Dopo aver fondato la Casa Sant’Isaia, un piccolo Centro domenicano in Gerusalemme di studio sulla Bibbia e di riflessione sugli aspetti teologici e storici delle relazioni ebraico-cristiane, avevo ripreso a sognare: la riconciliazione fra ebrei e cristiani non richiedeva qualche cosa di più, oltre a studi e incontri, per quanto profondi potessero essere sul piano intellettuale? Il pensiero è necessario e importante, ma è sufficiente? Non occorreva escogitare un modo perché ebrei e cristiani, così profondamente divisi dalla storia e dai pregiudizi, potessero comunicare in una forma di vita associata, in una comunità, fedeli ciascuno alla propria fede e alle proprie tradizioni, e pienamente rispettosi delle altrui? Fu questa la prima forma del “sogno” di Nevè Shalom.
Dopo la guerra dei Sei Giorni molte cose cambiarono. Gerusalemme venne unificata; così, all’improvviso, il mondo arabo fece irruzione nella vita quotidiana della città e nei miei sogni per l’avvenire. Questo mondo arabo era già presente in Israele, sotto forma d’una minoranza comprendente il 12% della popolazione, e cioè circa 300.000 abitanti, ma io non ero stato sensibilizzato a questo aspetto della realtà israeliana, ancora lontana, in quel momento, dall’importanza che avrebbe assunto in seguito. Era impossibile ipotizzare una comunità di vita fra cristiani ed ebrei in Israele, senza tener conto degli altri figli di Abramo – gli arabi, musulmani e cristiani – che abitano su questa terra. E’ così che l’idea di Nevè Shalom cominciò a concretizzarsi in me.
“Gerusalemme”. La radice di questo nome comporta due significati: shalom = pace, e shalem = intero, perfetto, uno. Nella logica biblica, il nome esprime l’essere stesso di colui che lo porta e la sua vocazione. Gerusalemme dovrebbe essere dunque la città dell’unità e la città della pace. Ma, nella realtà, quella città fu sempre contesa, oggetto di conflitti e di conquiste successive.
Oggi, Gerusalemme e i paesi circostanti sono costituiti da un mosaico di comunità – religiose, nazionali, culturali – che vivono nell’indifferenza totale od opponendosi le une alle altre in dispute e guerre.
Il sogno di Nevè Shalom, condiviso da un gruppo di persone profondamente coinvolte da tale situazione, scaturiva dal convincimento che occorreva fare qualche cosa per cambiarla, lavorando – in collaborazione con altri animati dalla stessa ispirazione – per la riconciliazione e la pace in Israele. Più tardi, se Dio vorrà, questo medesimo sforzo potrà estendersi oltre le frontiere del nostro paese.
Pensavamo a un piccolo villaggio composto da abitanti provenienti dalle diverse comunità del paese. Ebrei, cristiani e musulmani vi vivrebbero in pace, ognuno fedele alla propria fede e alle proprie tradizioni e rispettoso delle altrui, trovando in questa diversità una fonte di arricchimento personale.
Scopo di un tale villaggio: divenire una «scuola di pace». In ogni paese esistono accademie dove, per anni, viene insegnata l’arte della guerra. Ispirati dalla parola profetica: “…un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non impareranno più l’arte della guerra”, noi volevamo creare una “scuola per la pace”, perché anche la pace è un’arte: che non si improvvisa, ma deve essere insegnata.
Al villaggio si verrebbe da ogni angolo del paese per incontrare “l’altro”, per abbattere i muri della paura, della diffidenza, dell’ignoranza, dell’incomprensione, dei pregiudizi – tutte cose che ci separano – e costruire ponti di fiducia, di rispetto, di reciproca comprensione e, se possibile, di amicizia. Tale scopo verrebbe perseguito mediante corsi, seminari, tecniche di psicologia di gruppo, lavoro fisico fatto in comune e serate ricreative.
