Fonte: Seneca. L’immagine della vita a cura di Matteo Perrini, La Nuova Italia, Firenze 1998.
Il maggiore dei filosofi latini, Lucio Anneo Seneca, nacque a Cordova, la più importante città della Spagna romanizzata, da una famiglia della grande borghesia. Il padre aveva all’incirca cinquantaquattro anni quando gli nacque il figlio cadetto, a cui aveva dato il suo stesso nome, e tra i due la differenza di età e di forma mentis divenne anche differenza di idee. Il padre, conservatore e pessimista, vede in Cicerone il modello di eloquenza e di civismo; il figlio guarda al futuro, non ha autori da idolatrare e ha una profonda vocazione filosofica. I rapporti, però, tra padre e figlio furono sempre molto affettuosi. Seneca padre era tutt’altro che un oscuro provinciale. Noto ai posteri con il nome di Seneca il Retore, egli ebbe vivo interesse per l’eloquenza. Compose i suoi scritti su richiesta dei figli, ai quali volle anche dedicarli. Fu autore di libri come le “Controversiae”, declamazioni giudiziarie su fatti desunti dalla cronaca o situazioni ipotetiche, e le “Suasoriae”, orazioni su temi tratti dalla storia o dal mito. Delle prime ne sono rimaste sette e delle seconde ben trentacinque. Esse costituiscono una fonte preziosa di notizie e di giudizi critici, oltre che di “esempi” della produzione retorica dell’età di Augusto e di Tiberio. Seneca padre ne aveva avuta una conoscenza diretta, essendo vissuto a Roma tra il 40 e il 20 a. C., molto tempo prima di prender moglie a Cordova. Lucio Anneo Seneca figlio ebbe due fratelli: Novato, il maggiore, poi adottato da Giunio Gallione, percorse una brillante carriera nell’ordine senatoriale; il più giovane, Mela, giunse a ricoprire nella Roma di Claudio e Nerone la prefettura dell’annona, con l’incarico di procurare l’approvvigionamento a una popolazione turbolenta e in continuo aumento, ed ebbe per figlio Lucano, uno dei più grandi poeti latini. Per dare ai figli la migliore educazione possibile, Seneca padre, ormai prossimo ai sessant’anni, non esitò a lasciare ancora una volta la Spagna, dove si era ritirato da tempo, e a tornare nella capitale per accompagnarli, per così dire, nel loro itinerario formativo. Morirà a oltre novant’anni, all’inizio del regno di Caligola.
Com’era nella tradizione dei matrimoni romani, assai più giovane di lui era la moglie Elvia, donna di alto sentire e di profonda moralità. Elvia non aveva fatto in tempo a conoscere colei che l’aveva messa al mondo ed era stata la sorella maggiore a farle da madre, e ad indirizzarla nella vita, prima che compisse la sua educazione nella casa del marito. La “zia” eserciterà anche sul futuro filosofo un’influenza saggia, fatta di serietà e benevolenza. Tra le braccia della zia il piccolo Seneca fu condotto da Cordova a Roma (Helv. 19, 2), dove Augusto governava ormai da tre decenni.
Le lezioni e i metodi del grammaticus non furono molto graditi all’acuto scolaro, che aveva l’impressione di perdere tempo nello studio di sottili pedanterie o nell’apprendere a memoria il racconto dettagliato che Omero fa delle avventure di Ulisse. Seneca adolescente si trovò finalmente a suo agio quando cominciò a seguire i corsi dei maggiori retori del tempo. Ogni romano colto vedeva nella retorica la premessa al cursus honorum, lo strumento insostituibile dell’attività politica. Ma Seneca, che poi nei dibattiti in senato e nei tribunali dimostrerà di possedere eccezionali doti oratorie, ora vi scorge soprattutto l’occasione di accostarsi a problemi di natura filosofica, al di là di ogni considerazione estetica e letteraria. Egli avverte che la filosofia approfondisce e orienta la ricerca del senso della vita. Sarà così anche per il diciottenne Agostino, per il quale l’esortazione alla filosofia, letta nell’ “Hortensius” di Cicerone, segnò la “prima” conversione, quella dal mondo esteriore all’interiorità della coscienza morale (“Confessiones” 3, 4).
Seneca adolescente frequentò assiduamente le lezioni dei filosofi, con schietto entusiasmo. Tre furono soprattutto coloro che lo iniziarono alla filosofia: Sozione, Attalo e Papirio Fabiano, maestri diversi per interessi e tipi di personalità. Sozione, filosofo alessandrino, dava il primato al problema del destino ultimo dell’uomo e al processo di purificazione a cui ogni uomo è tenuto, giudicando con i pitagorici obbligo morale un regime alimentare rigorosamente vegetariano (Ad Luc. 108, 17-22). Seneca per un anno si astenne completamente dal toccare carne e vi rinunciò solo per le insistenze di suo padre, preoccupato della salute malferma del figlio e forse ancor più del decreto del 19 d.C., che comminava pene severe, a cominciare dall’espulsione, ai seguaci dei culti egiziani e giudaici giudicati estranei alla tradizione romana (Tacito, Annales 8, 85 e Svetonio, Tib. 36). Seneca scrive che il padre “non calumniam timebat” (Ad Luc. 108, 22), ma le bizzarrie del giovane studente potevano indurre i malevoli ad assimilarlo ai seguaci dei culti proibiti dal decreto imperiale e questa era un’eventualità preoccupante, comunque disdicevole per chi volesse far carriera. D’altra parte, l’anziano padre “odiava la filosofia” (ibid. 108, 22), verso la quale, invece, nutriva una spiccata simpatia la madre Elvia – anch’essa in gioventù contrastata dal marito nella sua inclinazione a darsi una vera cultura umanistica (Helv. 17, 3-4).
Il vero maestro di Seneca fu Attalo, il quale riprendeva con energia l’appello della scuola stoica alla libertà morale. Le sue parole suonavano cariche di anticonformismo ai giovani rampolli dell’aristocrazia romana. Di quella parte della società opulenta della capitale che, avendo i mezzi per farlo, si permetteva piaceri, lussi e sfrenatezze di ogni genere, Attalo metteva a nudo il vuoto, la degradazione, la condizione di reale servitù. È veramente ricco – diceva – chi è saggio; egli solo possiede una regalità che splenderebbe quand’anche il suo status giuridico fosse quello di uno schiavo. Seneca pensava che il suo maestro fosse più che un re, in quanto la sua saggezza gli conferiva il diritto di ammonire e censurare i potenti di questo mondo: Attalo doveva, pertanto, apparire pericoloso al “palazzo” e, Seiano, il primo ministro di Tiberio, lo bandì da Roma. Attalo, che veniva quasi certamente da Pergamo, una delle capitali dello stoicismo, insegnò a Seneca anche a distinguere fra erudizione e cultura e a cercare l’unità della persona nel carattere morale, senza il quale le conoscenze diventano dispersive e rischiano d’infiacchire lo spirito invece di irrobustirlo.
Attraverso il terzo dei suoi maestri, Papirio Fabiano, Seneca si trovò a essere, indirettamente, un discepolo dei Sestii. Come scrittore, Papirio Fabiano è paragonato dall’ex-allievo a Cicerone e a Livio per lo stile (Ad Luc. 100, 9 e 40, 12). Egli seppe unire ciò che nell’antichità sembrava essere in antitesi, filosofia ed eloquenza. Nemico delle sottigliezze, non era quel che si dice un “cattedrattico” (Brev. 10, 1); portava al popolo le sue idee, ma non era uomo da sollecitare facili consensi (Ad Luc. 52, 9). Fabiano comunicò al futuro autore delle “Naturalium quaestionum” il gusto per lo studio dei fenomeni del cosmo e per l’eloquenza appassionata. I maestri di pensiero e di vita morale di Seneca adolescente avevano qualcosa in comune: erano tutti in rapporto, in misura diversa, con la scuola dei Sestii (Nat. quaest. 7, 32, 2), che poneva il vigore romano non più al servizio della difesa della libertà “dentro” lo Stato, ma “dallo” Stato.
Sui vent’anni Seneca, “riportato alla vita della città” (Ad Luc. 108, 15) per volontà del padre, si disponeva a esercitare le funzioni pubbliche che preparano alla carriera senatoriale; la salute malferma, però, ben presto l’obbliga a mettersi dolorosamente in disparte. Febbri persistenti si accompagnano a una bronchite catarrale ormai cronica, provocando un dimagrimento estremo e una profonda astenia psico-fisica. In questo stato di depressione la “via d’uscita” del suicidio gli si prospettò tentatrice; ma il pensiero della sofferenza che avrebbe arrecato al padre, così avanti negli anni, lo trattenne. Scrive nobilmente il Nostro: “Mi diedi l’ordine di vivere, perché qualche volta il vivere è segno di coraggio. Alla filosofia son debitore della vita; ma questo è ancora il dono più piccolo che la filosofia mi ha fatto” (ibid. 78, 3). La cura classica era allora andare in crociera e svernare in Egitto. Seneca partì alla volta dell’Egitto, probabilmente nel 25. Lì fu ospite graditissimo per sei anni della zia materna, divenuta da una decina d’anni moglie di Gaio Galerio, prefetto di quella provincia.
Il soggiorno egiziano fu importante. Seneca trovò in Alessandria, vera capitale culturale dell’impero, molteplici stimoli. Conobbe la civiltà dell’Egitto, i suoi miti politici e religiosi, i suoi apporti scientifici. Da una glossa di Servio all’ “Eneide” apprendiamo che Seneca compose “La geografia e la religione dell’Egitto”, poi utilizzata nelle “Naturalium quaestionum”. In Alessandria era allora in pieno svolgimento il tentativo di giustificare le credenze egiziane alla luce della filosofia ellenistica, insegnando a cogliere la verità nascosta nel linguaggio simbolico dei miti. Ma v’era pure, in parallelo, ed in quegli anni aveva raggiunto la massima influenza, il giudaismo alessandrino. Viveva in Alessandria il maggior rappresentante di quella corrente, Filone l’Ebreo, per il quale il tema centrale era il rapporto tra ragione e fede, tra il logos umano che muove alla ricerca di Dio e il Logos divino che si comunica all’uomo. Per la prima volta la filosofia greca era considerata non come qualcosa in sé concluso, il prodotto di una civiltà, ma come qualcosa di perennemente valido, una specie di Antico Testamento dei non-ebrei. Atene costituiva in questa prospettiva la testimonianza grandiosa dell’umana ricerca di Dio, intrinsecamente orientata all’attesa di una rivelazione. Seneca conobbe di persona Filone? Non ne abbiamo la prova. E in che misura ebbe notizia delle sue dottrine? Noi sappiamo che Filone usa con profonda simpatia il linguaggio stoico, di cui Seneca si era nutrito, anche se nei suoi scritti grandeggia il Dio unico e trascendente. Seneca, d’altra parte, non abbandona il panteismo stoico, anche se sull’uno o l’altro punto l’oltrepassa. Vi sono, insomma, affinità di concetti e di espressioni tra i due autori, come lo Scarpat ha ben documentato (“Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente ebraico e cristiano”, Paideia, Brescia 1983, seconda edizione), anche se l’uno non fa riferimento all’altro. Per entrambi, però, la filosofia culmina in una teologia e le Idee platoniche sono pensieri di Dio. Quest’ultima concezione, svolta da Seneca nella “Lettera 58” e nella “Lettera 65”, sarà fatta propria da sant’Agostino nel “Liber de diversis quaestionibus” 83 e altrove.
