Appartengo a una generazione diversa da quella di Alfredo Bazoli e di Mario Calabresi e ricordo nitidamente il giorno che mio padre – faceva il giornalista e stava tornando a casa – mi disse che era scoppiata una bomba a Milano. Ero in IV ginnasio e la preoccupazione fu subito di fare un manifesto da esporre all’indomani in tutta la scuola, perché allora tutto si viveva in modo sociale.
Ero invece studente universitario quando ci fu la strage di Brescia e la ricordo come un evento che toccava anche la mia vita privata. Una delle vittime era infatti Umberto Trebeschi, qualcuno di voi lo avrà conosciuto. Trebeschi si occupava di filosofia della scienza ed io ero studente di filosofia della scienza; in Italia quelli che se ne occupavano erano pochissimi e rapidamente trovammo legami, amici comuni e punti comuni. Ancora adesso, come ho raccontato molte volte a Mario, a casa di mio padre ho la sua storia del pensiero filosofico scientifico, uscita per Editori Riuniti con prefazione del matematico Lucio Lombardo Radice e pubblicata dopo la strage.
Oggi ci troviamo in una situazione molto curiosa. Il libro di Mario ci ha riportato a ragionare sugli anni del terrorismo, ed è stato un esame di coscienza tardivo per tante parti dell’opinione pubblica italiana, anche importanti. Però questo atto di coscienza si sta svolgendo mediante una storicizzazione del nostro rapporto con il terrorismo. Meglio ancora – storicizzare è una parola nobile –, ciò che sta avvenendo assomiglia moltissimo a un porre tutto quanto in soffitta. Il terrorismo, purtroppo, nel nostro paese non è morto. Ancora pochi giorni fa è stato arrestato un ex terrorista storico delle Brigate rosse, Cristoforo Piancone. Colto in flagrante durante una rapina, ha tentato ancora una volta di uccidere chi cercava di assicurarlo alla giustizia. Certo, grazie a Dio le vittime del terrorismo oggi sono meno frequenti. Ma l’assassinio di Marco Biagi è molto recente, come recenti sono i cortei favorevoli alla strage di Nassirya, come pure molto vicino è un corteo, fuori da un carcere speciale, a sostegno dei detenuti legati al terrorismo e ai movimenti eversivi, chiusi in quel carcere. Molti osservatori, sui giornali, si chiedono: “Com’è possibile?”. Com’è possibile che ideologie, movimenti e sigle così discreditati continuino ad avere successo? Allora dobbiamo fare un passo indietro e recuperare lucidità.
Nel rapporto con il terrorismo, soprattutto quando ci si trova di fronte a famigliari delle vittime oppure si è presenti, com’è capitato a me facendo poi il cronista, a tanti episodi di terrorismo – vuoi politico nazionale, vuoi politico internazionale –, ci sono sempre due momenti diversi. C’è il momento della fredda, gelida analisi politica, e il momento della guerra, come ha detto Tolstoj. Ma poi c’è il momento dell’analisi familiare domestica, del lutto degli affetti della mancanza del ricordo del bambino Batoli, della mancanza del ricordo del bambino Calabresi. Se saltiamo uno dei due momenti, se saltiamo il momento familiare se saltiamo il momento analitico, non capiamo il passato – e il pericolo di questo può sembrare relativo –; ma non capiamo nemmeno il futuro, e questo sarebbe assurdo.
Il terrorismo politico italiano degli anni Settanta è un frutto della guerra fredda. Durante la guerra fredda noi siamo sempre stati tentati di vedere l’aggettivo – “fredda” – e di dimenticare il sostantivo: “guerra”. In realtà la guerra fredda era una guerra; che si combatteva in altri modi. Il libro classico di storia della guerra fredda è quello dello storico americano John Lewis Gardis, che si chiama proprio The long Peace, la lunga pace. Ma quando si va a scrutare questa “lunga pace”, ci si accorge che per i paesi posti sotto il giogo dell’Unione Sovietica fu una pace assai relativa. Ci furono rivolte, ci furono repressioni. Gli Stati Uniti, poi, si trovarono ad attraversare parecchie guerre. Pensate che solo per mantenere attiva la macchina militare, anche quando non c’erano conflitti, gli americani avevano un morto al giorno: quasi 400 morti ogni anno. Per quanto riguarda l’Europa, nei “favolosi anni Sessanta”, che a volte rimpiangiamo, paesi straordinari come la Spagna, il Portogallo e la Grecia languivano sotto dittature fasciste. Negli stessi anni, la Francia si trovò impegnata in guerre sanguinose: si pensi solo a ciò che avvenne in Algeria. L’Inghilterra ebbe guai non piccoli in Malesia. Mentre poi metà della Germania dell’Est era in guerra con se stessa e aveva quasi un agente ogni due cittadini, la Germania dell’Ovest ebbe il suo terrorismo, che non fu meno feroce del nostro. L’Italia ebbe a lungo uno stato di conflitto strisciante tra le parti politiche, fino a che poi parte dei movimenti nati alla fine degli anni Sessanta approda al terrorismo.