In una serie di conferenze tenute nel 1969 negli Stati Uniti e in Canadà, feci frequenti allusioni a ciò che chiamavo allora “il folle sogno di Nevè Shalom”. Più di una volta mi fu detto: “E’ un’utopia: non riuscirà mai a realizzare un progetto del genere in Israele!”. Rispondevo: “Indubbiamente: è un’utopia. Ma Israele è un paese in cui talvolta l’utopia diventa realtà. Anche Teodoro Herzl, il fondatore dello Stato, ne aveva una: formare una nazione con ebrei provenienti da un centinaio di paesi diversi! E tutti sanno che quando tre ebrei si trovano insieme, sono rappresentati quattro partiti politici. Come pensare di raggiungere un’unità con un popolo così individualista?”. La risposta di Teodoro Herzl, incisa oggi sulla sua tomba, fu: “Se lo vuoi, non sarà una leggenda”. E oggi lo Stato d’Israele è una realtà! “Quanto a noi, – concludevo – se il Santo, benedetto sia, lo vuole, non sarà un’utopia”.
La parte più problematica del nostro sogno era il terreno: come trovarlo, senza mezzi finanziari e senza appoggi influenti? Dopo ricerche infruttuose e alcune speranze deluse, con nostra sorpresa un terreno di 40 ettari ci cascò quasi dal cielo.
Il monastero trappista di Latroun ci offrì una collina che prima della guerra del giugno 1967 era stata territorio smilitarizzato e “terra di nessuno”, tra Israele e la Giordania. Mediante un affitto simbolico di 3 centesimi annui e un contratto di un secolo, da rinnovarsi entro il 49esimo anno, questa collina divenne il luogo in cui il sogno di Nevè Shalom avrebbe potuto realizzarsi.
Ricordo quei due primi anni a Toron, accanto alle rovine del castello dei Crociati: solo chi li ha vissuti ne ha conosciuto le innumerevoli difficoltà e le spossanti fatiche. Ricordo i primi incontri fra ebrei ed arabi (cristiani e musulmani) a Gerusalemme in casa di Rina. Poi la vita dei primi “pionieri” sulla collina, senz’acqua, senza un solo albero (acqua e ombra sono le cose più indispensabili nella nostra regione), senza elettricità, senza le strade carrozzabili in tempo di pioggia. Ricordo come questo terreno, incolto e disabitato dall’epoca bizantina e ricoperto solo da pietre e da rovi, cominciò a trasformarsi – grazie soprattutto alla dedizione e alla fatica di Guido e di Jonathan, che ci hanno poi lasciati – in un luogo abitabile.
Le prime riunioni si svolsero in un’atmosfera di semplicità e di amicizia, senza pretese, e nella gioia, con la partecipazione dei beduini accampati intorno a noi, di arabi e di ebrei venuti dai villaggi e dai kibbutzim dei dintorni. Si cantava, si danzava e si pregava per la pace.
Vivevo sulla collina in una cassa di compensato, un cubo di 2,50 m di lato, in cui un nuovo immigrato giunto da New York aveva trasportato i suoi bagagli. Ho visto che si può benissimo vivere quattro anni in 2,50 metri cubi, e che non è poi tanto sgradevole. Anzi, ci sono molti vantaggi, non c’è posto per le cose inutili e i troppi affari. Abbiamo messo un tetto di tubi, tagliato una finestra e una porta, predisposto una rete contro serpenti e scorpioni, anche se non impediva a tutti di entrare. Fra il materasso e il tavolo c’era un piccolo passaggio di ottanta centimetri dove potevo fare alcuni movimenti di yoga la mattina e celebrare la messa. Mi sedevo su un cuscino, l’altare era un tappeto arabo di paglia appoggiato su un altro cuscino davanti a me; a volte assistevano due o tre persone sedute sui tacchi al mio fianco. Posso dire che queste sono le messe dove ho pregato più intensamente, anche se non si può pregare sempre così. Gli altri compagni, Jonathan, Gabriel e i volontari, si erano sistemati in capanne di legno un po’ meno scomode. Anna dormiva dove poteva, a volte sotto una tenda, il più spesso sotto le stelle. Le nostre condizioni materiali erano molto primitive.