Tra la primavera e l’autunno del 31 d. C. Seneca intraprende il viaggio di ritorno a Roma. Egli ci ha raccontato quella tragica traversata, durante la quale morì Gaio Galerio e la moglie rischiò di cadere in mare, durante una tempesta, per non abbandonare insepolto alle onde il corpo del marito (Helv. 19). La salute di molto migliorata, l’attenta esplorazione del mondo ellenistico da un eccezionale punto di osservazione come Alessandria, l’intensa ripresa degli studi sono i frutti del soggiorno in Egitto. Ma a Roma la lunga assenza lo aveva tagliato fuori dalla vita pubblica: a trentun anni Seneca era ancora un homo novus. Fu ancora una volta la zia a sollecitare gli amici del marito defunto, perché le grandi doti del nipote fossero messe al servizio della cosa pubblica.
Comincia allora il “decennio mondano” di Seneca, cioè il periodo compreso fra il 31 e il 41, in cui diventa preminente l’attività politica e forense. Questore a partire dal dicembre del 33, l’anno seguente egli era senatore di diritto; fu poi edile e tribuno della plebe. L’attività oratoria esercitata da Seneca nel periodo “mondano” ci sfugge del tutto. Le preoccupazioni filosofiche permangono, e non potrebbe essere altrimenti, ma come sottofondo. L’appartenenza allo stoicismo non è rinnegata – come è attestato dall’unico scritto di quel tempo, l’ “Ad Marciam” – ma non è al primo posto nei pensieri di Seneca. Per la sua eloquenza – straordinariamente efficace, ricca di sfumature e di mordente – Seneca senatore e avvocato si acquistò grande prestigio e amici; ma anche, ovviamente, destò l’invidia e la maldicenza di molti nei suoi confronti. In poco tempo vide accumularsi, infatti, tra le sue mani “danaro, onori, successo” (Marc. 5, 4).
Gl’inizi del regno di Caligola, figlio di Germanico, sembravano quanto mai promettenti e Seneca, politico di larghe vedute e avvocato di successo, si presenta alla società romana con un trattatello di “filosofia del dolore”: “Ad Marciam, de consolazione”. In quelle pagine, oscillanti tra suggestioni oratorie e stringatezza espositiva, l’Autore cerca la giusta misura e non sempre la trova. Si tratta pur sempre di un’opera prima. Il genere scelto – la “consolazione” di una madre che ha perduto due figli e che si è chiusa in un dolore muto, ostile – è a cavallo tra letteratura e filosofia. “Egli sa dosare con abilità l’elogio dei tempi nuovi, la riprovazione per la scelleratezza del passato, il silenzio sulle responsabilità di Tiberio, l’approvazione per le nuove direttive” (I. Lana, “Lucio Anneo Seneca”, Torino 1955, p. 88). Politicamente sembra uno scritto innocuo, ma la dedicataria del dialogo è una donna il cui passato costituisce di per sé una lezione di coraggio: è la figlia diletta di quell’Aulo Cremuzio Cordo posto sotto accusa dagli scherani di Seiano per un delitto d’opinione, avendo elogiato i cesaricidi Bruto e Cassio. Cremuzio si difese da sé e poi, certo della condanna, si lasciò morire d’inedia. I suoi libri furono – fatto nuovo e inusitato – bruciati (la storia registrerà molti casi di questi dissennati roghi!); tuttavia, grazie alla figlia che li nascose e li fece ripubblicare, sopravvissero. “Una ragione in più – commenta Tacito – per deridere la stupidità di coloro che, siccome in un determinato momento dispongono del potere, credono di essere in grado di disporre della memoria storica anche delle età successive” (Ann. 4, 35). È assai significativo che Seneca già nel suo primo scritto abbia posto sul tappeto, contro gli arbitrii della tirannia, il problema della libertà di espressione e di coscienza. Il Caligola dei primi mesi pareva ricollegarsi al miglior Augusto, ma ben presto ci fu un capovolgimento di rotta, che divenne esplicito nel 39: il segno inequivocabile fu la “riabilitazione”, fatta dinanzi al senato dall’imperatore in persona, della monarchia di Tiberio e della sua infausta politica interna. L’orientalismo, la follia omicida, le perversioni dell’imperatore si mostravano ormai in tutta la loro evidenza. La paura e l’incertezza nel vivere penetrarono allora negli animi di tutti. Anche Seneca scampò per poco alla morte. Caligola, che disprezzava le idee politiche e persino lo stile delle orazioni di Seneca, irritato per un discorso che questi aveva tenuto alla sua presenza in senato, ne aveva decretato la morte. Il Nostro fu salvato solo dall’intervento di una favorita del principe, la quale fece notare che Seneca, gravemente ammalato, sarebbe morto ben presto.
Quando Caligola fu assassinato nel febbraio del 41 dai suoi amici più stretti, Seneca sentì svanire un incubo. Tuttavia la dipendenza di Claudio da Messalina non faceva sperare nulla di buono. Scrive Italo Lana: “Se Livilla e Seneca … si fossero accordati in precedenza per strappare Claudio all’influenza di Messalina e dei suoi liberti, non può dirsi; certo è che, in pratica, essi miravano o, almeno, sembrava che mirassero proprio a questo scopo” (“Lucio Anneo Seneca”, Loescher, Torino 1955, p. 121). Negli anni del terrore Seneca aveva lavorato intorno a un’opera sistematica, il “De ira”; ora, con la scomparsa del vero destinatario, il libro era stato portato a termine ed il bersaglio, Caligola, “tiranno di quotidiana demenza”, poteva essere chiamato per nome. Tuttavia il dialogo era invitante anche per le ultime aggiunte, velatamente allusive nei confronti del nuovo imperatore, Claudio, uomo notoriamente facile all’ira (Svetonio, Claud. 38). Il che significa – sembrava insinuare maliziosamente Seneca – essere non uno che talora si adira, un ‘irato’ ma un ‘iracondo’; e tra le due parole passa la stessa differenza che tra un ‘ubriaco’ e un ‘ubriacone’ (Ira 1, 4, 1). Claudio, che era un uomo di lettere, sicuramente lesse lo scritto e si sentì messo alla berlina. La qual cosa indebolì la posizione di Seneca. Così, mentre il filosofo aspirava alla questura o al consolato, essendo maturi i tempi per ricoprire quelle magistrature, su di lui si abbatté la sventura di una condanna a morte, anche se mutata poi, per l’intervento personale dell’imperatore, nella relegazione in Corsica e nella confisca di metà del suo patrimonio.
In verità, Seneca era soltanto il capro espiatorio di una vera e propria congiura di palazzo. Messalina, la corrottissima moglie dell’imperatore, vedeva la più pericolosa rivale in Giulia Livilla, la giovane nipote che Claudio aveva richiamata dall’esilio, e decise di eliminarla. Occorreva, però, un’accusa che indispettisse l’imperatore, il quale aveva Livilla nelle sue grazie e ne era geloso, e che comportasse altresì pene gravissime. Per queste ragioni nel 41 Livilla, che fra l’altro non era vincolata da alcun legame familiare, fu incriminata di adulterio e, dovendole dare un complice, la scelta cadde su Seneca, uno degli amici più influenti della famiglia di Germanico. Per il clan di Messalina Seneca era un uomo pericoloso, proprio perché leader di quella componente liberale del senato, che criticava l’accentramento del potere nella domus imperiale e cercava una legittimazione del suo programma politico anche attraverso il mito di Germanico. Svetonio riferisce che, pur essendo incerta la colpa di Livilla, non le fu concesso affatto di difendersi (“crimine incerto nec defensione ulla data”, Claud. 29). Livilla fu mandata in esilio e Seneca sperimentò sulla propria pelle “i metodi barbari praticati nella cosiddetta società civile”, quando chi detiene il comando vuol distruggere un uomo. Aveva quarantun anni e si trovava di nuovo fuori gioco. E lo sarebbe stato ancora per otto anni.
Il colpo inferto a Seneca fu duro. Poche settimane prima della condanna, era morto, tra le braccia della nonna Elvia (Helv. 2, 5), il figlioletto nato dal primo matrimonio. Probabilmente qualche tempo prima era morta anche la moglie di Seneca. La Corsica gli fece una pessima impressione: il paesaggio gli apparve dirupato da ogni parte, gli abitanti selvaggi, il clima insopportabile (ibid. 6, 5). Amareggiato e deluso, Seneca torna allora ad accarezzare l’ideale che aveva entusiasmato la sua giovinezza. La filosofia, che egli avrebbe voluto al servizio del bene comune e dello Stato, gli servirà ora per sopportare la sventura. È come lanciare una sfida a se stesso e al potere. La madre, però, non si lascia ingannare dall’ostentata sicurezza del figlio, che fa di tutto per apparire sereno e forte di fronte alla disgrazia immeritata. “Sono diventato sapiente? Nient’affatto. Dico solo – e questo basti a lenire ogni pena – che ora mi sono messo nelle mani dei sapienti e, non essendo ancora capace di aiutarmi da me, mi son rifugiato in un accampamento altrui. Sono nelle mani dei sapienti, di gente che sa ben proteggere sé e i suoi” (ibid. 5, 2). Egli è convinto che si sia voluto abbattere in lui il campione di una causa giusta e pertanto deve arrossire dell’esilio non chi vi è stato mandato, ma chi gli ha inflitto quell’iniqua condanna. Nasce così lo scritto “Ad Helviam matrem, de consolazione”.
