Nella mia antologia della poesia del Novecento non ho fatto una sezione che si chiami Crepuscolari o Il Crepuscolarismo, ma ho fatto due sezioni: una che s’intitola Tra Simbolismo e Crepuscolarismo, dove ho messo Govoni, Palazzeschi e Corazzini e un’altra sezione intitolata La scuola dell’ironia in cui ho messo i due principali, cioè Guido Gozzano e Marino Moretti.
E’ una distinzione che mi sembra molto importante perché, al di là di una comune tematica che si può riscontrare ad esempio tra Corazzini e Gozzano, in realtà, se ci sono due poeti diversi e lontani tra loro, sono proprio questi due. E’ vero che entrambi, a modo loro, rappresentano una precisa rottura nei confronti della poesia tardo-ottocentesca e inaugurano il Novecento poetico italiano, ma con due modalità che sono l’una completamente diversa dall’altra.
Corazzini privilegia il patetico, Gozzano privilegia l’ironia: due strumenti che evidentemente non hanno nulla a che fare tra loro. Corazzini da questo punto di vista rappresenta colui che in Italia probabilmente ha preso sul serio, diciamo così, le tematiche tardo-simbolistiche, quelle che tutti conosciamo e gli studenti conoscono attraverso le letterature che studiano, caratterizzate appunto dalla tematica degli organetti di Barberia, delle domeniche tristi, dei conventi sperduti nella bruma, delle città melanconiche, dei viali al tramonto, dei vecchi edifici abbandonati, delle vecchie ville con le vasche piene di ninfee, ecc…
Questa larga tematica passa dal tardo simbolismo francese, soprattutto belga, in Italia attraverso il primo Govoni, attraverso il primo Palazzeschi e attraverso Corazzini. Ma mentre Palazzeschi gioca con questa materia, e in lui le suorine e tutti gli altri ingredienti diventano gli elementi trasmutabili di una specie di fiaba meccanica, che il poeta manovra a piacimento come tirasse i fili di un teatro di burattini, queste cose in Corazzini vengono prese sul serio, vengono patetizzate all’estremo, vengono assunte, in un certo senso, come simboli della sua profonda, reale, autentica malinconia di fanciullo malato. Tra questi temi c’è la malinconia, e c’è anche in Gozzano. La malinconia – termine assunto dai tardo-simbolisti franco-belgi – si trova in tutti questi poeti del primo Novecento, e in un certo senso corrisponde più o meno ad una malattia. Sottolineo questo termine perché è fondamentale, a mio avviso, per capire non soltanto i poeti, ma anche tutta la letteratura del primo Novecento. Mi riferisco qui in modo particolare ai due nostri grandissimi “malati” che sono Svevo e Pirandello.
In Gozzano questo materiale viene assunto ironicamente, ma “ironicamente” è una parola generica: che cosa significa “ironia”? In Signorina Felicita ne abbiamo un esempio in un certo senso clamoroso. L’ironia di Gozzano è l’incapacità di prendere sul serio qualsiasi cosa del reale e della vita. L’impossibilità, per esempio, di affrontare in maniera diretta il rapporto con gli altri, il rapporto con l’altro, cioè in sostanza il rapporto con la donna.
L’ironia è una specie di difesa, dunque, che il poeta mette tra se stesso, tra il proprio io traumatizzato e la realtà, per non dover affrontare, con i conseguenti traumi psichici che ne deriverebbero, questo reale spaventoso.
Gozzano probabilmente non è comprensibile senza D’Annunzio.
Gli esordi dì Gozzano sono esordi dannunziani, anche negli atteggiamenti di vita: Gozzano si presenta come un piccolo dandy provinciale, elegantissimo, che frequenta i salotti dell’alta borghesia torinese, e si fa apprezzare per la sua eleganza, per i suoi modi gentili, ecc… Assume cioè la condizione, anche esistenzialmente, dell’esteta, quella posizione che D’Annunzio ha incarnato nella maniera più clamorosa. Ma, immediatamente, siamo di fronte a una reazione al dannunzianesimo. Gozzano riesce a trovare la sua dimensione reale soltanto «dopo aver attraversato D’Annunzio”, come dirà un grande critico di Gozzano, che è Montale, nella famosa introduzione alle poesie di Gozzano pubblicata da Garzanti negli anni Cinquanta.
Ebbene, l’ironia di Gozzano è proprio la testimonianza, da un lato, di questa opposizione alla serietà di D’Annunzio, dall’altro della sua sostanziale incapacità di vivere, di rapportarsi con la vita, col mondo e con gli altri.
In quel famoso testo, che si chiama Totò Merùmeni (l'”Héautontimorouménos”, “il punitore di se stesso”), abbiamo il rovesciamento esatto della posizione dannunziana, in nome degli stessi riferimenti culturali: primo fra tutti Nietzsche.
Anche l’esteta gozzaniano, anche il “Totò Merùmeni” è un lettore di Nietzsche, ma è un lettore molto “sui generis”, perché, se D’Annunzio da Nietzsche, travolgendone il senso, ha ricavato il mito del “superuomo”, l’esteta gozzaniano ne ricaverà invece la figura dell”‘Héautontimorouménos”, del “punitore di se stesso”.
