mondiale. Due anni dopo la Carta delle Nazioni Unite, il 10 dicembre del 1948 fu votata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Essa rappresentò un atto di fede nella ragione dell’uomo e costituisce il parametro normativo a cui fanno riferimento, in ogni parte del mondo, coloro che lottano in difesa dei diritti dell’uomo. Dal ’48 in poi la Dichiarazione Universale, a poco a poco, fu recepita nelle varie Costituzioni nazionali e codificata dal diritto internazionale tramite patti e intese, anche a carattere regionale, sui diritti civili e politici, sui diritti sociali, economici, culturali e le convenzioni contro il genocidio, l’apartheid, ecc.: essa forma un corpo di strumenti di diritto internazionale accettato dai governi in nome di popoli di ogni razza religione e cultura. Il rispetto di certi diritti elementari – come l’interdizione della schiavitù, dei genocidio, della discriminazione razziale, della tortura – tende, quindi, a imporsi a tutti gli Stati, indipendentemente dalle diversità dei regimi politici. E se almeno queste norme fossero effettivamente rispettate, il problema dei diritti dell’uomo sarebbe in buona parte già avviato a soluzione. Benché non siano dappertutto scrupolosamente rispettate, la loro stessa esistenza ha avuto e ha effetti indiretti assai positivi.
In primo luogo è importante – malgrado la diversità delle culture, dei regimi politici e dei livelli di sviluppo – constatare che vi sia un comune denominatore di valori accettati da tutti. Gli articoli della Dichiarazione dei Diritti dell’uomo non si pongono tutti sullo stesso piano e hanno presupposti diversi. Alcuni, i cosiddetti “diritti fondamentali”, risalgono alle leggi di natura, mentre altri derivano dal diritto positivo e sono soggetti a evoluzione. I diritti umani basati sul diritto naturale sono assoluti ed irrinunciabili; i diritti positivi sono relativi e possono essere, in determinate condizioni, limitati, oppure considerati auspicabili anche se non ancora attuati.
I diritti fondamentali dell’uomo sono i seguenti:
ART. 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.
ART. 3
Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà, alla sicurezza della propria persona.
ART. 4
Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù e servitù: la servitù e la tratta degli schiavi saranno proibiti sotto qualsiasi forma.
ART.5 Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani, degradanti.
ART. 9
Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.
ART. 18
Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche del culto e nell’osservanza dei riti.
ART. 19
Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Questi articoli sono il comune denominatore, l’irrinunciabile requisito per una convivenza civile sotto tutti i cieli.
E’ proprio l’universalità di questi diritti irrinunciabili dell’uomo che dà il potere morale e d’argomentazione giuridica ad Amnesty International per richiamare gli Stati al loro rispetto. Infatti, a parte gli impegni assunti in sede internazionale da quasi tutti gli Stati del mondo, anche le loro Costituzioni affermano i princìpi di uguaglianza dinanzi alla legge e di libertà dei loro cittadini. Nessuno contesta allo Stato il diritto di elaborare le leggi che stabiliscono i diritti e doveri dei propri cittadini per assicurare la loro ordinata convivenza; vi sono, però, diritti che appartengono ai cittadini, perché derivano dall’essenza stessa della persona umana, e che esulano dal potere dello Stato. Sono, appunto, i diritti fondamentali dell’uomo. Tra questi due poli, i diritti dello Stato ed i diritti irrinunciabili della persona umana, sta la vasta area dell’intolleranza e delle sue vittime: i prigionieri di coscienza, gli scomparsi, i torturati, i condannati a morte. Questa intolleranza istituzionale degli Stati può ben essere designata con un solo nome: violazione dei diritti umani. I diritti umani vengono violati ogni volta che il governo di uno Stato abusa del potere che gli è stato conferito per calpestare quei diritti che i governi stessi dovrebbero proteggere e del cui rispetto sono responsabili. Vi sono governi che violano clamorosamente i princìpi di uguaglianza, altri i princìpi di libertà, giustificando ogni disumanità in nome di colossali interessi economici o della ragion di Stato. Se guardiamo la carta geografica, ovunque giriamo l’occhio