Dopo un paio di anni, però, Seneca è indotto a scrivere anche la consolazione “Ad Polybium”, il potente liberto a libellis (Pol. 6, 5), cioè incaricato di passare i fascicoli delle pratiche e delle suppliche che giungevano all’imperatore Claudio e di esprimere il suo parere, spesso determinante. A Polibio, che Seneca dice uomo colto, “la cui amicizia non solo poteva sicuramente giovare, ma era desiderabile per se stessa” (ibid. 2, 4), era morto il fratello. Di qui l’occasione dello scritto, nato dal timore del peggio: Seneca temeva di fare la fine di Livilla, come lui esiliata e poi fatta morire, a quanto pare, di fame. Come non trepidare a ogni avvistamento di nave? Gli sgherri di Messalina avrebbero potuto fare di lui un’altra vittima. Era perciò urgente, rendersi in qualche modo presente all’opinione pubblica della capitale attraverso uno scritto dedicato a un uomo di corte, e rivolgersi all’imperatore, che s’apprestava a una spedizione contro i Germani e i Britanni – si era dunque nell’anno 43 (ibid. 13, 2) – per indurlo ad assolvere o a concedere la grazia. Per il momento, però, era già tanto salvare la vita e riservare se stesso a un domani migliore. Se nello scritto “Ad Helviam” si evocavano i grandi resistenti del passato, i campioni della libertà contro la tirannia, qui si ricorda invece come esemplare la decisione di chi usò clemenza nei loro confronti. Perché Claudio non dovrebbe fare quello per cui sono giustamente celebrati, anche dagli avversari, Cesare e Augusto? Caligola soccombette alla tentazione orientalista, Claudio torni a battere la via di Augusto, scegliendo diritto e clemenza. Se lo farà, l’imperatore non susciterà odio e desiderio di vendetta, ma avrà con sé tutti i leali servitori dello Stato, accrescendo così con il bene comune la sua gloria. Come si vede, Seneca non rinuncia, neppure quando è nel pericolo più serio, ai suoi ideali etico-politici e nel momento in cui stende una supplica lancia un monito, indica la prospettiva di un cammino. La sostanza del discorso è, in fondo, lineare e coraggiosa: egli proclama apertamente la propria innocenza, chiede la cancellazione dell’iniqua sentenza di cui è vittima, difende il suo diritto a essere fedele agli ideali di libertà, invita l’imperatore a una scelta politica che obbedisca ai più alti valori della tradizione romana. Ma l’ “Ad Polybium” è anche l’ammissione di una sconfitta: l’incubo della morte violenta o di un esilio senza fine ha prostrato il filosofo e messo a tacere il suo orgoglio stoico.
In ogni modo Polibio non accolse la supplica e Seneca non si fece più illusioni. La relegazione in Corsica sarebbe durata otto anni. Nell’esilio il tempo scorreva con inesorabile lentezza, anche se all’esule non mancava il conforto di un’assidua corrispondenza con gli amici più cari e in primo luogo con il fratello Novato. Frattanto egli si occupa di letteratura e dello studio di fenomeni naturali. Fu scritto probabilmente nell’esilio il “De forma mundi”, trattato che si leggeva ancora al tempo di Cassiodoro e di Boezio. Nella capitale, però, volge al termine il predominio di Messalina, vittima delle sue dissolutezze e della temerarietà irridente con cui si burlava di Claudio. Messalina fece uccidere Polibio, a quanto pare a causa della sua fedeltà verso Claudio (Dione, Rom. hist. 60, 31), ma l’assassinio suscitò l’insurrezione dei liberti della domus imperiale e affrettò la sua fine. Pochi mesi dopo, al principio del 49, Claudio sposa l’avvenente, astuta nipote Agrippina Minore. Divenuta imperatrice, l’ultima figlia di Germanico volle subito riabilitare la memoria della sorella Livilla e perciò dispose il richiamo di Seneca dall’esilio. Era la primavera del 49. Con eccezionale tempismo il 25 febbrario del 50 Agrippina indusse l’imperatore ad adottare il figlio del precedente matrimonio, Domizio Enobarbo. Questi assunse, perciò, il nome di Nerone e, in quanto figlio maggiore dell’imperatore, benché adottivo, divenne legalmente l’erede designato al trono, escludendo dalla successione il figlio di Claudio, Britannico, di pochi anni più giovane. Nerone, frattanto, prima della sua elezione al trono sposava la figlia di Claudio, Ottavia, che però rimase solo la sua moglie legale, non essendovi stato alcun rapporto coniugale tra i due.
In quel felice intervallo tra il rientro dall’esilio e le future incombenze, Seneca si recò in pellegrinaggio ad Atene, la capitale storica e ideale della filosofia. È assai probabile che tra il 49 e il 50 Seneca si sia sposato in seconde nozze con la dolce e assai più giovane Pompea Paolina, che egli amò e da cui fu teneramente riamato. Il filosofo credeva di essere finalmente libero, ma Agrippina, che lo aveva fatto rientrare dalla Corsica, lo voleva precettore del figlio Domizio Enobarbo, il futuro Nerone, e suo consigliere. Accettando quell’invito pressante, Seneca si rituffava nella vita pubblica, verso la quale lo spingevano del resto la sua stessa coscienza, le sollecitazioni e le attese di tanti amici, la chiara percezione di ciò che si doveva fare per il rinnovamento della società e dello Stato.
Nei cinque anni tra l’inverno del 49 e l’autunno del 54 Seneca fu per Nerone il professore di retorica e non – come si crede – il suo maestro di filosofia (Tacito, Ann. 13, 2). Anzi Agrippina proibì a Seneca di insegnare al figlio filosofia (Svet., Nero 52). Seneca lavorò con appassionato impegno a far nascere nell’allievo la coscienza dell’impero e dei compiti richiesti a chi deve esercitare il potere dal più alto posto di responsabilità. Seneca era il più autorevole, non certo l’unico maestro di Nerone; erano, infatti, in parecchi a occuparsi della sua formazione. Il dotto Cheremone, sacerdote egiziano che aveva adottato la filosofia stoica (Seneca l’aveva conosciuto ad Alessandria nel suo lungo soggiorno?), e Trasillo dovevano dare al giovane, designato al principato, un’informazione sulla cultura ellenistica e certamente ebbero su di lui un’influenza che limitò fortemente quella di Seneca. Sestio Afranio Burro, un soldato di carriera nativo della Gallia Narbonese, fu nominato prefetto del pretorio e incaricato d’istruire Nerone in materie militari.
Ben presto, però, Seneca si rese conto che da Agrippina non gli sarebbe venuto l’aiuto sperato. Anzi l’esercizio del difficile precettorato creò ben presto per l’insegnante di retorica occasioni continue di contrasto con l’invadente first lady dell’impero. L’unica superstite della famiglia di Germanico era vissuta per lunghi anni nell’angoscia e nell’incertezza e presto, per un torbido processo di rivalsa, sarebbe stata lei a diffondere, a sua volta, angoscia e paura intorno a sé. Certamente la scelta di Seneca era stata felicissima. Riabilitando Seneca, Agrippina si procurava la carta migliore nel gioco spregiudicato per assicurare il supremo potere al figlio. Quel nome, infatti, rassicurava i senatori ed era diventato il simbolo stesso delle malefatte del regime di Messalina. Ma per Seneca il compito assunto per meglio servire il bene comune aveva tutti i caratteri di un’audace scommessa, essendo pericolosamente difformi dalle sue intenzioni tutte le condizioni in cui egli era chiamato a operare, a cominciare dalle tendenze e dai costumi dell’imperiale allievo, a cui era mancata da sempre una figura paterna e un’autentica formazione morale.
Gli storici antichi sono concordi nel dire che Claudio morì avvelenato e indicano in Agrippina la mandante del delitto. Quale che fosse la causa della morte, è certo che Agrippina dissimulò il decesso sino a quando furono prese le misure necessarie ad assicurare la successione al trono di Nerone. Il 13 ottobre del 54, a mezzogiorno, diramato l’annuncio della morte, Nerone, accompagnato da Burro, esce incontro alla coorte di guardia. A un cenno del prefetto, i soldati lo acclamano imperatore in forza di una successione legale preparata con una regia che non voleva lasciare nulla al caso. Poi ci fu l’investitura del senato. Ai funerali di Claudio il nuovo Cesare pronunciò un deferente elogio del padre adottivo. Era un obbligo di pietà inevitabile e inevitabilmente menzognero. Nei giorni seguenti il senato, su richiesta di Agrippina, innalzò Claudio al rango di “dio”, come per Augusto, conferendo a lui l’apoteosi e ad Agrippina l’ufficio di sacerdotessa del nuovo culto. Era un insulto al senso religioso e al senso comune e Seneca, che aveva sofferto otto anni di esilio per la dabbenaggine di Claudio, prono ai voleri di Messalina, si prese la rivincita, mettendolo in ridicolo con uno scritto impietosamente caricaturale. Il pamphlet, in prosa e in versi, si ricollega al genere delle cosiddette satire menippee, di cui costituisce l’unico documento di una certa ampiezza giunto a noi quasi integralmente. Il titolo stesso, “Apokolokyntosis”, è una parodia della parola apoteosi e significa “zucchificazione”, “metamorfosi in zucca”: il mutarsi in zucca del divo Claudio, dopo buffonesche disavventure nell’oltretomba. Il pamphlet, forse scritto nei giorni che seguirono immediatamente la morte di Claudio, circolò in un’edizione anonima, o privatamente, ed ebbe enorme successo. La derisione fu così universale che l’istituto stesso della consacrazione dell’imperatore defunto ne fu screditato per sempre, e giustamente. Non si tratta, però, solo di uno scritto in cui si dà libero sfogo al proprio risentimento e al proprio estro. L’operazione aveva un chiaro significato politico: anche Claudio prese alcuni buoni provvedimenti, ma non si dette precise regole nell’esercizio dei suoi poteri e finì con l’avere per rectores donne e liberti. Per non ripetere gli errori e i delitti del recente passato, occorre, dunque, innanzi tutto chiamare gli uni e gli altri col loro nome. L’ “Apokolokyntosis” è il risvolto scherzoso di un impegno programmatico serio; è la pars destruens di quel progetto di società nuova che Seneca aveva messo sulla bocca del giovane imperatore nel discorso della corona. Con quel discorso, di grande levatura politica e di forte carica innovativa, Seneca serviva lealmente lo Stato e il popolo romano e rimaneva fedele alle sue più radicate convinzioni. Dione riferisce che il discorso tenuto in senato piacque a tal punto che i senatori decretarono che “esso doveva essere scritto su una tavoletta d’argento ed esser letto ogni volta che i nuovi consoli entravano in carica” (Rom. hist. 61, 3).
