La potenza dei media occidentali trascinano in una corrente vorticosa, Praga’68, Parigi ’68, Francoforte’68, e tutti quegli avvenimenti che venti anni fa hanno segnato un momento nuovo nella storia dell’Europa Occidentale. Abbiamo forse sottovalutato, nel momento in cui si svolgevano quegli avvenimenti, il loro senso. C’è una famosa frase di Marx secondo cui tutti gli avvenimenti capitano due volte: prima realmente e poi come farsa, come parodia. A me sembra che noi possiamo, con buon diritto, capovolgere questa frase; tutti gli avvenimenti capitano veramente due volte, ma prima come farsa, come parodia e poi davvero. lo credo che il ’68 è stata la farsa che però ci ha resi sensibili a dei problemi veri. Il ’68 con i suoi riferimenti culturali a Mao-tse-tung, ecc. è stato sostanzialmente una parodia e in qualche modo anche una vigliaccheria culturale, perché si nascondevano i problemi, le questioni che veramente ci minacciavano. Noi oggi dobbiamo sopportare la realtà di quelle questioni fondamentali che nel ’68 sono state annunciate in qualche modo da quegli sconvolgimenti senza essere state evase.
E questo mi fa pensare che, sebbene il ’68 praghese e il ’68 parigino capitino insieme, il ’68 a Praga non è stato una farsa, nel senso che allora noi ci siamo posti alcune questioni fondamentali, il cui peso la nazione ha sentito e sperimentato. Mentre il ’68 occidentale è stato solo un annuncio di ciò che verrà più tardi. Per esempio: tutta la sensibilità ecologica che noi oggi avvertiamo con tanta forza, tutta l’angoscia e l’ansia per il destino dei diritti umani e per la nostra identità di occidentali sono state espresse nel ’68 occidentale in una maniera veramente farsesca. Invece a Praga, sono state poste domande fondamentali a cui non abbiamo saputo rispondere, ma che almeno sono state sperimentate nel loro peso effettivo. Nonostante ciò noi, adesso, siamo condannati a guardare questi avvenimenti in una prospettiva comune, perché non si può resistere alla potenza dei media, che accomunano qualsiasi cosa, che sono capaci di mescolare in una sola corrente di notizie le cose più eterogenee. Eppure vorrei, come un pescatore di fronte a questa corrente, pescare alcune differenze fondamentali, che portano lontano e che sono veramente essenziali per comprendere anche ciò che è successo dopo il ’68, dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Mi riferisco a quella comunità parallela che è sorta in Cecoslovacchia, che è nata all’inizio per ragioni di necessità, per proteggere la nostra cultura contro la normalizzazione, cioè contro la violenta restaurazione del potere precedente la democratizzazione “dubcekiana”, ma che più tardi è diventata luogo in cui sono state poste questioni decisive ed elaborate forme di lotta assolutamente nuove, che oggi hanno un significato universale. Vorrei cominciare col ricordare alcune differenze tra gli anni ’60 in Occidente e a Praga. Prendiamo quel film che tutti conoscono del regista praghese Forman “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Questo film anche nelle intenzioni dell’autore, prende congedo dall’atmosfera degli anni ’60, un congedo in qualche modo triste, perché l’autore sente che è finita una esplosione della libertà.
Di questo film colpisce prima di tutto quella fiducia assoluta, illimitata nella potenza del simbolo. La malattia mentale stessa, i comportamenti sociali, la cultura nella sua globalità, sembra qualcosa di appreso, qualcosa di articolato dai simboli e da cui possiamo allora emanciparci, usandoli nella maniera più libera. Non è il gene che causa la malattia e non è nemmeno la tradizione e la storia che formano i nostri comportamenti: è il simbolo, è la cultura, è l’apprendimento sociale, è l’interazione tra gli uomini.
Questa convinzione è ingenua ed è, in qualche modo, simpatica la fiducia nel potere dei simboli, nella riformabilità dell’uomo, nel suo condizionamento e decondizionamento, nella sua flessibilità e plasmabilità, nella sua effettiva indipendenza dalle tradizioni e dai geni. Questa è la sostanza degli anni ’60 che in quel film si esprime in una maniera veramente icastica.
Gli anni ’60 in Occidente e il ’68 in particolare sono una esaltazione di quella indipendenza dalla natura e dalla storia che è stata sognata a lungo dai nostri progressisti occidentali. Ora il simbolo risolve tutto. La vita è articolata dai simboli; ci sono i simboli che liberano; ci sono quelli che ci rendono schiavi. Noi dobbiamo combattere per una liberazione dell’uomo attraverso il loro uso giusto, l’uso della ragione che ci libera. Questa è l’atmosfera gioiosa del ’68 in Occidente. La fiducia nella riformabilità dell’uomo è una specie di lirismo o lirizzazione dell’uomo, che il nostro scrittore Kundera nel suo libro “La vita è altrove” mette in questione.