troviamo intolleranza sotto forma di razzismo, apartheid, tortura, sparizioni, campi di concentramento, campi di lavoro forzato, persecuzione religiosa, espulsioni, rifugiati, pena di morte, persecuzioni di minoranze etniche, violazioni della libertà di espressione. Ecco perché Amnesty International esiste ancora dopo venticinque anni di vita e continua ad avere un lavoro immane. Mentre vi parlo scorrono nella mia mente i nomi e i volti di tanti uomini, donne e bambini che hanno sofferto e soffrono violazioni dei loro diritti umani fondamentali in paesi diversi, con regimi diversi, ma tutti marcati dal sigillo dell’arbitrio e dell’intolleranza. Da venticinque anni la storia della lotta alla repressione, all’intolleranza, la storia di una voce che si eleva a favore delle vittime, contro lo strapotere degli Stati, è la storia di Amnesty International. La nostra è un’organizzazione privata, non governativa – indipendente da qualsiasi governo, ideologia, interesse economico, credo religioso – che ha centrato il suo intervento sulla persona imprigionata a causa delle sue convinzioni, del colore della sua pelle, del sesso, dell’origine etnica, della sua lingua, della sua religione, a condizione che non abbia usato o propugnato la violenza. Fa anche parte del suo mandato pretendere, per ogni prigioniero di opinione che assiste, un processo, equo e tempestivo. Amnesty interviene a favore delle persone detenute senza accuse né processo e si oppone, in difesa di tutti i prigionieri, all’uso nei loro confronti della tortura, di qualsiasi trattamento crudele, inumano, degradante e della pena di morte.
Amnesty International nacque dall’idea di un uomo, Peter Benenson, e divenne un movimento e insieme una esemplare metodologia. Ci si chiede perché un’iniziativa così semplice abbia avuto un così grande impatto sull’opinione pubblica mondiale. Le ragioni sono molteplici. L’informazione raccolta da Amnesty è sempre accuratamente verificata. Occorre dire la verità, piuttosto meno che più, su ciò che succede nel mondo, sui prigionieri politici, sulle camere di tortura, sulle celle della morte. L’argomento è troppo serio per farne un’occasione di propaganda politica. L’informazione è resa pubblica da una fonte non politica, non partigiana, non governativa e mira solo a richiamare l’attenzione sui diritti umani violati, senza lasciarsi, neppure per un momento, condizionare dagli schieramenti ideologici e politici. Quando Benenson dette inizio ad Amnesty c’era la guerra fredda, ma il suo appello attraversò le frontiere, perché riguardava ogni paese e puntava i riflettori della coscienza sul mondo intero. L’iniziativa dell’avvocato londinese era lì ed è lì a provare che tutti i cittadini, prima che i governi, sono chiamati a lavorare responsabilmente, affinché i diritti umani siano garantiti ovunque. Questa è la filosofia che ancora oggi è alla base dei metodi ,di lavoro di Amnesty International.
Questa filosofia si basa su tre fattori importanti: accuratezza dell’informazione – imparzialità – indipendenza finanziaria. Amnesty International non appoggia, né si oppone ai governi o ai sistemi politici, così come non condivide necessariamente le idee dei prigionieri per i quali lavora. In ogni caso il suo intervento riguarda esclusivamente la protezione di alcuni dei più elementari diritti umani. Il suo lavoro è deliberatamente definito da un mandato ristretto proprio per giovare di più a chi versa nelle situazioni peggiori. Amnesty International è molto spesso accusata dai governi di appoggiare i loro oppositori, ma per principio essa non fa suo nessun particolare programma politico e applica gli stessi criteri, difendendo gli stessi diritti, in ogni singolo caso. Vi sono ora più di tremila gruppi di Amnesty International in Africa, Asia, America, Europa e Medio Oriente e ogni gruppo lavora su casi di prigionieri di paesi diversi dal proprio. Nessun membro di Amnesty International, nessun gruppo può dare informazioni sul proprio paese e, allo stesso modo, nessun gruppo ha la responsabilità delle dichiarazioni che l’organizzazione fa riguardanti il proprio paese. Vi è, inoltre, un ulteriore elemento per salvaguardare la sua imparzialità: Amnesty International non fa mai paragoni tra i diversi paesi a proposito delle loro violazioni dei diritti umani. Non esistono per Amnesty le liste bianche e le liste nere.