Nietzsche agisce sull’esteta gozzaniano come una specie di devastatore, di annichilitore, di distruttore di valori, per cui il soggetto lirico di Gozzano si presenta come affetto dalla “tabe letteraria”, come lui dice, cioè dalla malattia della letteratura, o dalla letteratura come malattia. Appunto quel “lento male indomo” rode dall’interno Totò Merùmeni.
Ecco quindi il rapporto rovesciato con D’Annunzio, che vi prego di tenere presente perché è la linea che seguirò durante questa esposizione, dal momento che ritengo sia su questa linea che si è sviluppata la maggiore poesia del Novecento.
Un altro elemento ancora più importante di contrapposizione tra Corazzini e Gozzano è costituito dal fatto che nel primo i temi crepuscolari, i temi tardo-simbolisti vengono assunti da un punto di vista lirico, lirico nel senso proprio del termine, dal punto di vista di una dizione, da parte di un “io” traumatizzato, della propria malinconia, della propria malattia, della propria infelicità, della propria incapacità di vivere direttamente espressa.
Direi che anche tecnicamente in Corazzini abbiamo da questo punto di vista l’indicazione di linee di svolgimento che saranno tipiche di molta poesia novecentesca. Per esempio, Corazzini è uno dei primi in Italia, con Govoni, ad adottare il verso libero, che avrà una fortuna immensa, che anzi sarà la conquista tecnica in un certo senso della poesia novecentesca.
Pensate ai metri assolutamente chiusi di D’Annunzio e di Pascoli. Pascoli è un grande rinnovatore metrico, ma all’interno degli schemi tradizionali.
Solo con Corazzini, con questi primi novecenteschi comincia l’avventura e la fortuna del verso libero. Quindi da un punto di vista formale e tecnico Corazzini è più moderno di Gozzano.
Invece in Gozzano dominano gli elementi narrativi. E’ un poeta narratore, un poeta di quadri narrativi, non è un lirico, non è uno che dica “io” in prima persona, mai. Gozzano adotta sempre delle maschere narrative, dei personaggi veri e propri: in Signorina Felicita il personaggio dell’avvocato, in Totò Merùmeni il personaggio dell’intellettuale così chiamato e così via. Ci sono sempre delle “figure dello schermo”, in cui il poeta si proietta e si identifica, così come ci sono poi delle figure contrapposte, che normalmente sono quelle dell’ambiente circostante, e la figura contrapposta per eccellenza, che è quella della donna.
Anche da un punto di vista metrico abbiamo una diversità fondamentale rispetto a Corazzini: Gozzano adotta ancora dei metri chiusi, chiusissimi addirittura.
Signorina Felicita è una sequenza di sestine, tutte in endecasillabi strettamente rimati fra di loro, il che ha fatto pensare a Gozzano soprattutto come ad un epigono.
Pensate al famoso giudizio di Borgese, a cui si deve il termine “Crepuscolari” per tutta questa serie di poeti: “Bisogna prenderli così come sono e goderli nei limiti dei loro poteri, senza incrudelire contro manchevolezze di cui, presi uno per uno, non hanno tutta la colpa. La loro poesia è una voce crepuscolare, la voce di una gloriosa poesia che si spegne: non hanno tanta forza da soverchiare le ultime risonanze, le grandi voci antiche, e il crepuscolo li involge”.
Evidentemente Borgese non capiva che non si era al crepuscolo della poesia ottocentesca ma all’alba della poesia nuova. Era ingannato fondamentalmente da questa finta antichità, da questa patina antiquaria che è caratteristica di Gozzano, che per tale motivo è un poeta così terribilmente ambiguo.
In realtà l’adozione di questa metrica da ballata romantica, da romanza in versi di tipo ottocentesco, da parte di Gozzano è uno degli elementi dell’ironia, è l’elemento tecnico in cui emerge l’ironia.
L’altro elemento tecnico dell’ironia gozzaniana è rappresentato da quella che già Giovanni Getto giustamente aveva chiamato la “poetica della stampa”, cioè la tendenza a prendere un brano di realtà e a metterlo in cornice.
Questo è probabilmente l’elemento più vistoso dell’ironia gozzaniana. Gozzano non è capace di parlare in prima persona, ma nemmeno di parlare in presa diretta: non è mai capace di restituirci il reale in un modo o nell’altro. Quando egli parla del reale è come se lo imbalsamasse, è come se lo rendesse improvvisamente lontano e staccato da noi, facendo appunto un’operazione di “messa in cornice”.
Che cos’è Signorina Felicita se non la straordinaria “messa in cornice” di una situazione? “Sei quasi brutta, priva di lusinga / nelle tue vesti quasi campagnole, / ma la tua faccia buona e casalinga, / ma i bei capelli di color di sole, / attorti in minutissime trecciuole, / ti fanno un tipo di beltà fiamminga…”, cioè fanno di te un quadro. E cos’è la villa: “Vill’Amarena a sommo dell’ascesa”, se non uno spaesamento, una tipica operazione di detemporalizzazione? Questa Villa Amarena sorge nel Canavese, vicino a Ivrea, ma in realtà sorge in un tempo “altro”, in un tempo che è astratto rispetto al tempo reale della vita, rappresentato per esempio dalla vita cittadina.