I miti degli anni Sessanta
L’uomo occidentale, essendo costretto a vivere in una società massificata, anonima, di individui isolati uno dall’altro, sogna il calore della comunità umana, della coappartenenza (il cantare insieme, il tenersi per mano, la grande marcia verso i fini edificanti dell’uomo). Da qui il mito dell’impegno, ed è particolarmente Antonietta Maciocchi, per esempio, in Italia, che sottolinea questo paternalismo del movimento del ’68, questo essere tutti fratelli insieme e così via. E interessante che Rossana Rossanda nella sua riflessione sul ’68, in cui dedica molte pagine anche a Praga, ma sempre in una prospettiva che vorrei invertire, giunge a dire che il ’68 è Antigone contro Creonte. Penso che il ragionamento debba essere svolto proprio al suo opposto per giungere vicino al vero. In quell’antico dramma Antigone si rivolta contro l’imposizione dello stato in nome di una tradizione, di una tradizione talmente originaria che non c’è simbolo che la può travolgere. E’ una tradizione che precede tutte le leggi umane; che proviene dal profondo. In nome della fedeltà a questa tradizione Antigone si oppone alle disposizioni del re che rappresenta lo stato. Dire pertanto che il ’68 parigino o italiano sia stato dalla parte di Antigone è veramente sbagliato.
In qualche modo il ’68 praghese è stato veramente dalla parte di Antigone, e qui indirettamente Rossana Rossanda coglie un nocciolo importante, perché Creonte è qualcuno che voleva trasformare ed emancipare gli uomini, usando lo stato, imponendo dei comportamenti che sono liberi dalla tradizione. Il ’68 praghese è caratterizzato soprattutto da una opposizione radicale all’idea della rieducazione, all’idea della riformabilità dell’uomo, all’idea della trascendibilità di tutte le tradizioni, all’idea di questo lirismo gratuito che affascinava tanti intellettuali occidentali. Grùsa ha scritto su questo punto negli anni Sessanta cose assolutamente essenziali. In un famoso saggio mette sotto accusa i nostri scrittori e i nostri poeti degli anni Cinquanta, che erano tutti stalinisti ed esaltavano il partito e Stalin. Di fronte a tale realtà ha posto una domanda fondamentale che ha influenzato tutta la nostra generazione: «Come mai questo tradimento? Come mai tanti intellettuali hanno potuto diventare essenzialmente dei delatori, degli esaltatori dei massacri? Da dove questa debolezza della parola? Da dove questa tentazione, questo consenso lirico al male?». Noi dobbiamo pensare al ’68 a partire da questa considerazione: il ’68 praghese è una restituzione dell’uomo alla sua tradizione, alla sua ragione e in qualche modo alla sua prassi, alla sua maniera di vivere, ed è una rinuncia radicale a quella idea di riformabilità di cui il custode principe dovrebbe essere il partito.
La crisi della democrazia cecoslovacca
Nel 1948 in Cecoslovacchia avviene un colpo di stato, che ha una storia lunghissima e con cui finisce la democrazia cecoslovacca nata nel 1918. Certamente la Cecoslovacchia che nasce nel 1918 come uno degli stati che succedono alla unità austro-ungarica, eredita un grosso problema irrisolto: è il problema dello stato nazionale, della conciliabilità della democrazia con lo stato nazionale, dei limiti che lo stato nazionale pone alla democrazia come tale. Inoltre la Cecoslovacchia nasce come una piccola Austro-Ungheria, perché nei suoi confini convivono quattro nazioni: tedeschi, ungheresi, polacchi e rumeni. Comunque questa situazione si è in qualche modo assestata, anche attraverso gravi crisi, come quella nei rapporti con i cattolici in quanto lo stato si dichiarava erede della tradizione protestante del Paese, rappresentata dal primo presidente. Vent’anni di esistenza della Cecoslovacchia sono stati sostanzialmente democratici, in qualche modo felici. Ma arriva il settembre del ’38: è il momento in cui la Cecoslovacchia viene abbandonata a Hitler, nonostante il patto di alleanza difensiva che la lega alla Francia. Il patto di Monaco è la prima scossa. E allora ci domandiamo se siamo o non siamo europei visto che ci abbandonano in questa maniera. Che cos’è effettivamente l’Europa in cui il giovane stato voleva integrarsi? Siamo solo la carne con cui l’altra Europa si paga la propria pace?