In questi giorni è stato pubblicato il rapporto annuale dell’organizzazione. E, come sempre accade, sfogliando le trecentonovanta pagine di questo volume, i giornalisti ci chiedono se un governo è migliore di un altro. A noi è vietato istituire paragoni, sia per non cadere nelle trappole delle manipolazioni di parte, sia perché la quantità di informazioni sui diritti umani varia molto e molto spesso è più difficile avere informazioni proprio da quei paesi in cui la violazione dei diritti umani è più sistematica. I governi vogliono tenere i loro misfatti segreti per quanto possibile. Esiste una politica deliberata di alcuni governi di sopprimere l’informazione stessa e ciò rende impossibile misurare, paragonare a livello internazionale i gradi di violazione dei diritti umani. Le violazioni stesse hanno modalità diverse. Alcuni governi imprigionano i dissidenti per lunghi anni per ridurli al silenzio; altri li imprigionano per breve tempo; altri li torturano o li internano nei manicomi. Le conseguenze morali e fisiche di questi diversi tipi di violazioni non possono essere oggetto di un quadro statistico. Gli sforzi di Amnesty International sono tutti concentrati nell’aiutare le vittime della repressione e nel pubblicizzare le violazioni commesse dai governi.
L’indipendenza di Amnesty International è importante quanto la sua imparzialità. Amnesty International non riceve fondi dai governi. t finanziata dai soci. Inoltre Amnesty International è, appunto, internazionale. Nata in Europa venticinque anni fa, essa si è estesa nei vari continenti. Il suo è un orizzonte che supera ogni frontiera, essendo chiamata ad operare ovunque i diritti umani siano minacciati, E sono molti i soci attivi di Amnesty che, a causa del loro impegno umanitario, sono in prigione, sono scomparsi, o sono stati uccisi.
Un altro elemento che caratterizza Amnesty International è il suo attivismo. Senza l’azione comune di uomini e donne, sparsi un po’ ovunque nel mondo, poco si può fare. Amnesty International dialoga con i governi, reca la sua testimonianza alle Nazioni Unite e in altre sedi internazionali, invia delegazioni a parlare con i vari capi di Stato; ma questo è solo una parte del suo lavoro. La possibilità stessa di dialogare con i governi è il risultato del lavoro continuo di migliaia di attivisti, di soci e di gruppi. Se i governi sono costretti a riceverci, è perché sono stati bersagliati per mesi ed anni da lettere, telegrammi, richieste di vario genere provenienti dai gruppi di Amnesty International. Giorno dopo giorno, i soci di Amnesty International spendono tempo, denaro, energie per rendersi familiari ai loro prigionieri e per documentarsi sui paesi dove essi sono detenuti. I soci inviano appelli per loro, raccolgono firme, visitano ambasciate. E’ al lavoro umile, tenace, appassionato di questi soci, molti dei quali sconosciuti agli organi centrali dell’organizzazione, che Amnesty International deve la sua autorità morale.
La lotta per il rispetto dei diritti umani è molto spesso una lotta per l’informazione. Alcuni governi hanno promulgato leggi che puniscono chi pubblica informazioni sulle violazioni dei diritti umani nei loro paesi, o chi invia informazioni all’estero. Altri governi impediscono che osservatori indipendenti visitino le loro prigioni e assistano ai loro processi. I giornalisti in Sud Africa, ad esempio, sono soggetti alla censura e coloro che cercano di far giungere informazioni all’estero sono espulsi. Ancor oggi, dopo anni di regime gorbacioviano, coloro che cercano di far passare informazioni sulle violazioni dei diritti umani dall’Europa dell’Est o nei paesi dell’Europa dell’Est sono soggetti all’arresto. Due persone in Polonia sono state processate in queste ultime settimane per aver pubblicato la traduzione in polacco del notiziario di Amnesty International. Non deve, quindi, sorprendere che in molti paesi giornalisti, scrittori, semplici cittadini che si dichiarano a favore dei diritti umani siano bersagli del potere. Nella nostra epoca, più che in ogni altra, il controllo dell’informazione è divenuta l’arma privilegiata del potere. I governi sono arrivati al punto di affidarsi alle più note agenzie di pubblicità per curare la loro immagine all’estero. Praticano la tortura ma non vogliono che si sappia; anzi, per danaro o per complicità ideologica, si procureranno sempre chi farà apparire in patria o all’estero, sul