Infatti rileggendo la descrizione di questa villa (“Bell’edificio triste inabitato! / Grate panciute, logore, contorte! / Silenzio! Fuga delle stanze morte! / Odore d’ombra! Odore di passato! / Odore d’abbandono desolato! / Fiabe defunte delle sovrapporte!”) ci rendiamo conto di essere al di fuori di ogni coordinata storico-esistenziale: “defunto”, “passato”, “morte”, “silenzio”, “ombra”, sono tutti elementi chiaramente devitalizzanti, che fanno di questa villa qualche cosa di assolutamente astratto dalla realtà contemporanea.
Anche tutta la società che si raccoglie in questa villa attorno alla signorina (l’avvocato, il farmacista del posto, ecc…) costituisce un mondo che è “fuori dalla realtà”.
Ma, soprattutto, questo elemento di detemporalizzazione si coglie nella quarta strofa, là dove si rievoca la famosa soffitta di Villa Amarena: “Bellezza riposata dei solai / dove il rifiuto secolare dorme! / In quella tomba, tra le vane forme / di ciò ch’è stato e non sarà più mai, / bianca bella così che sussultai, / la Dama apparve nella tela enorme //”. E’ la famosa Marchesa dannata di cui si leggeva all’inizio: è un quadro che rappresenta una dama, la vecchia proprietaria di questa villa, che si dice compaia come un fantasma durante la notte.
“Un tipo di beltà fiamminga” era la stessa signorina Felicita, adesso siamo di fronte ad un quadro della marchesa dannata, poi ci sarà un altro quadro, quello di Torquato Tasso: “Oimè! La Gloria! Un corridoio basso, / tre ceste, un canterano dell’Impero, / la brutta effigie incorniciata in nero / e sotto il nome di Torquato Tasso!//”.
Qui non siamo più nel Seicento ma addirittura nel Cinquecento. “Intorno a quella che rideva illusa / nel ricco peplo,” – (la signora ex proprietaria della villa) – “e che mori di fame, / v’era una stirpe logora e confusa: / topaie, materassi, vasellame, / lucerne, ceste, mobili: ciarpame / reietto, così caro alla mia Musa!// Tra i materassi logori e le ceste / v’erano stampe di persone egregie; / incoronato delle frondi regie / Vera Torquato nei giardini d’Este. //” ecc…
Si sente che qualcosa di grosso sta avvenendo: questi sono i primi anni del Novecento, sono gli anni di D’Annunzio e di Pascoli.
E’ vero che Pascoli è detto “poeta delle piccole cose”, ma le piccole cose del Pascoli sono investite di un formidabile senso simbolico e sono piccole cose fino ad un certo punto: vi sono anche le costellazioni, c’è anche il Pascoli “cosmico”.
Tuttavia anche il Pascoli cosiddetto “delle piccole cose” non è mai un Pascoli che elenchi gli elementi, ad esempio gli oggetti della vita contadina, prendendoli in sé, nel loro valore di oggetti.
Invece in Gozzano avviene proprio questo: siamo di fronte ad un fenomeno incredibile. Nella poesia italiana entrano i materassi, le topaie, le trappole per i topi. Nei primi versi succede una cosa inaudita: “Signorina Felicita, è il tuo giorno! /” – (è il suo onomastico ed infatti il componimento ha come soprattitolo 10 luglio: Santa Felicita) – “A quest’ora che fai? Tosti il caffè, / e il buon aroma si diffonde intorno?//”.
Avete mai visto il caffè in poesia? E’ davvero una rottura formidabile all’interno della tradizione poetica italiana. Con i suoi modi gentili, in sostanza, Gozzano sta facendo una rivoluzione. Introduce “le piccole cose di pessimo gusto” all’interno della tradizione poetica.
Ma non basta questo a definire l’operazione ironica di Gozzano, perché, come osserva con estrema acutezza Montale in quella sua famosa introduzione: “Gozzano è il poeta che fa scontrare l’aulico con il prosaico”. Accanto alle “piccole cose di pessimo gusto”, alle topaie, ai materassi, al vasellame, ecc … mette anche le cose di alto livello, i grandi libri che ha letto. Accanto agli oggetti di uso comune, il salotto di Nonna Speranza, Napoleone, il busto impagliato di Loreto, il lampadario vetusto, ecc …. mette anche le cose di alto livello. In Signorina Felicità trovate il famoso “Tu non fai versi.” – dice alla Signorina, che è una rozza contadina e quindi non sa né leggere né scrivere – “Tagli le camicie / per tuo padre. Hai fatta la seconda / classe, t’han detto che la Terra è tonda, / ma tu non ci credi … E non mediti Nietzsche…” dove c’è il grande filosofo Nietzsche che rima con “camicie”
Anche questa è una cosa di estremo rilievo, è un esempio straordinario di questa operazione ironica condotta da Gozzano all’interno degli statuti della poesia italiana del primo Novecento.