Attenzione però. Sarebbe un errore straordinario ridurre tutto ciò che accadde negli anni Sessanta al terrorismo. Ci furono movimenti che, attraverso grandi speranze, sono stati qualcosa di positivo. Ci fu un fermento che coinvolgeva parte delle democrazia cristiana – penso al discorso di Moro al celebre convegno di San Pellegrino –, del partito comunista – il manifesto del 1969 dice “basta!” con le dittature sovietiche –, e che aveva notevoli fermenti anche dentro il partito socialista. Si pensi poi alla spinta formidabile del concilio Vaticano II. Perché i ragazzi degli anni dei movimenti provengono in larga parte da quei chierichetti che avevano servito la messa in latino e improvvisamente vedono una tradizione millenaria cambiare: vengono buttati nel mondo, con l’idea che cambiare è positivo, che il progresso è una cosa buona e che il mondo lo si deve affrontare, per cambiarlo, positivamente. Al riguardo faccio questa considerazione: la grande tristezza della mia vita, da italiano, è di essere nato con l’“I care” di don Milani – m’importa, m’ impegno – ed essere arrivato a cinquant’anni con il “vaff…” di Beppe Grillo. Ecco, questo è il vero declino del nostro paese, della sua comunità civile. È il passare, nel giro di quattro decenni, dal messaggio: “Impegnatevi, perché dovete migliorare; e migliorando gli altri e la comunità migliorerete anche voi stessi” a: “Voi siete gli unici che non hanno nessun problema, tutti gli altri sono bacati, tossicodipendenti, non pagano le tasse, evadono e, quindi, dovete mandarli a quel paese”.
È lo scontro, il muro contro muro della guerra fredda che porta una parte della generazione degli anni Sessanta al terrorismo. Questa deriva non era per niente scontata. Tra le cause, evidenzierei alcuni elementi, che brevemente proverò ad illustrarvi.
Anzitutto, la demonizzazione dell’altro.
Adesso, quando si leggono gli appelli degli intellettuali che condannarono il commissario Luigi Calabresi, è facile criminalizzarli ecc. Però v’invito, nel giudicare, a – sempre – storicizzare. Cioè, non giudicate mai il male e il bene degli uomini e delle donne del passato, dal vantaggio nel presente. Ricordatevi che la situazione è molto più complessa. Al riguardo a me piace sempre citare un altro episodio e un altro personaggio, che forse alcuni di voi ricorderanno: Danilo Dolci, il sociologo pacifista trentino che, trasferitosi in Sicilia prima a Partitico e poi nella Valle del Pedice, è stato spesso vicino a vincere il premio Nobel per la pace, a causa del suo impegno per i contadini e per i poveri. Dolci, credo nel 1972, pubblica un bel libro di poesie dal titolo Non sentite l’odore del fumo. Qual è la passione che attraversa il libro? Sta tornando il fascismo, sta tornando il fumo di Auschwitz, del camino dei forni crematori e, da pacifista, Dolci richiama a quest’odore del fumo. Sembra un richiamo nobile; e allora a tutti noi sembrò un richiamo nobile. Se ci pensate, contiene un errore di valutazione: l’Italia del 1971 non era affatto sulla soglia di cadere nel fascismo. Ma, se si alza così tanto la soglia dell’allarme politico – al di là di ogni credibilità –, cosa può succedere? Nelle menti più ingenue e più ignoranti, nelle menti più facili a perdersi e moralmente più gracili, tutto diventa possibile. Per cui se gambizzando un capo della Fiat, posso fermare il nuovo ritorno di Aushwitz; e sono moralmente titolato a farlo. Se, per fermare l’uccisione di sei milioni di ebrei, devo uccidere un commissario di polizia, sono moralmente autorizzato a farlo. Si crea uno scarto straordinario quando si lancia, non più il grido di don Milani “M’ interessa”, ma l’urlo: “Non m’interessa”. Perché se tu sei il mio nemico, non devo più ascoltare i tuoi argomenti, ma ti devo uccidere, ti devo eliminare.