Ma la prova più penosa era l’assenza, sulla collina, delle persone per le quali Nevè Shalom era stata concepita: la gente del paese. Ebrei e arabi venivano spesso a trovarci il sabato. Alcuni ci avrebbero forse raggiunti con le loro famiglie, ma la nostra estrema povertà, e soprattutto la mancanza di sicurezza per l’avvenire li tratteneva – come pure il fatto di vivere insieme a stranieri. Quelli che venivano a passare con noi un tempo più o meno lungo erano infatti, in maggioranza, giovani arrivati da ogni parte del mondo, in cerca di una forma di vita semplice e fraterna. Molti di loro ci sono stati di grande aiuto col loro lavoro, rendendo possibile la nostra sussistenza e il conseguente irradiamento del nostro ideale nel paese. Ma nella maggior parte dei casi, non appartenevano al paese, non erano interessati affatto a Israele, ai suoi problemi e alle motivazioni che avevano dato vita a Nevè Shalom. I miei amici di Gerusalemme erano molto arrabbiati con me; dicevano che perdevo il mio tempo, che non ero venuto in Israele per vivere con gente che parla tutte le lingue salvo quelle del paese: l’arabo e l’ebraico.
Tale situazione poneva un serio problema, che ci preoccupava molto. Bisognava proseguire quest’esperienza pionieristica, apparentemente senza sbocco, a rischio di sprecare anni che avrebbero potuto essere impiegati meglio altrove? D’altra parte, non osavo abbandonare quel luogo per fare qualche altra cosa. Chissà? Fra breve, forse, sarebbe venuto ad unirsi a noi qualcuno del paese? Andandomene, rischiavo di vanificare tutti gli sforzi, tutto il tempo passato sulla collina, distruggendo una grande speranza.
Quale via scegliere? Chi poteva consigliarmi? Decisi allora di fare una cosa che non consiglierei a nessuno, rivolgermi all’Unico in grado di illuminarmi: il Santo-Benedetto-sia. Posi a Dio un “ultimatum”: un anno di tempo per farmi capire se voleva o no che restassi sulla collina. Ero deciso ad abbandonare il progetto se non mi fossero stati dati due segni: l’arrivo di una famiglia del paese, araba o ebrea, intenzionata a stabilirsi a Nevè Shalom; e il dono della somma necessaria per dare inizio alla costruzione del futuro Villaggio della Pace. Era il 1976.
Questi due segni mi furono concessi qualche mese dopo. Confesso che non ne fui particolarmente entusiasta perché, per mancanza di fede, avevo nel frattempo previsto altre cose, fatto altri piani. Ma sperimentavo così, una volta ancora, quanto possa essere scomodo vedere Dio prendere sul serio le nostre richieste: ci si trova allora impegnati, e non è più possibile tornare indietro.
Alex e Tsafi, educatori ebrei nel Villaggio della Gioventù di Ben-Shemen, salirono sulla collina per restarvi. Dotati di rare qualità umane e pedagogiche, impressero subito un vigoroso impulso alla vita comunitaria di Nevè Shalom. Grazie alla loro presenza, altre famiglie si unirono a noi. E quando, un anno dopo, Alex e Tsafi dovettero ritirarsi per ragioni personali, l’impulso era stato dato, e Nevè Shalom poté continuare.
Il secondo segno, il denaro necessario, si ebbe con la visita di un gruppo di tedeschi dell’associazione Pax Christi. Colpiti dal contrasto fra la grandezza dei nostri scopi – la riconciliazione e la pace – e la povertà dei nostri mezzi, decisero di aiutarci. Grazie al loro interessamento, doni provenienti dalla Germania ci permisero di costruire un raccordo con l’acquedotto nazionale, di acquistare un generatore elettrico, di costruire toilettes al posto dei buchi per terra fino a quel momento utilizzati, di installare pannelli solari sui tetti e di sistemare la strada d’accesso. Insomma abbiamo iniziato ad essere moderatamente civilizzati, anche se spero e credo che non saremo mai troppo civilizzati.