Si è tenuto un convegno su Gozzano nel centenario della nascita, a Torino nel 1984, che credo abbia segnato in maniera molto netta il ruolo di straordinaria importanza che il poeta, considerato fino a poco tempo fa un minore del primo Novecento, ha avuto invece nella rottura degli schemi poetici e in quella frattura che si avverte nettissima tra Pascoli e D’Annunzio e la poesia nuova. E’ per questo che io dico che gran parte della poesia italiana di questo secolo, in un modo o nell’altro, si rifà consciamente o inconsciamente all’operazione fatta da Gozzano. Non ho tempo evidentemente, o parlerei solo di Gozzano, di entrare nel merito, che sarebbe quello appunto di spiegare in termini psicologici profondi, o anche psicoanalitici, il motivo di questa operazione ironica, che già all’inizio vi ho detto legata a una sostanziale incapacità a rapportarsi con il reale e con l’altro, cioè con la donna. In Signorina Felicita avete un esempio clamoroso di questa incapacità di rapporto perché l’avvocato che va a Villa Amarena è uno che cerca di uscire dal proprio ambiente, cioè quello della città di Torino, per trovare un’alternativa, che però non esiste altrove in senso spaziale, ma soltanto in senso temporale, e quindi non esiste (“Rinasco, rinasco nel Milleottocentocinquanta”).
La tendenza di Gozzano è quella di uscire dal tempo e quindi Villa Amarena non è un viaggio dalla città alla provincia, da Torino a Ivrea, ma è un viaggio da “qui e adesso”, dall'”hic et nunc” ad un “altrove” che esiste soltanto nella fantasia, che non ha riscontri reali autentici. E’ così che Felicita non è, o è soltanto apparentemente, la contrapposizione tra l'”intellettuale gemebonda” che s’incontra nei salotti torinesi, e la sua rusticità sana, con i suoi solidi convincimenti antichi, la sua poca cultura, e il suo molto buon senso, ecc
In realtà è “un tipo di beltà fiamminga”, è un quadro, è qualche cosa che esiste soltanto in forma detemporalizzata.
Infatti in questa bellissima poesia succede che l’avvocato ad un certo punto quasi sembra innamorarsi della signorina Felicita, e la signorina Felicita certamente si innamora dell’avvocato: per lei è un sogno straordinario quello di sposare un avvocato, lei, povera contadina com’è. E l’avvocato sembra stare al gioco: nell’ultima strofa del poemetto c’è questa specie di promessa che i due si fanno: adesso l’avvocato partirà con le rondini per andare a guarire (è malato – è la tisi di Gozzano, per la quale egli muore a 33 anni) per andare nei paesi caldi, alla ricerca della salute, e Felicita deve giurare di aspettarlo, perché quando ritornerà saliranno all’altare. La Signorina dice “giuro” ma, naturalmente, questa è tutta una finzione, è tutto un gioco, perché l’avvocato sa benissimo sia che il suo sarà un viaggio senza ritorno (il viaggio nella malattia è un viaggio senza ritorno) sia che, se anche ritornasse, non potrebbe certo stare con una signorina Felicita, perché è un’invenzione della sua mente, non esiste nella realtà.
Egli in quel momento fu “l’uomo d’altri tempi, un buono / sentimentale giovine romantico … // Quello che fingo d’essere e non sono!”
Si ha questa continua tensione ad essere qualcosa d’altro ed insieme la consapevolezza di non poterlo essere davvero.
Gozzano è un poeta estremamente artificioso, e non per questo non è un poeta, perché l’artificio è la sua unica forma di autenticità, perché per lui non esiste la “presa diretta”, non esiste la possibilità di dire le parole come pura comunicazione.
Per questo è tanto più poeta, perché normalmente le parole della poesia sono sempre parole della non comunicazione, dell’incapacità di comunicare.
Adesso, con un salto acrobatico, andiamo oltre.
Ci sarebbero tutti i passaggi intermedi da verificare, ma saltiamo direttamente a Montale, che è uno dei più straordinari prodotti della scuola di Gozzano, anche se ciò può sembrare paradossale.
Questo si può affermare in nome dell'”oggetto” di quello che, col termine poi famoso di Eliot, si chiamerà il “correlativo oggettivo”, perché Gozzano è un poeta “oggettuale”. I suoi sono oggetti tutti speciali, ma la sua è una poesia piena di oggetti, piena di cose.
Dice un poeta, che pure si rifà alla scuola gozzaniana, cioè Giorgio Caproni: “Io non immagino una poesia in cui non ci sia un bicchiere o un laccio per le scarpe, cioè non immagino una poesia senza ‘correlativo oggettivo’, senza la presenza di un’oggettualità sia pure degradata”.
Ebbene, è questa la linea indicata da Gozzano: quella della “poetica dell’oggetto”. L’altra linea è quella corazziniana, del tardo simbolismo, della scuola romana, dalla quale viene l’altro grande rappresentante della lirica italiana novecentesca, Ungaretti, nel quale non troverete certamente né bicchieri né lacci per le scarpe, né materassi, né topaie, né limoni, né altri oggetti di alcun genere.