Il discorso di Nerone al senato era il miglior programma di buon governo che in quel momento storico si potesse delineare e tutti sapevano che per bocca di Nerone aveva parlato Seneca. Le meditate convinzioni dell’illustre filosofo e politico sul modo di reggere la cosa pubblica prendevano forma di un solenne impegno assunto dall’imperatore. Il filosofo al potere, malgrado le limitazioni e le tenaci resistenze con cui dovette fare i conti, inaugurò quel “quinquennium Neronis” (ottobre 54 – marzo 59) che dall’antichità fu, a giusto titolo, esaltato come uno dei periodi più felici dell’impero. Le linee programmatiche enunciate nel discorso d’insediamento ben presto si tradussero in un insieme organico di concrete scelte politiche e di proposte di legge, le quali attestano un sincero slancio riformatore in forte anticipo sui tempi: non poche di esse, infatti, trovarono opposizione anche nelle correnti più avanzate del senato. La politica interna inaugurata da Seneca ha il suo perno nella leale collaborazione tra il principe e il senato e persegue tre grandi obiettivi: istituire lo Stato di diritto, favorendo un’amministrazione rigorosa, non demagogica, e misure atte a scoraggiare dilazioni e ruberie; ricercare la giustizia nei rapporti sociali ed economici; apprestare una legislazione finalmente umana nei confronti delle classi più diseredate e, in particolare, degli schiavi.
Seneca vuol ristabilire veramente la diarchia, consociando principe e senato nel governo della cosa pubblica. Egli sapeva bene che una parte dei senatori era puritana e oltranzista, quella capeggiata dallo stoico Trasea Peto, e un’altra era ancora “claudiana”, prona ai voleri del dominus, disposta ad allearsi all’uno o all’altro partito di corte – e quindi anche ad Agrippina – nella speranza di trarne il maggior profitto; tuttavia gli parve sempre preferibile correre il rischio di essere posto in minoranza da un senato talora miope, nel rifiutare il consenso a illuminate innovazioni, che spadroneggiare nello Stato come suggeritore di un principe il cui potere fosse incontrollato. Si capisce, allora, perché la dichiarazione programmatica del “ministero Seneca” iniziasse un nuovo modo di far politica, che in realtà andava oltre la visione di Augusto ed era nettamente contro gli intenti di Agrippina. Nerone dichiarò di voler abolire le procedure giudiziarie di carattere segreto e discrezionale, esercitate “intra cubiculum principis”, fin dal tempo di Tiberio, e annunciò che avrebbe voluto una più precisa separazione fra le attività amministrative dipendenti dalla domus e quelle relative al governo dello Stato, lasciando al senato, ai magistrati e ai cittadini il libero esercizio delle loro rispettive attribuzioni (M. A. Levi, “L’impero romano”, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 254). I delatori, strumenti della polizia di Tiberio e di Gaio, si videro ridurre subito drasticamente le loro formidabili possibilità d’intrigo e di ricatto. Nel 55, assumendo il consolato, Nerone volle ristabilita la parità tra i due consoli e abolì anche il giuramento in acta con il quale il principe, qualunque magistratura avesse, esercitava poteri che esorbitavano quelli degli eventuali colleghi. In esecuzione del programma senecano di governo, Nerone è indotto a mostrare “un ragionato rispetto delle tradizioni repubblicane” (ibid. p. 256), rinunciando a onori ritenuti eccessivi. Seneca nel 58 convinse il giovane imperatore a seguire l’esempio di Augusto, non accettando l’offerta del consolato perpetuo. Né poteva farlo finché non si ripudiavano apertamente le idee programmatiche senecane del nuovo regime: la permanenza continua dell’imperatore nel consolato avrebbe, infatti, abolito il principio di collegialità e avrebbe avuto un carattere apertamente monarchico. Al senato, nel primo quinquennio del nuovo regime, furono restituite antiche prerogative e Seneca provvide anche a far approvare una legge che metteva a disposizione dei senatori andati in rovina una somma cospicua (almeno 125 mila denari all’anno), perché mantenessero il censo prescritto per appartenere alle liste di quel consesso.
Una delle malattie che aveva accelerato la decadenza della repubblica, rendendo la corruzione in qualche modo obbligatoria, era originata dal continuo bisogno di denaro della classe politica, assillata dalle spese necessarie ad affrontare le campagne elettorali e, soprattutto, a procurarsi con i donativi più vari il favore del popolo. E, naturalmente, più magnifiche erano le publicae cenae, più sicura era l’elezione di chi finanziava quei divertimenti. Seneca non ignorava che Roma imperiale aveva ereditato dalla repubblica una gerarchia censitaria e la pratica delle clientele. Era un’eredità pesantemente negativa ed egli, con intelligenza, cercò di favorire i giovani che avevano gusto e preparazione per la politica, ma modeste disponibilità finanziarie. Fu per consentir loro l’accesso al cursus senatoriale che Seneca fece approvare una disposizione per cui i questori non erano più obbligati, nel prendere possesso dell’incarico, a pagare giochi pubblici. Seneca va anche più in là: egli tendeva, infatti, a sottrarre all’aristocrazia le diverse forme di spettacoli e di elargizioni al popolo e a trasferirle al principe. Una città come Roma non si può certo governare pretendendo di imporre alla gente le massime di una comunità di saggi. Il filosofo era troppo attento psicologo e politico per non riconoscere che il potere deve anche far spettacolo ed esibire un certo fasto, facendo ricorso persino all’effimero e a quelle forme di divertimento che più fanno colpo sugli stulti. Ma occorre ridurre la frequenza dei giochi e i costi, riservandoli solo alla magnificenza del principe. Spetta a costui trasformare un costume e una necessità non a sollecitazione dei peggiori istinti della massa, ma a testimonianza di comprensiva, umana liberalitas (Svetonio, Nero 10). La proibizione di indire giochi di qualsiasi tipo fu estesa ai governatori, anche se di rango senatoriale, perché non avessero poi il pretesto di imporre nuove tasse. Nella mente di Seneca il rapporto tra Stato dilapidatore del denaro pubblico e Stato fiscalmente oppressivo era direttamente proporzionale.
Gli odiati strumenti di drenaggio del denaro dalle tasche dei contribuenti erano nelle mani dei pubblicani, che gestivano l’appalto delle imposte. Seneca fece in modo di ridurne i profitti, le illegalità, i privilegi. Per legge i contratti d’appalto furono finalmente resi pubblici, furono stabilite esenzioni a favore di chi prestava il servizio militare e, nelle province, i processi contro i pubblicani furono affidati ai governatori.
Seneca al potere significò, infine, un’apertura umanissima a quell’enorme massa di uomini e donne posti finora dalla legge stessa fuori dalla comunità politica. Bisognava passare da un orientamento morale e culturale a favore degli schiavi a concreti interventi legislativi. I provvedimenti varati dal Senato poggiavano su due considerazioni che Seneca aveva illustrato da anni. La prima è che una società politica prospera se sviluppa nel suo seno una sempre più profonda “conciliatio hominum”, una relazione d’amicizia sia tra le persone, sia tra i ceti sociali. La riconciliazione tra gli uomini nasce, però, dallo sforzo di attuazione della giustizia e, a sua volta, genera una disposizione attiva alla giustizia. La schiavitù, invece, tende a perpetuare la frattura, la scissione, l’odio fra la supercittà dei liberi e la sottoumanità degli schiavi. La seconda considerazione è che per non perpetuare un’eredità negativa del passato, come la schiavitù, occorre porre premesse idonee a favorire quel cambiamento di mentalità, a cui ci obbligano la coscienza morale e la stessa ragione politica. Chi sta ai fatti e ragiona sui fatti sa che la schiavitù non è una “natura”, ma una “congiuntura”, un frutto del caso o di ingiuste strutture dure a morire. L’impostazione senecana del problema rischiò di essere cancellata quando nel 57 fu votato, in seguito a un episodio criminoso, un senatoconsulto che puniva con la morte tutti gli schiavi, persino quelli affrancati per testamento, che si trovassero nella casa di un padrone assassinato dai suoi schiavi (Tacito, Ann. 13, 32). Tuttavia qualche tempo dopo il “consilium principis”, per volontà di Seneca, rifiutò validità legale alla disposizione secondo cui poteva essere ritolta la libertà agli schiavi affrancati, che fossero giudicati ingrati verso i loro padroni. Per quanto grande possa essere la distanza fra Seneca e Paolo di Tarso, sulla questione della schiavitù l’autore del trattato “De beneficiis” è indubbiamente lo spirito del mondo classico più vicino a colui che ha scritto la mirabile “Lettera a Filemone”, una delle pagine più belle del Nuovo Testamento.
In politica estera è più difficile individuare in modo preciso quale fu l’azione del “ministero Seneca” tra il 54 e il 62. L’impressione d’insieme che si ricava dalle vicende di quegli anni è che la direttiva prevalente fosse il mantenimento della pace nella sicurezza. Occorreva privilegiare la politica della diplomazia in modo che la forza avesse la funzione non di provocare i conflitti, bensì di evitarli. La parola d’ordine è usare la forza il meno possibile, facendo di essa un fattore di dissuasione. È meglio trattare sempre, preferibilmente da posizioni di forza, cercando un accordo onorevole, che nulla tolga alla maestà dell’impero romano, piuttosto che prolungare guerre striscianti o, peggio, farsi prendere da manie bellicistiche, buttandosi a capofitto in rischiose spedizioni militari. Questi erano i convincimenti di Seneca e, almeno fino al 59, a quanto pare furono largamente condivisi dal consiglio del principe, e in particolare da Afranio Burro, l’autorevolissimo prefetto del pretorio.