Nevè Shalom poteva ormai vivere una vita quasi normale, e “la scuola per la pace” cominciare a funzionare.
Oggi il villaggio ospita settanta abitanti, perché ci manca il denaro per costruire più case; c’è infatti una lunga lista d’attesa di famiglie ebree e arabe che vogliono venire. Di questi settanta abitanti metà sono ebrei e metà arabi palestinesi, ma tutti cittadini d’Israele. E’ interessante osservare che in Israele il 17% della popolazione è costituito da arabi palestinesi, mentre noi a Nevè Shalom ne abbiamo il 50%, dunque ci sentiamo completamente uguali. Queste settanta persone sono divise in quindici famiglie con trenta bambini. Abbiamo la prima e sola scuola del paese dove i bambini ebrei e arabi fra gli zero e i nove anni sono educati insieme nelle due lingue, da un’équipe di insegnanti metà ebrei e metà arabi, per consentire la conoscenza delle due tradizioni. Diamo molta importanza al fatto che ognuno sia molto fedele alla propria tradizione, alla propria identità.
Le attività della “scuola per la pace”, dirette da un gruppo di educatori competenti, consistono essenzialmente in incontri di giovani, arabi e ebrei, alunni di scuole medie superiori, e nella formazione di educatori e monitori per ì giovani, perché questi imparino a conoscersi e ad apprezzarsi a vicenda. Sormontare ferite e pregiudizi è cosa assai ardua; ma la nostra ambizione è di contribuire a preparare una nuova generazione di cittadini ebrei e arabi, maturi e responsabili, capaci di liberarsi dai miti e dalle manipolazioni politiche provenienti dall’esterno, per risolvere ì loro problemi in spirito di dialogo e fare la pace, cosa di cui i più anziani sembrano così incapaci.
Abbiamo una struttura democratica: ogni anno eleggiamo il segretario e il segretariato, che equivale al sindaco e al consiglio municipale. Il segretario oggi in carica è un musulmano, uno degli anziani di Nevè Shalom. Eleggiamo inoltre anche sette, otto comitati per far fronte a lavori diversi: per le opere di cultura, educazione, agricoltura, per la riparazione delle case, per la ricezione di nuovi membri, per le relazioni con l’esterno, e così via. Ogni mese c’è un’assemblea generale alla quale tutti possono partecipare, ma solo gli abitanti hanno diritto di voto; ogni decisione ordinaria è presa dalla maggioranza semplice, mentre per le decisioni importanti, come per esempio eleggere nuovi membri, occorre la maggioranza dei 2/3.
Abbiamo cominciato con una struttura di kibbutz, cioè si mangiava insieme e si mettevano m comune i guadagni, ma molto presto abbiamo visto che non era l’ideale per Nevè Shalom, perché, come ho detto, vogliamo che ogni famiglia conservi le proprie tradizioni. C’è infatti una grossa differenza fra il modo di vivere e di mangiare di una famiglia araba di Galilea e una famiglia ebrea nata in America. Il vero nucleo è la famiglia, ognuno conserva i suoi guadagni, pagando una certa somma alla comunità ogni mese. Dal punto di vista economico ogni famiglia si guadagna la sua vita lavorando, sia sul posto, nella scuola per la pace, alle riparazioni, nell’agricoltura, nel segretariato, sia prendendo una macchina e lavorando fuori in una città vicina. Per le grandi spese siamo stati aiutati sin dal principio da un’associazione di amici di diversi paesi. Abbiamo adesso 12 associazioni in paesi dell’Europa, tra cui l’Italia, dell’America, e fra poco anche dell’Australia.