In Ungaretti ciò che davvero trionfa è il simbolismo, cioè il rapporto delle parole tra di loro, non il rapporto tra la parola e la cosa. E’ la linea ermetica, insomma. Per questo non si deve più pensare a Montale come a un poeta ermetico: non ha nulla a che fare con l’ermetismo. Montale è su una linea completamente diversa: la linea crepuscolare-oggettuale inaugurata da Gozzano.
Per esemplificare leggiamo subito I limoni:
“Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni. // Meglio se le gazzarre degli uccelli / si spengono inghiottite dall’azzurro: / più chiaro si ascolta il sussurro / dei rami amici nell’aria che quasi non si muove, / e i sensi di quest’odore / che non sa staccarsi da terra / e piove in petto una dolcezza inquieta. / Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra, / qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. // Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / Il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità. / Lo sguardo fruga d’intorno, / la mente indaga accorda disunisce / nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce. / Sono i silenzi in cui si vede / in ogni ombra umana che si allontana / qualche disturbata Divinità. // Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo / nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra / soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase. / La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta il tedio dell’inverno sulle case, / la luce si fa avara – amara l’anima. Quando un giorno da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte / ci si mostrano i gialli dei limoni; / e il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità”.
Gli Ossi di seppia si aprono, dopo la breve lirica introduttiva, proprio con I limoni che evidentemente è un testo programmatico, messo in quella posizione non certo per ragioni cronologiche, ma per ragioni di poetica.
Abbiamo visto come in Gozzano sia assolutamente indispensabile l’indicazione è dello stesso Montale – pensare ad un attraversamento di D’Annunzio, come in Gozzano ci sia la figura dell’esteta, anche se un esteta rovesciato. L’esteta è colui il quale fa una cosa sola di arte e vita, che confonde arte e vita; programma decadente per eccellenza.
In D’Annunzio avete la vita che diventa un’opera d’arte, costruita come un’opera d’arte. I termini in D’Annunzio sono tutti di tipo vitalistico, tutte le valenze più vistose dell’universo dannunziano sono di tipo vitalistico. Il poeta è un grande egoista che cerca di costituire il mito di se stesso.
In Gozzano trovate invece l’inversione: ancora abbiamo l’abolizione del rapporto tra vita e letteratura, ma è la letteratura che prende il posto della vita.
Totò Merùmeni si chiude in una villa secentesca, e si dedica a meditare dei versi, una piccola fiorita di versi consolatori, cioè si ritira nella letteratura. In sostanza anche questo è estetismo.
Ebbene, in Montale il problema di D’Annunzio si ripresenta non in termini di estetismo, (con il grande Montale l’estetismo è certamente finito: è già finito prima di Montale con i poeti vociani, con Jahier, con Sbarbaro soprattutto, il grande ligure precursore di Montale) bensì come problema di poetica da affrontare: il giovane poeta, che esordisce negli anni della prima guerra mondiale, deve confrontarsi con i due “mostri sacri”: Pascoli e D’Annunzio soprattutto, che è certamente il più vistoso dei due.
Avete sentito come esordisce I limoni “Ascoltami i poeti laureati…”.
“Ascolta” riporta immediatamente alla Pioggia neI pineto. Del resto gli Ossi di seppia che cosa sono se non una riproposta dello schema alcyonico? Alcyone è il diario di una vacanza mediterranea, estiva, nel contatto fra un soggetto e il mare.
Ebbene, che cosa sono gli Ossi di seppia se non il diario di un soggiorno estivo (di molti soggiorni estivi) di fronte al Mediterraneo? Anzi le località, in cui i due libri si collocano, si affacciano l’una all’altra dal momento che l’Alcyone è ambientato nella Versilia e gli Ossi di seppia sono ambientati nelle Cinque Terre: sono di qua e di là dello stesso mare.
Le analogie sono formidabili. D’altra parte Pier Vincenzo Mengaldo in un saggio famoso ha dimostrato coi dati alla mano l’enorme quantità di presenze dannunziane negli Ossi di seppia di Montale, anche se, come in Gozzano, siamo di fronte ad un rovesciamento esatto.
Il primo elemento che emerge vistosamente nel confronto tra l’Alcyone e gli Ossi di seppia è il fatto che, per esempio, nell’Alcyone il mare e le acque sono un elemento femminile, che viene fecondato dal sole: da questo mare nasce la vita. Il mare è una specie di grembo materno da cui tutto nasce e nel quale il poeta tende a ritornare scomparendovi. Si assiste nell’Alcyone alla scomparsa dell’io in quanto soggetto: pensate alla stessa Pioggia nel pineto e alla metamorfosi che il soggetto lirico ed Ermione subiscono, diventando quasi creature vegetali, che si armonizzano con la natura.
E’ quella che è stata detta la “tensione panica” che tutto tende a dissolvere all’interno di una universale vitalità o vitalismo.