I criteri della politica estera erano, dunque, saggi e dettero anche buoni risultati dove furono applicati con intelligenza. In quegli anni, infatti, l’Armenia fu evacuata dai parti senza che vi fosse una vera e propria presa d’armi, grazie al prestigio di Gneo Domizio Corbulone, indubbiamente il miglior generale di cui disponesse l’impero, che aveva già dato prova della sua genialità nel settore germanico. A giudizio di Corbulone, in una zona così nevralgica per l’impero, era scriteriato un offensivismo che prendesse l’iniziativa di invadere il territorio dei parti, così come era illusorio un protettorato romano gestito da un alleato: meglio strutturare l’Armenia in provincia e rendere così finalmente chiaro il rapporto con i parti. La sua voce rimase inascoltata, anche se Corbulone riuscì sempre a risolvere situazioni d’estremo pericolo. Le cose andarono bene in Germania, dove ci si limitò a respingere oltre il Reno i frisoni, dando le più ampie assicurazioni di buon volere ai capi delle genti limitrofe. In Mesia, nella regione danubiana, fu seguita la stessa politica, sebbene la zona fosse presieduta da scarse truppe. L’Egitto conobbe il buongoverno del prefetto Claudio Balbillo, illustre studioso di quella civiltà.
L’unica situazione non riconducibile al quadro generale è quella della Britannia per il concorso negativo di molte cause. Nei primi quattro anni del regno di Nerone, quando era dominante l’influenza di Seneca, la politica di pace alle frontiere e di romanizzazione all’interno fu perseguita anche qui mediante la diplomazia e ben circoscritti, precisi interventi militari. Purtroppo alla morte del governatore Quinto Veranio, nel 59, il successore Paolino iniziò nell’isola una prassi di militaresca brutalità, tale da esasperare le popolazioni. Ad essi si aggiunse una dura politica di esazioni iugulatorie, imposta dal questore Cato e non certo da Seneca, come poi si fece credere. Nel 60 scoppiò la grande rivolta della regina degli iceni, Budicca. Seneca, lo abbiamo visto, negli anni del quinquennio aveva guidato in modo efficace la lotta contro lo sfruttamento delle province; ora il suo potere d’intervento è in declino, ma egli, romano di Spagna, non cessa di difendere i paesi d’oltremare i cui beni non devono essere razziati, né sprecati ad alimentare il lusso e i vizi dell’aristocrazia romana. Roma rapina le province, ma qual è l’uso – si chiede con sdegno il Nostro – che si fa del frutto della rapina? “Si ha tanta voglia di mettervi su le mani e poi lo si getta al vento, tentando successivamente, con un’avarizia tardiva e crudele, di riprendersi di nuovo quello che si è sprecato. Noi non abbiamo scrupolo alcuno. La povertà degli altri non ci riguarda affatto e per noi, invece, la temiamo più di qualsiasi altro flagello. Si ha la spudoratezza di turbare la pace pubblica con atti di violenza, di schiacciare con la forza e il terrore quelli che sono più deboli, sì che spogliare le provincie e vendere la giustizia nei tribunali al miglior offerente è cosa che ormai non stupisce più nessuno” (Ben. 1, 9, 5). Seneca non avrebbe mai potuto scrivere parole di così implacabile denuncia contro lo sfruttamento delle province e il malgoverno, proprio quando erano sotto gli occhi di tutti le conseguenze a cui aveva condotto in Britannia la dura politica di Paolino e di Cato, se fosse stato lui in prima persona il responsabile di quei provvedimenti insensati che portarono all’insurrezione antiromana nell’isola. Alla formazione di una siffatta leggenda dette certamente un rilevante contributo il cosiddetto “affaire Suillio”, con cui si cercò di diffamare la persona di Seneca per meglio screditarne la politica.
In realtà chi aveva imposto il pagamento immediato dei prestiti, concessi da Claudio ai notabili dell’isola, era stato il questore Cato. I notabili erano in quegli anni direttamente impegnati nell’opera di trasformazione economica e sociale delle rispettive zone e l’inattesa richiesta, appoggiata da misure di polizia, li aveva di colpo spiazzati. In tal modo i migliori amici dell’impero e i fautori più convinti della romanizzazione furono spinti alla rivolta. Lo dice esplicitamente Dione Cassio, salvo poi a sostituire nello stesso brano (Rom. hist. 62, 2, 1) il nome di Seneca a quello di Cato, sovrapponendo, senza neppure vederne l’inconciliabilità, due versioni opposte di uno stesso fatto. Secondo quell’oltraggiosa calunnia Seneca sarebbe stato così accecato dalla sua cupidigia di strozzino da imbarcarsi in un’operazione dall’esito inevitabilmente disastroso. La richiesta di immediata restituzione dei prestiti avrebbe, infatti, azzerato la possibilità di recuperare il suo danaro e lo scatenamento, poi, dell’insurrezione in Britannia avrebbe significato il crollo di quella politica liberale verso le province per la cui riuscita Seneca aveva tenacemente lottato. Non si riesce francamente a immaginare un Seneca tanto miope nel calcolare i suoi interessi economici e così sprovvisto di senso politico. Che Seneca fosse tutt’altro che uno sciocco, questo almeno dovrebbero saperlo anche i suoi detrattori, da Dione Cassio all’autore di “Moby Dick”. Evidentemente Dione – che pure non manca di esprimere un giudizio altamente elogiativo di Seneca, dicendo che “superava in saggezza tutti i suoi contemporanei di Roma e molti altri fuori di Roma” (ibid. 69, 19, 7) – utilizza qui un materiale già confezionato e messo in circolazione da quegli stessi ambienti conservatori e di corte in cui si preparò l’operazione Suillio. Ma quella pagina di Dione è il pezzo forte di cui ci si è serviti, e ci si serve ancora, per applicare a Seneca l’odioso cliché del filosofo ipocrita, inguaribilmente in malafede nel predicar bene e razzolar male. Seneca disponeva certamente di grandi ricchezze e le sapeva amministrare, ma di esse faceva un uso magnanimo. Giovenale, portato dal suo talento satirico a mettere in evidenza soprattutto i vizi e le meschinità degli uomini, rende al filosofo questa testimonianza: “Seneca inviava agli amici di modesta condizione i suoi regali e nessuno mai glieli dovette chiedere” (Sat. 1, 5, 162-164).
Il punto più discusso della biografia di Seneca è l’accertamento del ruolo che egli ebbe nell’assassinio di Agrippina. Seneca e Afranio Burro erano stati con felice scelta affiancati da Agrippina a Nerone giovinetto; ma l’uno e l’altro non avevano animo di cortigiani e la madre di Nerone aveva sbagliato i suoi calcoli, se credeva di avere in ostaggio uomini così autorevoli e di disporne come pedine del suo gioco. Il potere era stato per tanta parte nelle mani di Agrippina, tra il 49 e il 54, ma l’ascesa al trono del figlio paradossalmente portò a un progressivo allontanamento della madre del principe dalle scelte politiche e amministrative. Seneca e Afranio Burro erano concordi, cosa rara tra uomini associati al potere (“rarum in societate potentiae concordes”, Tacito, Ann. 13, 2), nell’avviare il giovane imperatore a una pratica di governo coerente ai princìpi enunciati nel discorso d’investitura e, pertanto, era scritto nelle cose lo scontro con Agrippina. Se Afranio Burro e Seneca non le avessero resistito, presto “si sarebbe andati verso le stragi” (ibid.). Le azioni di Agrippina crearono sempre a Seneca altrettanti “casi di coscienza”, come ha ben detto René Waltz. Il filosofo, infatti, fu estraneo e ostile agli intrighi di Agrippina, perché contrastavano con le sue profonde convinzioni e con i princìpi ispiratori della sua politica. E, d’altra parte, l’altalena di furori e blandizie, di ricatti e lusinghe, di ostentato disprezzo e di adulazione insinuante, con cui Agrippina si rapportò al figlio, indusse ben presto Nerone a spogliarsi di ogni sentimento di ossequio nei confronti della madre. Non si trattava solo di insofferenza per il tentativo di continua intrusione nella sua vita privata e negli affari di Stato. L’aperto ricatto di voler contrapporre Britannico, “ormai divenuto adulto” (ibid. 13, 14), al figlio – l’ingrato, che dava a lei solo una parte di quanto per intero lui aveva ricevuto – fece sì che alla morte del figlio di Claudio, avvenuta nel febbraio del 55 per sospetto avvelenamento, si insinuassero dubbi odiosi proprio su Nerone, pur mancando qualsiasi indizio di colpevolezza. Col passare del tempo, il principe si era convinto che la sola minaccia diretta alla sua permanenza al trono veniva da colei che glielo aveva procurato e questa paura ossessiva fece sorgere in lui l’orribile proposito. Tacito annota: “Nerone era giunto addirittura a considerare la presenza della madre, in qualunque luogo ella fosse, per lui pericolosa e pertanto decise di ucciderla” (ibid. 14, 3). Unico complice e consigliere del misfatto fu il liberto Aniceto, comandante della flotta di stanza a Capo Miseno e suo ex-precettore, ma quando il tentativo messo in atto per uccidere Agrippina fallì, Nerone, morto di paura (pavore examinis), mandò subito a chiamare Seneca e Burro.
La convocazione in piena notte del consiglio del principe era, però, tardiva. Prima Seneca e Burro avrebbero potuto stornare dalla mente fuorviata di Nerone l’orribile disegno, predisponendo i mezzi opportuni per prevenire e neutralizzare, anche sul piano legale, se ne fosse stato il caso, le mene di Agrippina. Ora, invece, la situazione era precipitata irrimediabilmente. Seneca e Burro si trovavano dinanzi all’inevitabile. Nella notte di uno degli ultimi giorni del marzo 59 avvenne il drammatico incontro a quattro: Nerone, Aniceto, Seneca e Burro. Ciò che precludeva uno sbocco incruento alla vicenda era che la vittima designata sapeva, avendo raggiunto a nuoto la riva, dopo essere scampata alla trappola della cabina-botola predisposta sulla nave che la riaccompagnava da Baia di Capo Miseno. Quanto era accaduto era gravissimo, ma anche la posta in gioco era assai grande. Una volta incriminato di matricidio, l’imperatore sarebbe stato destituito e ucciso, la guerra civile fra i pretendenti avrebbe insanguinato l’impero, il sogno senecano della nuova società – che fino ad allora aveva ispirato concretamente l’azione di governo – sarebbe irrimediabilmente svanito. Alle affannose e atterrite parole di Nerone seguì un lungo silenzio (ibid. 13, 7). In quei terribili, interminabili istanti Seneca dovette percepire l’abisso che gli si spalancava dinanzi: toccò, infatti, proprio a lui constatare che Nerone era condannato a portare a termine quel crimine in cui si era spinto così avanti. Seneca guardò allora negli occhi Burro, il comandante dei pretoriani, e gli chiese se si dovesse ordinare ai soldati della guardia l’assassinio. Burro, però, non volle mandare i suoi soldati ad ammazzare Agrippina: “I soldati del pretorio, no; essi sono devoti a tutta la famiglia dei Cesari, non hanno dimenticato Germanico e non oseranno commettere atrocità contro sua figlia. Aniceto compirà quello che ha promesso”. Nelle parole di Burro freme lo sdegno per l’opera di Nerone. È un rifiuto ed è una condanna. Nerone si volge allora ad Aniceto e grida l’amara rabbia contro coloro che fino a quel momento gli avevano salvato l’onore del regno: “Oggi ricevo il regno, solo oggi. Ed un liberto mi fa così magnifico regalo”.