Quando ho cominciato ad andare da cronista alle manifestazioni degli anni settanta – ero un ragazzo di sinistra – quello che mi colpì straordinariamente era l’odio. Venivo da Palermo; la prima volta che seguii una manifestazione violenta, nel marzo del 1977 a Roma, c’era una ragazzo incappucciato con un piede di porco – io non avevo mai visto un piede di porco fuori dai fumetti di Topolino – che sfasciava una macchina. Allora sono andato a dirgli: “Scusa, ma perché stai sfasciando questa macchina?”. E mi ricordo fisicamente questo ragazzo, col viso coperto, che si gira verso di me con il piede di porco in mano, incerto se continuare a sfasciare la macchina o sfasciare me, quando un mio collega – più esperto e intelligente di me – mi prese e mi tirò via. L’odio mi impressiona in un modo straordinario. E all’odio dei fascisti, che ammazzarono giusto trent’anni fa Walter Rossi, faceva da specchio l’odio degli estremisti di sinistra, che andavano ad ammazzare poliziotti. Mi spaventò. Era impressionante vedere persone che dichiaravano, in modo assolutamente netto, che loro erano pronti ad eliminare gli altri per le loro idee. Ricordo che all’università di Roma, durante le assemblee, elencarono i nomi dei giornalisti che non erano ammessi all’interno dell’ateneo: c’erano i nomi di giornalisti importanti – io allora ero ragazzetto – e ci misero anche me. Ma siccome a Roma non mi conosceva nessuno, continuai ad andarci perché nessuno sapeva chi io fossi. Poi smisi, perché l’odio era eccessivo: non riuscivo a reggere tanta violenza.
Di fronte alle reazioni al libro di Mario, capisco che il successo del libro, la felice riuscita nell’aggredire un tema, nell’aprire una riflessione nei lettori, è dovuto al fatto che Mario ha avuto il coraggio di affrontare – immagino gli debba essere costato in termini personali moltissimo – il tema centrale del terrorismo, che è l’odio. Perché gli americani oggi sono in difficoltà nella guerra al terrorismo? Perché il terrorismo non è un movimento, il terrorismo è il modo in cui un movimento combatte. Ci sono stati terrorismi nazionalisti, terrorismi religiosi e terrorismi politici. Il terrorista – c’è un bellissimo libro di Conrad che si chiama proprio Il terrorista – non è un comunista, un fascista, un socialista: il terrorista è un individuo che sceglie un modo di combattere. Ci sono anche casi in cui il terrorismo ha vinto. Quando un estremista ebreo conservatore uccide Rabin, il primo ministro israeliano, ferma, per una generazione, il processo di pace in Medio Oriente. In quel caso il terrorismo ha vinto tatticamente. Ma allora il motore di chi sceglie il terrorismo come modo per portare avanti la propria causa politica è l’odio. L’odio si basa sul rifiuto dell’umanità del nemico. C’é un passaggio di un libro, molto simile come approccio di vita al libro di Mario, che è l’autobiografia di Nelson Mandela, in cui Mandela cambia il suo orizzonte politico. Mandela è stato detenuto per 27 anni nel penitenziario di Robben Island. La sua unica interazione di tutti i giorni è con i secondini bianchi, che lo umiliano, lo spingono a tenere i pantaloni corti e a rompere le pietre. Ad un certo punto Mandela dice che – guardandoli, vedendoli per tanti anni passare davanti a lui – capì come non tutti i bianchi fossero uguali. C’erano razzisti, c’erano sadici, c’erano aguzzini, c’erano persone che facevano il loro lavoro. Capii – scrive – che se io non fossi stato capace di stabilire un legame, non con i miei nemici, ma con l’umanità dei miei nemici, non avrei mai portato me stesso, prima, e il Sudafrica, poi, fuori dalle difficoltà in cui versava. Questo è proprio ciò che il terrorista nega.