La prima idea di Nevè Shalom era un’idea non dico religiosa, perché non mi piace questa parola, in quanto in quella parte di mondo fa pensare a qualcosa di chiuso, che divide, ma direi piuttosto che era un’idea di fede. La fede unisce, la fede nel Dio uno. Tra i membri di Nevè Shalom vi sono dei credenti, ma la loro fede non influisce direttamente né sulla vita della comunità, né sulle attività educative.
Molti di quelli che sono venuti erano agnostici. Dio non è il motore della loro vita, seppure è nella loro vita. Allora per me questo costituiva un problema.
Ho pensato che nella Bibbia c’è scritto che un giorno, battuto dal vento caldo del deserto che dissecca, nostro padre Abramo, mentre era seduto accanto alla sua tenda, vide passare tre uomini stanchi e polverosi. Li forzò ad entrare sotto la tenda e diede loro la migliore ospitalità orientale. La Bibbia narra poi che questi tre uomini erano angeli di Dio. Dunque se si agisce per vera carità, qual è la frontiera tra l’agire per l’amore di Dio e l’amore per il prossimo? Io non vedo frontiera se vi è autentica carità.
Questi uomini, queste donne, queste famiglie che vivono sulla collina, hanno rinunciato alle comodità e alla sicurezza del loro kibbutz, del loro villaggio o della loro casa in città, per venire a vivere qui, dove la vita è dura e scomoda e dove c’è ben poca sicurezza per l’avvenire. L’hanno fatto perché non potevano sopportare di vivere in questo paese, dove due popoli non cessano di combattersi, senza far qualche cosa per aiutarli a riconciliarsi nella pace. Penso che un giorno, magari dopo la loro morte, Gesù apparirà loro e gli dirà: “Avevo fame di riconciliazione e di pace, e voi mi avete dato da mangiare…”. Credo che queste persone di buona volontà, questi operatori di pace, siano essi pure figli di Dio, che amano e servono il Signore anche senza conoscerlo.
Questa certezza di fede mi assicura che Nevè Shalom sta compiendo l’opera di Dio. E quando, seduto nella mia camera insieme a qualche credente, offriamo e condividiamo il Pane e il Vino eucaristico, abbiamo coscienza di intercedere per tutti coloro tra i quali viviamo.
Spesso io ed altri abbiamo avuto il desiderio della presenza della dimensione verticale sulla collina. L’architetto aveva previsto una casa di preghiera; una casa triangolare per simbolizzare le tre religioni monoteistiche.
Un giorno i compagni mi dissero che era venuto il tempo per costruire la mia casa di preghiera, che avevo aspettato abbastanza. Ho cominciato con l’aprire un conto in banca, che è ancora molto basso. Poi, ripensandoci, mi sono detto che non voglio una casa di preghiera che sia basata solo sulla tolleranza, ma deve essere voluta anche dagli altri. Non sapevo però cosa fare.
Una mattina, nell’estate del 1983, passeggiando all’alba in una foresta accanto a Nevè Shalom, mi sono fermato per ascoltare il silenzio, ho sentito gli uccelli cantare e ho capito che loro mi insegnavano come lodare Dio. In ebraico ci sono due parole per dire silenzio: scetìka, vuol dire assenza di chiasso e di parole; dumia, è quel silenzio profondo in cui il profeta Elia ha sentito parlare Iddio nell’Oreb del Sinai. Il salmo 65, che disgraziatamente è molto mal tradotto nelle Bibbie occidentali, comincia così: “Per Te il silenzio profondo (dumia) è lode, o Dio, in Sion”, cioè Gerusalemme, la città dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani.
La sola lingua comune con cui si possa lodare Dio insieme è il silenzio profondo, stando tutti insieme uniti nella città fraterna al di là del lavoro quotidiano, delle dispute di ogni giorno, uniti a quel che è al di sopra. Alcuni lo chiamano Dio, altri non gli danno nome, ma c’è qualcosa che fa sì che siamo uniti e che lo sentiamo profondamente.