In Ossi di seppia, e soprattutto nella sezione centrale molto importante, che s’intitola Mediterraneo, succede esattamente il contrario. Anche qui siamo di fronte ad un soggetto e al mare, ma tra i due il rapporto, anziché essere simbiotico, è antagonistico. Il mare non è materno e femminile ma è paterno, è detto chiaramente “padre”. Non è dunque il luogo di un ritorno gratificante e annullante nella dolcezza del ritrovamento, ma è il luogo della legge, perché il padre significa legge.
Questa legge dice che tra l’essere, simboleggiato dal mare, e l’esistere ci possono essere unicamente rapporti di dipendenza assoluta e senza rimedio. Il soggetto lirico degli Ossi di seppia è un soggetto esistenzialmente “gettato qui e ora”, che tenta invano di recuperare l’antica unità, ma è subito convinto che questa unità non è più assolutamente recuperabile.
In ogni caso anche in questo senso si ha un’indicazione di rapporto rovesciato: da un lato il “panismo”, che è la tendenziale unificazione di oggetto e soggetto, qui invece quello che si può tranquillamente chiamare esistenzialismo, che è invece la frattura, che verrà teorizzata da Heidegger, tra l’essere, il “Sein” e l’esistere, il “Da-Sein”, cioè l’essere qui e ora. Tutti gli Ossi di seppia possono essere letti in questa chiave esistenzialistica. lo credo che, con Eliot, Montale sia stato il più grande poeta esistenzialista di questo secolo.
Ma torniamo a I limoni questa vera e propria dichiarazione di poetica.
“Ascoltami” ma per sentire parole che sono completamente diverse da quell'”Ascolta” che veniva pronunciato dal soggetto lirico della Pioggia nel pineto e rivolto a Ermione. “…I poeti laureati…” chi sono se non D’Annunzio? “…si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti” : cioè si muovono in una condizione naturale che non è per niente naturale, in un ambito in cui si nominano delle piante che esistono soltanto nella letteratura, non hanno nessun rapporto diretto con gli oggetti veri.
“Io, per me,…”: notate questa opposizione radicale denunciata dalla ripetizione del pronome di prima persona. “Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti – (in senso ligure: nelle fasce dove vengono coltivate le piante dei limoni) -, tra gli alberi dei limoni”. Vedete questo abbassamento improvviso di toni, per cui si passa dalle piante illustri dei poeti laureati alle cose reali di un luogo vero, che è il luogo delle sue vacanze estive, che è il lungo di Monterosso, là dove ci sono queste cose, dove ci sono i fossi nei quali vivono sparute anguille, dove ci sono i ciuffi delle canne, dove ci sono pozzanghere mezzo seccate, dove ci sono le piante dei limoni.
Ed è immediatamente l’opposizione tra la ricchezza, probabilmente apparente, dei “poeti laureati” e la povertà che viene scelta: “qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza”. “A noi poveri” intende a noi poeti poveri, a noi poeti che abbiamo scelto la modestia e l’umiltà delle cose di tutti i giorni, delle cose che ci circondano nei luoghi che conosciamo davvero.
E’ un elemento gozzaniano. La linea centrale mi sembra sia stata abbastanza chiaramente indicata: questa poetica dell’oggetto che fa del poeta colui che non si illude circa la potenzialità delle parole. Ciò è assolutamente fondamentale in Montale perché nel primo Novecento italiano si sviluppa anche una corrente tendenzialmente dannunziana in cui si valorizza al massimo la potenzialità delle parole. Si pensi a Campana, il grande poeta “orfico”, proprio nel senso della potenza attribuita alla parola poetica: Orfeo è colui che sradica le piante col suo canto, colui che tira fuori Euridice dall’Averno con la forza della poesia. La poesia orfica è la poesia che si illude di questa potenza della parola: è un’illusione sostanzialmente dannunziana ed è un’illusione che, malgrado tutte le apparenze, trovate intatta in Ungaretti. Ungaretti è ancora un poeta in cui davvero si trova il “miracolo della parola”, “la parola fiorita come un miracolo”, che riscatta l’uomo dalla sua condizione reietta.
In Montale questo non esiste assolutamente più; in Montale non c’è nessuna illusione circa il potere della parola salvifica, e quindi non vi sono concessioni all’analogismo simbolista: egli è davvero un poeta del “correlativo oggettivo”, un poeta dell’oggetto.
Nella poesia I limoni siamo subito di fronte a degli oggetti: le canne, i fossi, l’erba, le anguille e, appunto, i limoni.
“(…) i sensi di questo odore che non sa staccarsi da terra / e piove in petto una dolcezza inquieta. / (…) qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza / ed è l’odore dei limoni. // Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità”.
Questi limoni sono delle umili cose, ma che potere hanno! Quello addirittura di metterci nel mezzo di una qualche verità. L’odore dei limoni è un odore povero, di cose povere, ma ha anche una ricchezza straordinaria: è la ricchezza di quella che con un termine di Baudelaire si può chiamare l'”estasi” la “potenza estatica”, perché il poeta nell’odore dei limoni vive davvero un’esperienza di tipo estatico, quella cioè di una possibile uscita dalla contingenza del reale, per attingere ad una dimensione “altra”, ad una dimensione diversa. Quindi l’oggetto, in Montale, resta oggetto, ma si carica quasi allegoricamente di significati ulteriori.