Il settembre 1938 è una data che la nazione non ha mai superato. Questo tradimento in qualche modo ha veramente messo in crisi la concezione della democrazia così come è stata formulata da Masarik nel ’18, che si è ritenuta non praticabile. Non parlerò dei dieci anni di guerra; nel ’48 però, subito dopo la guerra, i comunisti prendono veramente moltissimi voti, quasi il 40%. Il successo enorme dei comunisti in Cecoslovacchia derivava dal fatto che è stata scossa la fiducia nell’Occidente, per cui si vedeva nella Russia il Paese a cui bisognava rivolgersi dopo l’abbandono dell’Occidente. E così comincia la vittoria dei comunisti, la cui azione in Cecoslovacchia si basa su questo punto: insinuarsi nella storia del Paese in una maniera tale da sembrare il finale di una lunga storia. Questa è veramente un’arte, una specialità della cultura comunista: il presentarsi come coloro che concludono una lunga storia. Tanto è vero che il partito comunista si è dichiarato erede delle tradizioni progressiste del popolo e si è richiamato addirittura alla guerra di religione del 1400 e attraverso una serie di figure ha presentato alla nazione il proprio potere come il culmine di questa storia, che portava all’uguaglianza sociale.
Noi oggi siamo piuttosto sospettosi verso queste grandi concezioni, ma subito dopo la guerra questa idea aveva un potere notevole. E, se permettete, la discussione sull’antifascismo in Italia è abbastanza simile: cioè il partito comunista italiano si presenta soprattutto come partito che conclude la lunga storia della lotta antifascista, per cui ciò che conta è l’antifascismo, non la democraticità. I comunisti da noi in qualche modo agivano in maniera analoga, per cui essere contro i comunisti significava tradire tutta la tradizione nazionale.
C’è un secondo punto: l’uso machiavellico del parlamento. Mentre i partiti del fronte nazionale erano sostanzialmente partiti parlamentari che si fidavano delle elezioni, il partito comunista usava il parlamento tecnicamente, come strumento per fare il colpo di stato. Questo sostanzialmente riesce nel febbraio 1948, quando il governo, a causa delle dimissioni dei ministri democratici, cade e nasce lo stato socialista cecoslovacco. E qui mi avvio a spiegarvi in che modo dobbiamo vedere il ’68. Che cosa è successo nel ’48, nella cultura, per esempio? E’ avvenuto qualcosa che nessuno in Cecoslovacchia veramente credeva che fosse possibile. Cioè attraverso un accentramento massiccio di tutte le leve di potere è stata veramente riscritta la storia del Paese. Io mi ricordo ancora – avevo allora sette-otto anni – ogni mese si cancellavano i libri che noi usavamo, si cancellavano alcuni nomi, a volte intere pagine, con inchiostro nero. Questo è il simbolo di ciò che è avvenuto; è proprio questa aggressione contro la realtà, questo cancellare ciò che era, cancellare persino ciò che c’è. A questo si aggiunge un tradimento massiccio degli scrittori.
Noi abbiamo assistito alla trasformazione della letteratura nazionale in una esaltazione della costruzione del socialismo di Stalin; addirittura gli scrittori si vantavano di essere semplicemente coloro che mettono in versi le direttive del partito. Tanto è vero che uno dei nostri massimi attori ha definito il realismo socialista in questi termini: “Il realista dipinge ciò che vede, il realista socialista dipinge ciò che legge”. Effettivamente i pittori si vantavano di essere sostanzialmente traduttori. Un entusiasmo strano si è impossessato di questa gente e abbiamo assistito a questa trasformazione dell’arte.
La nostra generazione è apparsa sulla scena culturale proprio con una critica radicale contro tutto questo. Abbiamo domandato cioè che tipo di meccanismo, che tipo di negligenza estrema verso l’esperienza di se stesso, verso l’esperienza della realtà, ha permesso questo decadimento della parola, questo tradimento della fedeltà alla parola che è propria dello scrittore. La nostra generazione appena superata l’adolescenza, a partire dal 1960 circa, si è dedicata ai lavori di scavo, cioè noi abbiamo cercato le tracce nascoste, sepolte, della realtà, sotto questa vernice e sotto questa imposizione soverchia di parole e di immagini che i comunisti hanno fatto piovere sulla realtà a partire dal ’48. La nostra generazione in qualche modo è legata a questa esperienza della realtà come qualcosa di fragile. La realtà è fragile, la realtà è qualcosa che può sparire, che può essere cacciata via e coloro che se la ricordano possono essere uccisi o privati della memoria. In una famosa frase Grùsa ha detto: “Noi non dobbiamo cercare, il mondo non ha bisogno di coloro che cambiano il mondo, ma di coloro che sono testimoni della sua fragilità”. In qualche modo noi siamo legati a questa fragilità della realtà. La realtà è qualche cosa che possiamo perdere, che dobbiamo difendere.