Il terrorista, di qualunque colore sia, deve negare l’umanità del suo nemico per portare avanti le sue idee. All’inizio, quando ancora la degenerazione del terrorismo non ha completamente coinvolto il movimento, c’era una canzone che, penso, Mario odi e che forse avrà sentito: “La ballata del Pinelli”, che è un atto di accusa durissimo contro suo padre. Vi si dice: “Un compagno non può averlo fatto”; dice cioè che il nemico può uccidere o buttare un anarchico fuori dalla finestra, ma “uno di noi” non può avere fatto un atto di terrorismo. Quando si scopre invece che il tuo compagno ha fatto ammazzare, allora tutta una generazione e tutta una cultura politica è chiamata a un atto di coscienza morale: “Se tu hai ammazzato qualcuno, se tu sfasci la testa alle persone, non puoi stare con me”. Vedo che in sala ci sono parecchi giovani e sono molto contento. Mi sembra di essere come mio padre, quando mi raccontava della seconda guerra mondiale e mi diceva che le cose non erano tutte così semplici come può apparire. Ricordo anch’io che negli di cui stiamo parlando c’erano amicizie, amori, fidanzamenti che su questo “o stai da una parte o stai dall’altra” si rompevano.
Il punto forte del libro di Mario è esattamente questo: come vincere l’odio. Se posso fare un passo avanti, direi che, ancor più, lo snodo è: come vincere il male. Perché in definitiva qual è il frutto dell’odio? È il male. Allora, vedete, quando alla mia età torno a guardare il terrorismo, non mi bastano più le spiegazioni socio-economiche – vi potrei annoiare per tutta la sera con una storia sociale, economica e politica del terrorismo, dalla guerra fredda e dall’Algeria fino a Osama Bin Laden –, non mi basta più una spiegazione che sia semplicemente economica, sociale, materiale o ideologica. C’è il male. C’è il problema del male, ci sono cioè persone, individui e movimenti politici che, a un certo punto, hanno scelto di impugnare il male come strumento di lotta o di avere il male come fine della propria attiviità politica. È – con una parola terribile – il nichilismo, la vera piaga del nostro futuro. Mario ha avuto il coraggio di denunciare questi due aspetti, che stanno tendendo un agguato al nostro futuro: il male e l’odio.
Quando parliamo di odio, possiamo fare ricorso alle nostre normali e consuete categorie di lavoro; quando parliamo di male, entriamo in un campo nel quale i cattolici forniscono un certo tipo di risposta. I cattolici hanno alle spalle una tradizione con cui affrontare il male; i buddisti, lo si è visto in questi giorni in Birmania, hanno un loro modo di reagire al male; i taoisti ne hanno un terzo, non cosi dissimile da quello dei cattolici. “Io sono la via”, dice Gesù nel vangelo; e cosi dice il tao: il tao è la via. Allora l’unica strada contro il male è “la via”; poi ognuno scelga la sua via, ma è la via, cioè un percorso che porta fuori dal male. Mario finisce il suo percorso molto bello in montagna, capendo che l’odio è immobilità, che la via dei cristiani, la via dei buddisti, la via dei taoisti, la via di Mandela che “riconosce” il suo nemico mi porta avanti. Per quanto mi riguarda, non sono persuaso che il terrorismo italiano sia abbattuto e vi confesso che, quando ho visto le reazioni violente che ci sono state – tra cui alcune cose scritte anche di recente – intorno a Mario e alla convinzione, del tutto pacata, che il processo per l’assassinio del commissario Calabresi abbia degli imputati che sono colpevoli, ebbene ci manca ancora qualcosa. A chi afferma che Adriano Sofri e gli altri imputati del processo sono colpevoli, può capitare di venire letteralmente linciato su giornali molto importanti. Questo è il salto che dobbiamo fare. Se infatti, per fortuna, le condizioni sociali sono molto cambiate dagli anni Settanta, il male è però sempre fra noi.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 5.10.2007 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.