Il filosofo fu nella tragica notte di Miseno – che Tacito descrive “lucente di stelle e quieta nel placido mare” (“noctem sideribus inlustrem et placido mari quietam”, ibid. 14, 5) – il testimone più lucido e insieme più angosciato di quell’orrenda tragedia. All’inizio del principato, nel “De clementia”, Seneca aveva teorizzato la conciliazione degl’imperativi della coscienza con le esigenze, spesso assai dure e ingrate, della realtà effettuale. Fino a che punto egli fu fedele a quella coraggiosa linea di condotta anche nella situazione-limite in cui si trovò la notte di Miseno? Certo non fu cosa facile, né esente da intima censura, coprire la responsabilità dell’imperatore; ma a quel punto che cos’altro si poteva fare?
Seneca, dunque, non fu affatto l’istigatore di Nerone al matricidio, come insinua Dione Cassio (Rom. hist. 61, 10 e 12); ma il dopo-Miseno fu per lui estremamente difficile. L’opinione pubblica condannò lui per quanto era accaduto e “non già Nerone, la cui immane ferocia superava qualsiasi possibilità di sdegno” (Tacito, Ann. 14, 11). Seneca, d’altra parte, per ovvie ragioni non poteva difendersi in pubblico da coloro che, fermandosi alle apparenze, gli muovevano accuse di complicità; tuttavia, come al solito, la verità egli la ristabilì, nei limiti del possibile, nel “De tranquillitate animi”, il libro che, scritto quasi certamente uno o due anni dopo Miseno, illumina dal di dentro la condotta di Seneca con riflessioni che si attagliano ai fatti e preannunciano chiaramente quel “combattimento mentre ci si ritira” (Tranq. 4, 1 e ss.) che, di lì a poco, diverrà per lui un vero e proprio modo di vivere e di continuare, malgrado tutto, a servire lo Stato e l’umanità. In alcuni passaggi di quel dialogo il lettore sente l’eco del dramma sperimentato da Seneca nella notte di Miseno. “Piomba l’animo nella notte (“agitur animus in noctem”) e, tutt’a un tratto, ci troviamo circondati dalle tenebre. È come se tutte le virtù fossero sovvertite; sì che non è lecito sperare di trovarle in altri, né giova a te possederle” (ibid. 15, 1). L’ultima affermazione è per uno stoico sconvolgente. Perché mai ci sono momenti in cui non giova essere virtuosi? In realtà la nostra personale rettitudine, a cui non si deve rinunciare mai, a nessun costo, non basta a evitare il male che dilaga nella vita sociale. L’autore che fa queste considerazioni esce allo scoperto e parla di se stesso, sicuro che i lettori del suo tempo e, assai meglio, i posteri sapranno comprendere “il dolore, l’abbattimento, i mille ondeggiamenti di un’anima incerta, che le speranze realizzate a metà tengono sospesa e le speranze fallite immergono nella tristezza” (ibid. 2, 10). Seneca non poteva ritrarre meglio l’angoscia della sua anima.
Nel periodo che va dal 59 al 62 Nerone oscilla fra la linea di governo seguita in accordo con i seniores amici e l’effettivo rifiuto di essa attraverso atti di governo e indirizzi politici che Seneca e Burro potevano subire, ma non condividere. In quel tempo due ossessioni occupano l’animo di Nerone, alimentandosi a vicenda. La prima è il continuo ricorso a feste e donativi, i cui costi sono insostenibili per l’erario, per cancellare dalla memoria collettiva la mostruosità del matricidio e accrescere la popolarità del principe. Il dispotismo tende di per sé a farsi demagogia e, dal canto suo, una massa avida di divertimenti “è felice se il principe mostra d’avere i suoi stessi gusti” (Tacito, Ann. 14, 14). Nerone aveva pertanto introdotto a Roma solenni manifestazioni agonistiche e trasferì la lettura delle sue composizioni poetiche dalla propria dimora ai pubblici teatri. Nel 59 istituì nella capitale i Juvenilia, i giochi della gioventù, e a Napoli gli Augustilia, con prove d’atletica, corse di cavalli, declamazioni e musica. L’anno seguente organizzò a Roma con particolare lustro i Neronia.
L’altra idea fissa di Nerone, che in quel tempo era “agitato da immaginazioni orientali e sovrattutto egiziane” (Tacito, Ann. 15, 36), era la sacralizzazione della sua persona e del suo potere. Seneca era stato sei anni in Egitto e riteneva comprensibile usare nei rapporti con i popoli orientali dell’impero ciò che era più conforme alla loro mentalità e al loro linguaggio; ma a lui ripugnava che lo Stato romano potesse far sua quella pseudo-teologia politica che sanciva il dispotismo elevandolo a religione. Dopo gli anni del buon governo cominciarono a diventare più frequenti pratiche, decisioni e persino atti legislativi che lesionavano lo Stato di diritto. Il segno sicuro del processo di deterioramento in atto era l’emarginazione crescente dei sostenitori del regime costituzionale e l’emergere del partito di corte, in cui dominava, già sul finire del 58, l’avvenente Poppea Sabina, la donna dalla chioma color fiamma, che esigeva da Nerone il ripudio di Ottavia per divenire lei la sposa dell’imperatore. Ora, di fatto, il nuovo, ascoltatissimo consigliere del principe, non era Seneca, o Burro, ma Tigellino, il numero uno tra i “deteriores” e i “deterrimi”. La scalata dei peggiori alle magistrature è direttamente proporzionale all’allontanamento della classe dirigente di formazione senecana. Si vede persino un Cossuziano Capitone, fatto condannare proprio da Seneca e da Trasea, perché governatore disonesto della Cilicia, essere riammesso al senato per volontà dell’imperatore. Per Poppea e Tigellino l’unico, vero ostacolo al dilagare del loro arbitrio era pur sempre rappresentato dal superstite prestigio di cui godeva ancora Seneca presso Nerone: bisognava quindi render sospetto il filosofo agli occhi dell’ex discepolo e diffondere sul suo conto calcolate malignità, presentandolo persino come il suo vero antagonista al trono, nell’eloquenza, nella ricchezza, nella popolarità, nel comporre tragedie. “Fino a quando – questo era il ritornello che dovevano far risuonare alle orecchie dell’imperatore – tutto quello che di bello si fa nello Stato si continuerà a credere che sia opera di Seneca? L’infanzia di Nerone è finita da un pezzo: egli ha ormai il vigore della giovinezza. Non ha più bisogno del maestro” (Tacito, Ann. 14, 52).
Il mutamento di scena, tuttavia, non fu rapido, né si manifestò in ogni settore. Ancora nel 60-61 i consigli di Seneca hanno una certa efficacia: Nerone accoglie, ad esempio, il suo invito a non infierire contro oppositori e presunti pretendenti al trono, colpisce magistrati disonesti, si mostra spesso deferente verso il senato. La rottura con il regime costituzionale è in atto, ma Nerone non è senza pentimenti e indugi. Egli cede a poco a poco alla pressione dei suoi nuovi consiglieri e soprattutto al disfrenamento del suo stesso io peggiore.
Nella prima metà del 62 gli eventi, però, precipitano. Riprendono a un ritmo impressionante i processi per lesa maestà. Gli assassini politici, che quei processi autorizzano, sono redditizi, perché offrono al principe il mezzo per entrare in possesso, mediante confische, di sempre nuovo denaro. Un esempio fra tanti: i beni immobiliari della famiglia di Rubellio Plauto in Asia erano ingenti e quella fu la ragione vera della sua condanna a morte. Si trattava, però, di un amico di Seneca e di una personalità di primo piano, che molti indicavano come possibile imperatore dopo il baccanale neroniano. Tra l’aprile e la prima decade di giugno, in poche settimane, si decise anche il destino di un’altra vittima incolpevole: Ottavia, figlia di Claudio e moglie legale di Nerone, il cui matrimonio con il futuro imperatore non era mai stato consumato. La giovane donna, “appena ventenne” (ibid. 14, 64) fu ripudiata perché sterile, ma poi esiliata ed assassinata con accuse infamanti. In quei mesi morirono anche, a quanto pare di morte naturale, due cari amici di Seneca: Anneo Sereno e Afranio Burro. Il rapporto tra Seneca e Sereno, forse uniti anche da vincoli familiari, mise capo ad una vera amicizia spirituale, che procurò al prefetto dei vigili addetti alla corte la dedica dei dialoghi “De tranquillitate animi”, “De constantia sapientis” e quasi certamente anche del “De otio”. Gravi conseguenze ebbe la morte di Afranio Burro. “Mors Burri infregit Senecae potentiam”, annota Tacito (ibid. 14, 52): la morte di Burro rese vana ogni influenza di Seneca. Venuto meno il prefetto del pretorio, i saggi consigli di Seneca non avevano più alcun potere e “Nerone era spinto dalla sua inclinazione verso i peggiori” (ibid.).
L’interrogativo che da tempo Seneca andava ponendosi, se ritirarsi o restare al suo posto, sperando nel ritorno di Nerone alla ragione e all’esercizio costituzionale del potere, ha ora una risposta definitiva. Nel “De tranquillitate animi” Seneca aveva previsto che in un regime dispotico chi, come lui, occupa una certa posizione non può liberamente recedere (Tranq. 6, 6), avendo al collo un cappio che non può né sciogliere, né spezzare (ibid. 10, 1). E tuttavia, quando si toccano i limiti della insopportabilità, una via d’uscita bisogna pur trovarla. Seneca aveva delineato in quel dialogo quello che verso la metà del 62 realmente fece: “ridimensionare la partecipazione alla vita pubblica, dal momento che ci viene tolta ogni reale possibilità d’azione” (ibid. 4, 2). Questo stato d’animo indusse Seneca a chiedere a Nerone il ritiro da ogni incarico e la rinuncia a tutte le ricchezze che gli erano state elargite.