In questo senso si può dire davvero che Montale sia un poeta allegorico e non un poeta simbolico o simbolista.
Pensate alla tradizione che Ungaretti da una parte e Montale dall’altra rappresentano. In Montale voi trovate Dante così come in Ungaretti trovate Petrarca. Da una parte trovate la tradizione del simbolismo lirico, dall’altra, in Montale, trovate la tradizione dell’allegorismo. Dante lo ritrovate anche in Eliot. In pieno Novecento abbiamo un recupero straordinario, nel versante esistenzialistico, di Dante e del dantismo.
Ci sono studi di Jacomuzzi che hanno dimostrato l’incredibile presenza di elementi danteschi nella poesia di Montale, non tanto negli Ossi di seppia quanto soprattutto nelle Occasioni e nella Bufera. La presenza di Dante però è già decisa anche negli ultimi Ossi di seppia, per esempio in Incontro. La scelta di Dante significa proprio la scelta di una poesia oggettuale allegorica, di una poesia in cui la realtà non è mai dimenticata nemmeno per un istante, ma è continuamente travalicata dai significati aggiuntivi che su questa realtà si poggiano.
I limoni diventano l'”anello che non tiene”, cioè la rottura della contingenza del reale, delle leggi che dominano la realtà, che sono le leggi spazio-temporali.
Gli Ossi di seppia sono pieni di indicazioni temporali, della temporalità cronologica, non bergsoniana.
Pensate a tutte le figure del cerchio: la carrucola del pozzo, la meridiana infissa nel muro, il cerchio del secchio. Sono tutte le figure della circolarità, cioè figure dell’orologio, figure della temporalità. L’uomo è confitto nella temporalità e nella spazialità, in quello che si dice appunto “hic et nunc”.
Questi oggetti hanno la possibilità di aprire il miracolo, di rompere l’anello, uno degli anelli di questa contingenza è il “miracolo”, così chiamato da Montale proprio in questa poesia.
“Qui delle divertite passioni / per miracolo tace la guerra”.
E’ una parola portante, soprattutto negli Ossi di seppia, quella di “miracolo”. Il miracolo è la possibilità, intravista, che si possa aprire uno spazio che ci porti oltre, che ci porti nella trascendenza.
Montale da questo punto di vista è il poeta più religioso del Novecento, benché ciò possa sembrare paradossale.
Si pensi alle grandi liriche religiose della Bufera: Iride, Voce giunta con le folaghe, Primavera hitleriana, ecc…: qui veramente siamo di fronte a questa situazione di apertura netta sul religioso in senso specifico, anche se negli Ossi di seppia il religioso rimane una pura possibilità di oltranza. Questa tensione all’oltre è anche la grandezza degli Ossi di seppia.
Un altro elemento fondamentale, a mio avviso, della poetica montaliana, che è già chiaro nella prima raccolta, è il senso della parola come qualcosa che non ha in sé più nessuna possibilità di indicare salvezze, di indicare certezze.
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato…”.
C’è una stupenda poesia che normalmente non viene mai riportata nelle antologie, che voglio indicarvi: Tentava la vostra mano la tastiera:
“Tentava la vostra mano la tastiera, / i vostri occhi leggevano sul foglio / gl’impossibili segni; e franto era / ogni accordo come una voce di cordoglio. // Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva / in vedervi inceppata inerme ignara / del linguaggio più vostro: ne bruiva / oltre i vetri socchiusi la marina chiara. // Passò nel riquadro azzurro una fugace danza / di farfalle; una fronda si scrollò nel sole. / Nessuna cosa prossima trovava le sue parole, / ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza”. E’ l’elogio dell’ignoranza, della parola “ignorante”.
Abbiamo la scena di una ragazza che sta suonando il pianoforte, bravissima conoscitrice della musica, che ad un certo punto s’inceppa, non è più capace di andare avanti. La cosa può essere interpretata come un errore, un defaut, una deficienza, una mancanza. Il poeta la interpreta come una ricchezza, perché il non saper più leggere nel pentagramma corrisponde all’ignoranza del poeta che non sa più usare le parole.
Se la giovane è incapace di suonare vuol dire che sta inseguendo una musica più alta, una musica che sta di là dal pentagramma, esattamente come il poeta, che non sa più usare le parole, sta inseguendo altre parole, indicibili, che portano in una zona dove le parole non valgono più.
Questa è un’altra indicazione fondamentale nel primo Montale, anzi nel Montale di sempre, dal momento che, per esempio, in una poesia dell’ultima raccolta, di Satura, c’è un brevissimo testo dedicato proprio a questa impotenza della lingua:
“Incespicare, incepparsi / è necessario / per destare la lingua / dal suo torpore. / Ma la balbuzie non basta / e se anche fa meno rumore / è guasta lei pure. Così / bisogna rassegnarsi / a un mezzo parlare. Una volta / qualcuno parlò per intero /” – (è Cristo) – “e fu incomprensibile. Certo / credeva di essere l’ultimo parlante. Invece è accaduto / che tutti ancora parlano / e il mondo da allora è muto //”.