Tutti d’accordo abbiamo inaugurato nel dicembre del 1983 uno spazio di silenzio, in una parte molto isolata, molto bella della collina e dall’inizio del 1989 abbiamo intrapreso la costruzione di un duomo di silenzio, una semplice cupola bianca, che sorge in piena natura, in solitudine. Essa segna il villaggio con la sua impronta, e i viaggiatori che salgono da Tel Aviv a Gerusalemme, o che arrivano dal Sud e da Gaza, possono intravvederla da lontano, Non abbiamo ancora finito la porta e la finestra, la sola decorazione interna saranno tappeti e cuscini per sedersi. La sola lingua parlata da chi vorrà venire a meditare sarà il silenzio profondo.
E poi il progetto prevede un po’ più lontano, sullo stesso spazio di silenzio, la costruzione di un’altra casa, che sarà una casa di studio e di incontro. Ci sono molte persone che dicono che nel corso dei secoli i credenti hanno fatto cose terribili nel nome di Dio. Nel cristianesimo l’inquisizione ha fatto tutto in nome della verità e della fede, Komeini in nome del Corano ha ucciso migliaia di persone, gli ultranazionalisti d’Israele, facendo una lettura selettiva delle Scritture, vogliono espellere gli arabi da Israele e dalla Cisgiordania.
Nelle Scritture si può trovare quel che si vuole, citando qui o lì un passaggio; bisogna quindi fare una lettura complessiva, globale, per vedere che l’uomo ha la sua dignità, che è creato ad immagine di Dio, per esercitare la libertà e la responsabilità per il bene della città.
Allora noi cerchiamo insieme, alla luce degli avvenimenti politici, della violenza, della mancanza dei diritti dell’uomo, una base comune nelle nostre tre Scritture Sante, per ottenere giustizia, amore fraterno e pace.
Dunque Nevè Shalom è un luogo pluralistico dove ci sono ebrei ed arabi, aderenti a partiti diversi, ci sono credenti in Dio e non credenti, ma quello che ci unisce è la risoluzione comune di voler dare tutta la nostra vita alla riconciliazione nella giustizia di questi due popoli.
C’è un programma dei nostri educatori, di cui non posso entrare nei dettagli, i quali nelle diverse scuole in Galilea, nel Neghev, intorno a Tel Aviv e altrove parlano della pace e di Nevè Shalom, Quando c’è interesse prendono allievi arabi da una scuola e allievi ebrei da un altra, sempre della stessa regione geografica, perché possano poi incontrarsi. Vedono questi due gruppi parecchie volte separatamente e, quando sono maturi, vengono invitati a venire sulla collina per tre giorni, dove sono sottoposti ad un programma psicologico per poter imparare a scoprire che al di là della sfera di pensiero e di vita che è loro, c’è anche la sfera di vita e di pensiero dell’altro.
E’ una scoperta molto sconfortante, perché se penso che ho ragione e che l’altro ha torto, le cose sono molto semplici e posso dormire la notte senza problemi. Se invece scopro a poco a poco che forse ho un po’ di torto è che l’altro forse ha un po’ ragione, la mia coscienza comincia a funzionare e devo andare più lontano per capire, se così si può dire, la tecnica per fare domani la pace.
La pace verrà soltanto per mezzo di compromessi: se io voglio il cento per cento della giustizia che mi è dovuta, non ci sarà mai la pace perché si creerà sempre una nuova ingiustizia verso gli altri. Per comperare questa perla preziosa che si chiama pace ognuno deve rinunziare ad una parte della giustizia che gli spetta.
La nostra speranza è formare una nuova generazione di cittadini ebreo-arabi, che abbia imparato ad aprirsi alle ragioni dell’altro, al dialogo, a mettere in dubbio i propri punti di vista per accogliere quanto di buono e di vero vi è nelle idee degli altri. Una nuova generazione potrà finalmente fare quella pace che i genitori non possono fare, perché sono troppo feriti, gli uni dagli altri, perché prigionieri di pregiudizi troppo profondi. Invece i giovani possono stabilire dei rapporti di amicizia e trovare le giuste risposte ai loro problemi.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 13.3.1989 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.