Nerone nella risposta assicura Seneca della sua stima, riconosce quanto il maestro ha fatto per lui e lo prega di non abbandonarlo, avendo ancora bisogno dei suoi consigli. Né può riprendersi quelle ricchezze che gli ha dato, anche per non essere accusato di avidità e ingratitudine (Tacito, Ann. 14, 56). Non è necessario pensare con Tacito che dietro le espressioni affettuose si celasse un odio profondo. Forse anche il torbido, infido, debole Nerone aveva i suoi momenti di sincerità con se stesso e persino di schietta commozione; allora poteva anche sentire la bellezza del progetto politico iniziale e delle realizzazioni che ne erano seguite, la superiorità incomparabile di colui che gli stava di fronte, ormai desideroso solo di veder accettate le sue dimissioni. È possibile che a questi sentimenti si mescolasse anche il calcolo che con Seneca bisognava comunque fare i conti. Dopotutto i princìpi del regime liberale voluto da Seneca ufficialmente non erano cambiati, anche se de facto erano quotidianamente violati e una parte dell’alta classe dirigente era ancora legata allo statista; un Seneca dissidente, che apparisse in aperto disaccordo con il principe, avrebbe potuto trascinare con sé buona parte dei senatori.
Seneca aveva a lungo riflettuto sul significato del suo ritiro e sui modi di continuare, su di un piano più alto, la sua battaglia, mentre prendeva le distanze dalla cosiddetta politica attiva. Anche di questo aveva parlato con nobili accenti nel “De tranquillitate animi”. “Quando si è costretti a battere in ritirata, lo si faccia retrocedendo a poco a poco, salvando le insegne e l’onore… L’essenziale è non fuggire, non volgere in gran fretta le spalle, buttando le armi e cercando un nascondiglio… Non puoi più esercitare le mansioni di cittadino? Esercita quelle di uomo… Non ci siamo rinchiusi tra le mura di una sola città, ma ci siamo proiettati verso tutto il mondo, abbiamo dichiarato nostra patria il mondo per poter offrire alla virtù un più ampio campo… Se la fortuna ti ha rimosso dalla prima carica dello Stato, resta ugualmente in piedi e aiuta gridando. Se ti imbavagliano, resta in piedi e aiuta in silenzio… Non è mai inutile l’attività del buon cittadino… Con lo sguardo, con un cenno, con l’ostinazione silenziosa… egli è là e gli altri lo vedono, lo ascoltano” (Tranq. 4 passim).
Gli ultimi tre anni, o poco meno, che intercorrono fra il ritiro di Seneca, nella primavera del 62, e la sua morte, nell’aprile del 65, furono messi intensamente a profitto dal filosofo. Egli si gettò a capofitto nel lavoro nella speranza di giovare a tutti e, in primo luogo, ai posteri. Era il suo modo di combattere la buona battaglia e di prepararsi ad affrontare “animo sano et erecto” (Ad Luc. 9, 13) quel che gli poteva serbare la “fortuna”. Finalmente padrone del suo tempo e dei suoi pensieri, il filosofo può obbedire alla sua intima vocazione e consacrare tutte le energie ad un compito: far riscoprire i valori che rendono la vita associata e dei singoli degna di essere vissuta. Nello stesso tempo, però, egli non può esimersi dall’obbligo di sgombrare il terreno da equivoci e accuse, illustrando le speranze e le intenzioni che sono state la forma, la struttura interiore del suo agire in campo politico, anche nelle situazioni più difficili. Da questo impegno nasce l’ampio trattato “De beneficiis”, scritto fondamentale per capire il suo autore, anche perché fortemente allusivo sul rapporto tra Seneca e il “palazzo”. Con la scomparsa dell’amico Sereno, si apre il ciclo delle opere dedicate a Lucilio junior. Seneca raccoglie innanzi tutto le fila delle indagini avviate fin dal soggiorno egiziano, in relazione al cosmo e al posto dell’uomo nel mondo, e pubblica le “Naturalium quaestionum libri”. Nelle “prefazioni” ai diversi libri che compongono l’opera, al di là dei risultati a cui era pervenuta la ricerca scientifica del suo tempo, Seneca celebra la passione della verità e affronta i massimi problemi filosofici. Lo scritto, però, più importante degli ultimi trentatré-trentaquattro mesi è quell’inimitabile giornale metafisico costituito dalle “Epistulae ad Lucilium”. Negli ultimi tempi furono composti anche i “Libri moralis philosophiae”, ma non ci sono pervenuti. Il loro intento ci sembra venga chiarito con le preoccupazioni di organicità, di sistematicità e di fondazione metafisica del valore morale che affiorano, con particolare insistenza, nella parte finale delle “Epistulae”. L’indagine sui fondamenti filosofici del reale è indispensabile per meglio garantire la validità della morale: come le foglie – scrive Seneca – non possono vivere da sole, così la morale ha bisogno di nascere dal tronco di una robusta teoria filosofica (Ad Luc. 95, 59).
Non sarebbe esatto pensare che Seneca abbia vissuto quell’ultima, stupenda stagione della sua vita, troncata nel suo autunno, quando si raccolgono i frutti più abbondanti e squisiti, in un totale isolamento. Non gli sarebbe stato consentito, neppure se avesse voluto. Seneca non fa più parte del consiglio del principe, per sua esplicita richiesta, ma ufficialmente egli rimane uno degli “amici” dell’imperatore, il quale può richiederne la presenza a corte. Seneca si sforza di non offendere apertamente Nerone con il suo “distanziamento dal palazzo” e desidera solo che gli sia concesso di attendere alle cose “maiora et meliora”. Ma il filosofo non si fa illusioni: distrutto ormai ogni vestigio di libertà politica, sarà già un miracolo se il despota gli consentirà la “muta libertas”, il diritto di tacere. Il tiranno, infatti, odia anche il silenzio dei veri servitori del bene comune, esigendo da essi pubblica attestazione di quel consenso e di quella fedeltà che non merita più. In tre battute della tragedia “Edìpo”, nei versi 521-525, Seneca aveva descritto la situazione che nel triennio dopo il ritiro gli toccò vivere in prima persona. Creonte chiede al re che gli sia consentito tacere: “Lascia che io resti in silenzio. Nessuna libertà più piccola di questa è stata chiesta a un re” (“Tacere liceat. Nulla libertas / minor a rege petitur”). Il re gli risponde: “Una siffatta libertà muta nuoce al re e allo Stato più di qualsiasi discorso” (“saepe vel lingua magis / regi atque regno muta libertas obest”). E Creonte, di rimando: “Ma se a un uomo togli anche la libertà di tacere, che cosa mai gli resta?” (“ubi non licet tacere, quid cuiquam licet?”).
La difficile posizione di Seneca è esposta a ogni insinuazione da parte dei nemici: nessuno ora può crederlo complice, ma egli è in qualche modo, dal punto di vista della corte, un “ex”, la cui vita può essere messa in gioco in qualsiasi momento. Tacito ci parla del suo discreto defilarsi dal Palatino, adducendo i motivi, d’altra parte veri, della cattiva salute e del proseguimento degli studi. Fu certo quella l’ora, tante volte desiderata, non solo delle letture dei libri più significativi tra quelli recenti, ma anche delle riletture degli autori più amati o dibattuti: Epicuro, i padri fondatori dello stoicismo (Zenone, Cleante, Crisippo), i filosofi della Media Stoa (Panezio Posidonio, , Ecatone di Rodi, Atenodoro di Tarso). Torna uno dei maestri della sua adolescenza pensosa, Quinto Sestio. “Quando lo leggerai – scrive Seneca a Lucilio – dirai: «È vivo, è pieno di vigore, è libero»” (Ad Luc. 64, 3). Ma nel ritiro Seneca riprende il colloquio con Platone la cui influenza, attraverso il medioplatonismo, era ben presente nella cultura ellenistica a partire dalla seconda metà del I sec. a. C. Seneca è a giusto titolo designato come il capofila del neo-stoicismo e secondo Giovanni Reale “il novum che differenzia il suo stoicismo da quello antico e da quello medio dipende pressoché per intero dall’impatto con il platonismo” (“La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell’anima” – Saggio introduttivo a Seneca, “Tutti gli scritti in prosa”, Milano 1994, p. CLVIII). La speculazione di Seneca innesta nel monismo materialistico della metafisica stoica l’invocazione a un Dio interiore e trascendente. Seneca nelle “Lettere a Lucilio” guadagna inoltre un altro traguardo che fino ad allora sembrava quasi precluso, a causa della pregiudiziale intellettualistica dominante nella filosofia antica: scopre il valore della volontà, e, dunque, della libertà umana. I lettori cristiani vi troveranno anche, perchè in Seneca c’è, qualcosa d’altro: il primato della coscienza, il senso del peccato, il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini.
Il clima politico, frattanto, continua a farsi sempre più pesante e non promette nulla di buono. Dopo la tristissima vicenda di Ottavia, Tigellino aveva mandato a Seneca due precisi avvertimenti personali, facendo assassinare il suo amico Rubellio Plauto, per impossessarsi delle sue ricchezze, ed esiliare Musone Rufo, perché, essendo stoico, si rendeva per ciò stesso colpevole di arroganza e bramosia di potere. Peggio. Il nuovo comandante del pretorio indusse un liberto ad accusare lo stesso Seneca di alto tradimento, asserendo che egli tramava insieme a Pisone contro Nerone. L’ala della morte sfiorò il Nostro, ma quella volta, essendogli stato concesso di difendersi, Seneca riuscì a dimostrare la propria innocenza e fu salvo (Tacito, Ann. 14, 65). C’era, però, in quella denuncia l’intuizione della via che lì a poco sarebbe stata battuta nel tentativo di liberare l’impero dal “mostro” e si individuavano anche i due personaggi di maggior rilievo intorno a cui avrebbe potuto coagularsi l’opposizione: Seneca e Gaio Calpurnio Pisone, assai diversi fra loro, ma anche simili perché entrambi oratori, uomini estremamente generosi e affabili (ibid. 15, 48), capaci di convogliare su di sé le speranze del popolo e di larga parte del senato. Vi era allora – scrive Tacito – chi pensava di affidare l’impero a Seneca “in grazia dello splendore delle sue virtù” (ibid. 15, 65) e Giovenale più tardi esclamerà: “Se al popolo fosse concessa libertà di voto, chi sarebbe tanto scellerato da esitare nell’anteporre Seneca a Nerone?” (Sat. 8, 211-212).