piccolo schermo o sul grande, le loro prigioni un soggiorno confortevole, persino desiderabile. Chiamatela ipocrisia, ma è un fatto che l’aumentata pressione dell’opinione pubblica obbliga i governi a nascondere le proprie vergogne: è pur sempre un omaggio reso, malgrado tutto, alla grande causa dei diritti dell’uomo. La campagna per il rispetto dei diritti umani ha coinvolto ogni settore della vita pubblica, ha modificato ideologie e prospettive politiche a livello nazionale e internazionale. Questi cambiamenti non sono stati promossi da leaders politici o dalla diplomazia, ma dall’opinione pubblica che è riuscita a imporli ai gestori del potere. Gli agenti veri di questa pacifica, non-violenta rivoluzione delle coscienze sono quasi tutti sconosciuti. Essa ha implicato energie e risorse umane di un gran numero di cittadini in paesi di ideologie diverse. René Cassin, giurista e apostolo, uno dei padri fondatori della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo”, premio Nobel per la pace nel 1968, con profonda convinzione diceva che lo strumento più efficace di cui i popoli dispongono è costituito dalle associazioni che danno un orientamento morale all’opinione pubblica. A quarant’anni dalla nascita della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, i governi oggi sanno che devono fare i conti anch’essi con l’opinione pubblica internazionale e con organizzazioni come Amnesty International, la cui azione non ha che uno scopo: far sì che il rispetto dei diritti umani sia avvertito finalmente come una responsabilità internazionale. Oggi ciascun governo sa che è pubblicamente responsabile di quello che fa di fronte alla comunità mondiale, in violazione o per l’attuazione dei diritti umani. I diritti umani non sono più una questione privata dello Stato. C’è ed è sempre più riconosciuto il diritto-dovere delle organizzazioni intergovernative, come le Nazioni Unite, e delle organizzazioni internazionali non governative, come Amnesty, a porre domande, a inviare rappresentanti, ad assistere i prigionieri per motivi di coscienza nei processi, a visitarli nelle carceri, a lavorare per la loro liberazione. E inoltre i governi debbono riconoscere ai loro cittadini il diritto di avere libero accesso a tali organismi.
I diritti umani sono ugualmente importanti in tutto il mondo. Il diritto alla vita è fondamentale in Cile quanto, per esempio, in Cina. Il diritto a non essere torturato è essenziale sia in zone di guerra che in un territorio pacifico. La libertà di parola è fondamentale in un paese povero quanto in un paese ricco. C’è chi, in nome ,della cosiddetta “sicurezza nazionale”, giustifica la violazione dei diritti umani. E’ quanto fanno notoriamente il Cile e il Sud Africa. Nessuno nega agli Stati il diritto di difendersi dai nemici esterni ed interni, ma in un gran numero di paesi ciò che spesso è in gioco non è la vita della nazione, bensì la sopravvivenza di un certo governo. Là dove manca un’ispirazione umanistica nell’esercizio del potere, è forte la tentazione che viene offerta ai governi dalla legislazione di emergenza contro il terrorismo di adoperarla per colpire anche attività politiche pacifiche, se svolte da chi è all’opposizione. Nei regimi democratici le misure di sicurezza introdotte per garantire i diritti di libertà non possono essere applicate in modi che palesemente violino quegli stessi valori a cui pure ci si richiama.
Il dolore, la sofferenza immeritata nel mondo è ancora grande, troppo grande. Il nostro rapporto annuale, appena pubblicato, dice che in questi ultimi anni un governo su tre ha torturato o maltrattato i suoi cittadini. La tortura esiste in paesi con governi civili ed in paesi con governi militari. Prigionieri politici sono incarcerati senza aver avuto un processo sia in paesi con regime di destra che in paesi con regime di sinistra. Sia gli Stati democratici che gli Stati totalitari prevedono la pena di morte per i propri cittadini: a tutt’oggi sono ancora ben centotrenta. C’è, dunque, molto lavoro da fare, ma io non sono pessimista. Malgrado i genocidi, le persecuzioni, gli odi ideologici la causa della dignità umana prevarrà, se continuiamo, sempre più numerosi, ad alzate la voce a favore di coloro che l’hanno persa. Il sogno di Amnesty International è uno solo: far sì che diventi veramente, effettualmente universale la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 27.10.1987.