E così cominciano gli anni Sessanta. Per la verità gli anni Sessanta cominciano già nel ’56 quando al congresso degli scrittori alcuni di essi prendono il coraggio di parlare di coloro che sono stati uccisi, che sono stati imprigionati, a cui è stata tolta la parola. Ciò che ritengo essenziale nella Primavera di Praga è il progressivo ritorno alla realtà, il prevalere di un linguaggio aderente alla realtà, la progressiva vittoria su coloro che hanno usato il linguaggio solo per creare finzioni e per subordinare la nostra vita a delle finzioni. Nessuno deve scordarsi però l’importanza del congresso degli scrittori nel ’67, ove sono state poste questioni fondamentali della democrazia, del rapporto tra il cittadino e il partito, i limiti dell’accentramento.
L’unità tra ragione e coscienza
L’articolo più famoso scritto nel ’68, a cui tutti noi ci richiamavamo, era stato scritto da Carrel Cossic, forse il filosofo della Cecoslovacchia più noto nel mondo, ed era una riflessione sulla frase del più noto riformatore religioso boemo del XIV secolo, che si chiamava Jan Hus.
Jan Hus difendeva davanti al concilio alcune sue tesi e un cardinale gli ha detto: “Se tu per sottometterti al concilio dicessi che hai un occhio solo, pur avendone due, tu faresti bene” e Hus risponde “Io non potrei dire questo, perché non posso dire di avere un occhio solo, avendone due, perché sarei in contrasto con la mia ragione e con la mia coscienza”. E’ veramente curioso il fatto che con questa frase veniva data una identità ideologica alla Primavera di Praga.
Partendo dall’analisi di queste parole Cossic ha creato un programma culturale per la Primavera di Praga, cioè l’esigenza dell’unità tra la ragione e la coscienza. E per quanto possa sembrare incredibile non sono state le macchinazioni del potere, ma è stato questo recupero di una tradizione, di una cultura che costituisce l’essenza del ’68. Questo ritorno alla realtà, questo recupero dell’unità tra la coscienza e la ragione, questa fedeltà alla propria esperienza. E voi trovate anche nel programma d’azione di Dubcek molte espressioni che vanno in questa direzione. Il pluralismo in una certa misura riappare nel ’68, perché quando c’è il silenzio degli oppositori, i nostri concetti, i nostri programmi di azione diventano trappole persino per coloro che ne sono autori. E quindi necessario restituire la società alla realtà, al conflitto e alla sua tradizione. Questa è l’essenza del ’68. I potenti alleati dello status quo sono però arrivati in Cecoslovacchia il 21 agosto 1968. Il Paese è stato ributtato indietro in maniera violenta e veramente ingiusta, in certa misura insopportabile. Dopo un iniziale smarrimento è nata una maniera di difendere la cultura che noi riassumiamo oggi nell’espressione “polis parallela”, comunità parallela. Ora nell’ambito di questa “polis parallela” ci siamo resi conto che forse l’autonomia dell’autorità civile, così radicalmente minacciata anche in Occidente, è ormai recuperabile solo attraverso il coraggio della gente di essere indipendente e di scrivere dei libri non per un mercato anonimo, ma per un gruppo.
In un libro importante del dissenso, il “Libro dei sogni”, viene sollevato addirittura il problema se non dobbiamo scrivere i libri solo per coloro che conosciamo, per i nostri prossimi, per i nostri vicini. Nell’ambito della comunità parallela in ogni caso vengono posti alcuni problemi veramente fondamentali, quali il concetto di sacrificio come base della vita politica. La vita politica non è apparato, la vita politica significa che ci sono idee davanti alle quali la vita è solo relativa. In una famosa frase Grùsa dice che la vita è un valore relativo rispetto al modo di vivere e là dove la vita diventa un valore assoluto la società si dissolve una volta per sempre e la libertà pure.
Tutto questo è stato riassunto dal nostro massimo filosofo Patòcka in una celebre frase con la quale vorrei finire. Dice: “Abbiamo compreso finalmente che le cose per cui vale la pena di vivere, sono le stesse per cui vale la pena di morire”. E’ questo tipo di messaggio che oggi nessuno vuol sentire in Occidente ed è questo il significato universale del ’68.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 6.5.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.