Le circostanze della congiura antineroniana, ordita effettivamente un anno dopo, sono poco conosciute e un margine d’incertezza rimane quando si voglia precisare il rapporto effettivo tra Seneca e i congiurati. Il filosofo era oggetto di un’attenzione sospettosa da parte degli uomini di Tigellino. I suoi gesti, i suoi spostamenti, le persone che incontrava, tutto era spiato, e Seneca, essendone al corrente, non era così sprovveduto da prestare il fianco ai nemici e da mandare allo sbaraglio gli amici. Probabilmente il Nostro venne a sapere quanto si stava tramando e in cuor suo si sarà augurato che il progetto andasse in porto. Un paio di anni prima era stato lui a scrivere sul problema del tirannicidio affermazioni molto nette, che forse avevano avuto una loro incidenza nell’ispirare la congiura intorno a Pisone e nell’attrarre ad essa familiari e amici. Quella stessa acuta intelligenza delle situazioni storiche, che portava Seneca a condannare nel “De beneficiis” il cesaricidio di Bruto (2, 20, 2 – 3), l’induceva a scrivere nella stessa opera, in cui non nomina mai Nerone, che, quando il detentore del potere si è trasformato in una belva insaziabile, assetata di sangue, “non c’è nulla di male, essendo mutata la situazione, a cambiare anche il proprio atteggiamento” (“non est turpe, cum re, mutare consilium” – Ben. 4, 38, 1). La morte violenta è la fine logica e giusta del tiranno ed è ciò che esige l’interesse pubblico, il bene del genere umano, dal momento che il tiranno non è un malvagio di statura normale. “La sua, infatti, è una malvagità rara e da sempre ritenuta un fenomeno portentoso” (ibid. 7, 20, 4). A mali estremi, dunque, rimedi estremi. “Se non c’è assolutamente più nessuna speranza che il despota guarisca, uno stesso gesto recherà a tutti e a lui restituirà un beneficio. Per un uomo come lui la morte è il solo rimedio: per chi non sarà mai più capace di rientrare in sé, la cosa migliore è sparire” (ibid. 7, 20, 3).
Seneca, in caso di vittoria dei pisoniani, forse non sarebbe tornato ad esercitare il potere, ma quel magistero della coscienza, che nasce solo da una riconosciuta autorità morale e che è così necessario in un regime liberale per richiamare governanti e cittadini ai comuni obblighi, alle responsabilità e soprattutto ai valori che debbono vivificare la convivenza civile e politica. Il complotto, invece, fallì perché fu rivelato a Nerone da un delatore. Pisone, appena seppe di essere stato scoperto, si uccise, cosicché non vi fu dubbio sulla realtà della congiura. La reazione del principe corrispose al terrore in lui suscitato dalla cospirazione di così alte personalità. Gli arresti, i processi sommari e le esecuzioni capitali si alternarono ai suicidi. In poche settimane furono travolti gli uomini più illustri dell’opposizione senatoriale ed intellettuale: Trasea, Petronio Arbitro, il fratello di Seneca Mela e il figlio ventiseienne di questi, Lucano, l’autore della “Farsaglia”. Uno solo dei congiurati, un certo Antonio Natale, aveva fatto il nome di Seneca, ma non per accusarlo: aveva solo riferito che, “mandato a visitare Seneca malato, per lamentarsi con lui di tener lontano Pisone”, s’era sentito rispondere dal filosofo che “gli scambievoli discorsi e i frequenti colloqui non servivano a nessuno dei due” (Tacito, Ann. 15, 60, 3-4 passim). Seneca, dunque, era ammalato e “non aveva permesso a Pisone di fargli visita, adducendo a giustificazione le sue condizioni di salute e il desiderio di star tranquillo” (ibid. 15, 61, 1). La testimonianza dell’ex congiurato scagionava Seneca, ma Tigellino e Poppea spinsero lo stesso il principe a liberarsi di colui che era divenuto ormai un rimprovero vivente per la sua cattiva coscienza. Nerone inviò al suo vecchio maestro l’ordine di uccidersi – annota Tacito – “non perché lo avesse conosciuto partecipe della congiura, ma perché riteneva che fosse il caso di colpirlo” (ibid. 15, 60, 2).
La comunicazione raggiunse Seneca di ritorno dalla Campania, in una sua villa, a quattro miglia da Roma. Il latore dell’infame ingiunzione, il tribuno Gaio Silvano, “non ebbe il coraggio di affrontare la voce e la vista di Seneca e perciò mandò da lui un centurione ad annunciargli l’inevitabile destino” (ibid. 15, 61, 4). Il filosofo non ne fu sorpreso e volle andare incontro alla morte serenamente, senza odio, senza recriminazioni. Chiese il proprio testamento per includere in esso un legato a favore dei due amici rimasti con lui in quella tragica ora; ma i soldati non permisero che gli fosse portato. Allora, rivolto ad essi, disse: “Vi lascio la sola cosa che mi resta, che però è la più bella: vi lascio l’immagine della mia vita” (ibid. 15, 62, 1). Dopo averli confortati, Seneca abbracciò Paolina, “colei che unicamente era diletta al suo cuore” (ibid. 15, 63, 2) e che volle subito condividere la sua stessa sorte. Un medesimo ferro, infatti, servì per aprire le vene di Paolina e di Lucio Anneo. Ma Seneca era vecchio e debole e il sangue scorreva assai lentamente; perciò, per affrettare la fine, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia. La sofferenza diventò atroce al punto che il filosofo temette di cedere ad essa, o di togliere coraggio alla sposa con la vista delle sue pene. Pregò, quindi, Paolina di portarsi in un’altra stanza e chiamò i suoi segretari per dettar loro il suo testamento spirituale. Il testo non ci è pervenuto (Tacito, Ann. 15, 63, 4), perché Tacito giudica inutile riportarlo, tanto era celebre e ben conosciuto ancora mezzo secolo dopo. Frattanto l’imperatore, informato che anche la moglie di Seneca stava morendo, ordinò ai messi di impedirne la morte, bendandole immediatamente i polsi. Il filosofo, però, non riusciva ancora a morire e, pensando a Socrate, dal suo medico si fece dare la pozione di cicuta preparata da tempo. Il suo corpo, ormai freddo, non reagì al veleno. Seneca allora si immerse in una vasca piena di acqua calda; “quindi fu portato in un bagno a vapore, dove morì soffocato” (ibid. 15, 64, 4). Era il 19 aprile del 65, o uno dei giorni immediatamente successivi. Anni prima aveva disposto che il suo corpo fosse cremato, senza alcuna solennità. E così fu fatto.
L’opera di Seneca, interrotta nel momento di più alta fecondità, non ha mai cessato d’interessare, com’egli aveva previsto, gli uomini. I cristiani lessero Seneca “in partem meliorem”. Lattanzio, Tertulliano, Gerolamo misero cioè tra parentesi, o non avvertirono pienamente, le incompatibilità dottrinali con il sistema stoico, che egli pure professava – incompatibilità che realmente esistono e sono insuperabili, malgrado l’influsso semita su Zenone, nello stoicismo antico, e di Filone l’Ebreo sul Nostro – e videro in lui soprattutto il filosofo che, esplorando il cuore umano, offre, attraverso le sue analisi e la sua umanissima saggezza, una vera e propria propedeutica al Vangelo. Dopo il Mille Abelardo celebrò in Seneca “il maestro di morale più grande tra i filosofi” e Alano di Lilla la guida incomparabile “per coltivare lo spirito”. Erasmo da Rotterdam fu l’editore dell’opera omnia di Seneca, ma gli umanisti gli preferirono Platone e Cicerone. L’umanesimo rinascimentale utilizzò Seneca come fonte per il pensiero classico, ma insistette anche su un’altra valenza essenziale della sua riflessione e della sua vita: vide in lui il filosofo che più di ogni altro si era impegnato, fino al sacrificio della sua stessa vita, ad elevare a responsabilità morale l’esercizio del potere. Calvino predilesse il “De clementia” e vi premise una sua introduzione. L’umanista belga Giusto Lipsio, vissuto tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo, ci dette, con la sua “Manuductio ad stoicam philosophiam”, la più convinta e serrata apologia di Seneca e una vigorosa difesa della morale stoica. Nello stesso tempo, i maestri del teatro moderno europeo, a cominciare dai drammaturghi spagnoli e da Shakespeare, scrissero la loro opere traendo non poche suggestioni dalle “Tragedie” di Seneca; in esse Corneille e Racine videro espressa in modo paradigmatico l’umana impossibilità – anche per anime come Fedra e Medea, grandi ma non redente dalla grazia – di fronteggiare vittoriosamente la potenza delle tenebre. I due spiriti più geniali che stanno nel mezzo dell’età moderna, Montaigne e Pascal, scelsero fra gli antichi Seneca come uno degli interlocutori più importanti, a cui rapportarsi criticamente.
Nel Settecento Jean-Jacques Rousseau trarrà dalle opere di Seneca, e in particolare dalla Lettera 88, lo stimolo decisivo ad incentrare il suo pensiero sull’antinomia fra natura e cultura corrotta, fra natura e società dominata dalle strutture del privilegio e da un ossessivo conformismo. E fu proprio uno dei padri dell’illuminismo e dell’ “Enciclopedia”, Denis Diderot, a cogliere la novità della filosofia politica di Seneca e della sua azione arditamente riformatrice, nonché la carica esistenziale del suo messaggio filosofico. Anch’egli, in un lavoro sul moralista inglese Shaftesbury, aveva ripetuto i soliti giudizi negativi sulla condotta di Seneca e sulla sua presunta doppiezza; molto tempo dopo, però, si mise a studiare direttamente la questione e pervenne a risultati del tutto opposti, che rese pubblici nel 1782, due anni prima di morire, nel “Saggio sui regni di Claudio e Nerone, e sui costumi e gli scritti di Seneca”.
L’eco dell’insegnamento di Seneca nella storia del pensiero, per quanto vasta, è però solo un segno dell’influenza esercitata su innumerevoli, anonimi lettori conquistati dalla sua saggezza disincantata, coraggiosa ma non dura, piena di comprensione e benevolenza. Seneca ha congiunto strettamente la sua esperienza e la sua opera filosofica, sicché questa non è il controcanto di quella, né la sua trasfigurazione fantastica, ma ora la sua premessa, ora il suo ripensamento critico e, dunque, la chiave interpretativa più corretta. La sua opera, a distanza di quasi venti secoli, continua ad inquietarci, ma anche a dissetarci nell’arsura del cammino.