E’ proprio il rifiuto estremo da parte di Montale dell’illusione della parola poetica, di quella parola che finge il religioso.
La parola dei “poeti orfici” è quella di poeti che si illudono, attraverso la parola poetica, di mimare in un certo senso il Verbo, la Parola religiosa per eccellenza, quella che fu pronunciata una volta e basta.
In Montale non esiste nessuna illusione del genere. In Montale l'”oltre”, lo spazio del “religioso”, è qualcosa che è veramente trascendente e quindi non dicibile in parole. Quindi al poeta non resta che un mezzo parlare, la balbuzie. Del resto soltanto la balbuzie è capace di “risvegliare la lingua dal suo torpore”.
“Caro piccolo insetto / che chiamavano mosca non so perché, / stasera quasi al buio / mentre leggevo il Deuteroisaia / sei ricomparsa accanto a me, / ma non avevi occhiali, / non potevi vedermi / né potevo io senza quel luccichio / riconoscere te nella foschia”.
“Non ho mai capito se io fossi / il tuo cane fedele e incimurrito / o tu lo fossi per me. / Per gli altri no, eri un insetto miope / smarrito nel blabla / dell’alta società. Erano ingenui / quei furbi e non sapevano / di essere loro il tuo zimbello: / di essere visti anche al buio e smascherati da un tuo senso infallibile, dal tuo / radar di pipistrello”.
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede. // Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue”.
I famosi, bellissimi Xenia, rappresentano la parte introduttiva della quarta raccolta montaliana, Satura, del 1971, e inaugurano il secondo Montale, quello più esplicitamente gozzaniano, satirico ed ironico. Tutta la potenzialità ironica di Montale esplode in Satura, nel Diario del ’71 ’72, nel Quaderno di quattro anni e in Altri versi.
Mi premeva accennare brevissimamente alla centralità che nella poesia montaliana ha la donna. Qui ciò è esplicito: il caro piccolo insetto è la “Mosca”, la moglie di Montale, Drusilla Tanzi, che Montale conosceva fin dal 1927, quando si era trasferito a Firenze. Era la moglie di Matteo Marangoni, il famoso critico d’arte. Con lei Montale convisse lunghi anni e la sposò alla morte del primo marito.
E’ la donna della sua vita, quella che lo ha accompagnato realmente per trentacinque anni di esistenza. Paradossalmente questa prima donna di Montale – non è la primissima, però – compare per ultima nella poesia: compare soltanto in Satura.
Le donne che discretamente annunciano la loro presenza soprattutto nelle Occasioni e in Bufera sono altre donne rispetto alla compagna di tutta la vita. Alla fine degli Ossi di seppia è già presente Arletta, la protagonista di Incontro e poi di La casa dei doganieri, che è uno dei primi testi delle Occasioni.
Poi compare la vera “donna della salute”, che è Clizia. Nominata con questo nome soltanto in Primavera hitleriana, una delle poesie della Bufera, essa corrisponde alla persona di un’ebrea americana, venuta a Firenze negli anni Trenta a studiare letteratura italiana, Irma Brandeis.
Ebbene Clizia è veramente la “Beatrice” di questo poeta dantologo che è Montale, nel senso, che rappresenta appunto la “dorma della salute”: se nelle Occasioni è ancora la Beatrice della Vita Nuova, nella Bufera è veramente la Beatrice del Paradiso, nel senso che guida il poeta verso l’approdo alla salvezza, non la salvezza di questo mondo, ma la salvezza dell’altrove”, dell'”altro”.
E’ un capitolo importante e vastissimo, a cui posso fare soltanto un accenno, per chiudere appunto con il ricordo di Mosca, Mosca è la donna di tutti i giorni, “…che chiamavano Mosca non so perché…” (in realtà sa benissimo perché: era noiosa e possessiva, tant’è vero che gli amici la chiamavano “Mosca d’Inferno”). Montale in realtà nel’38 doveva andare in America con Irma Brandeis, ma costei tanto fece che non lo lasciò partire ed egli restò con la sua “Mosca d’Inferno”, con il “caro piccolo insetto”, che diventa “caro piccolo insetto” solo quando è morta.
E’ molto importante, per chiudere gozzanianamente, dire che la funzione di Mosca è la funzione della demistificatrice, di colei che riporta alla realtà, di colei che non si lascia illudere da niente e da nessuno.
Elemento caratteristico delle poesie che sono state lette è quello della cecità di Mosca, che in effetti ci vedeva pochissimo, ma in realtà vedeva più degli altri. “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale”: figuriamoci che guida, giù dalle scale! In questo senso la donna, con il suo “radar di pipistrello”, è l’incarnazione dell’ironia, quella che, dopo gli altri voli lirico-metafisici delle Occasioni e della Bufera, domina in Montale da Satura in poi. Più che mai, con la Mosca, siamo ricondotti, attraverso il banale e il quotidiano, alla poetica dell’oggetto. Ironia dunque e oggettualità: l’eredità gozzaniana è pienamente attuata.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.2.1989 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.