Una televisione locale, intervistandomi, mi ha posto questa domanda: “Con che animo adesso torna in Cina?”. In maniera forse un po’ banale, ma con un’immagine esatta dei miei sentimenti, ho detto: “Torno in Cina come da una fidanzata che mi ha tradito, e con un po’ di speranza che lei faccia il confronto tra il fidanzato abbandonato e quello nuovo, e che alla fine ci ripensi”.
In Cina è successa una tragedia che non è stata dimenticata, che continua a tenere desta l’attenzione nonostante tutto quello che è successo dopo: dal muro di Berlino alla fucilazione di Ceausescu, dall’incipiente guerra civile dell’Unione Sovietica alla riunificazione tedesca. Tien An Men resta un fatto che, come altri grandi avvenimenti della storia, ha colpito la coscienza civile del mondo. Nella mia vita ho assistito ad eventi molto più gravi, più sanguinosi e rischiosi, a cominciare, per esempio, dall’incendio del Cairo: una città in fiamme in mezzo a bande di uomini che oggi hanno dato origine al terrorismo islamico; ho rischiato molto di più e ho visto più morti a Budapest la sera che cominciò la rivolta mi trovai ad essere l’unico corrispondente occidentale in città; ho rischiato di più durante la guerra d’Algeria sulle montagne intorno ad Algeri dove era incominciata la battaglia. A Pechino, invece, non mi sono esposto al pericolo, i morti sono stati la decima parte di quelli di Budapest, la centesima parte delle vittime della guerra civile in Algeri. Tien An Men è stato un fatto dì gioventù, sono stati i giovani e gli studenti con la loro immaturità e i loro entusiasmi, con la loro spesso non esatta bussola politica ma con la forza travolgente delle loro speranze, a tener vivo ancor oggi il ricordo nella coscienza di tutto il mondo.
Perché Tien An Men sta ancora nella mente e nei ricordi di milioni di uomini? Bisogna tener presente che Piazza Tien An Men ha avuto un senso criminoso inferiore rispetto, per esempio, alla vicenda di Budapest: in Ungheria c’erano carri armati di una potenza straniera che sparavano sugli operai e sugli studenti figli di operai di un altro Paese. I giovani di Budapest andavano a morire con una folle incoscienza, andavano incontro alla morte cantando e sfidando i carri armati sovietici e hanno mostrato un’incredibile bellezza eroica. Ma sui ponti del Danubio a Budapest non c’erano telecamere, ed è proprio la televisione che l’anno scorso ha provocato commozione in ventisette paesi, dal Giappone all’Australia, all’Europa, inquadrando le facce di quei giovani studenti cinesi. Le immagini ci hanno dato in diretta lo svolgersi quotidiano della tragedia.
La tragedia è facilmente ricostruibile: si è trattato di un crimine commesso dalla cecità politica di un regime comunista nel quale ha improvvisamente preso la mano la parte più retriva e mediocre della dirigenza, cioè i militari, i burocrati del partito. I giovani si sono scagliati contro costoro e contro la riforma che andava troppo a rilento, che alimentava ingiustizie e favoriva la corruzione.
La protesta per quarantacinque giorni si è svolta pacificamente: agli studenti si è poi unita la gente, un po’ di operai (non tutti, altrimenti si sarebbe trattato di una guerra civile), ma non è mai stata rotta una vetrina o danneggiata una macchina o commesso un reato. Come corrispondente straniero potevo guidare la macchina fino a Piazza Tien An Men e la lasciavo aperta per ore senza che nessuno toccasse niente. Nessuno mi ha mai rubato un paio di occhiali, un taccuino o una penna biro, cose che in un paese povero come la Cina possono essere oggetto di furto.
Il quaderno di richieste degli studenti era lo stesso di tre anni prima a Shangai, ove era cominciato lo stesso movimento sciolto dopo quindici giorni. Allora sindaco e capo a Shangai era l’attuale leader cinese Giansemin che nel giro di due settimane sistemò la situazione andando nelle università e parlando con i giovani: “Avete ragione, la riforma va troppo a rilento; se volete la rock-music di quel cantante americano ve lo lascio venire, riconosco che la politica ha sbagliato impedendo il suo concerto; vi daremo tutto, ma voi promettete di non fare incidenti e di studiare”. Così nell’86 la contestazione studentesca si risolse presto perché a Pechino c’era un vertice compatto: Deng Xiao Ping era al timone della riforma, aveva un segretario del partito e un primo ministro che erano suoi discepoli. Tre anni dopo le stesse università, la Beidà e quella di Pechino, il Politecnico di Shangai e l’Istituto di Scienza e Tecnologia di Sian, dove il comitato di coordinamento funziona, hanno rilanciato il movimento. Perché è finita in tragedia? Perché al vertice non c’era più unità: c’era un segretario di partito a capo della corrente riformista e un primo ministro che è diventato il pupazzo dei militari contrari alla riforma. I militari sono contro la riforma perché Deng Xiao Ping, negli ultimi quattro anni, aveva licenziato un milione di soldati compresi duecentocinquantamila ufficiali; aveva capito che per alimentare l’economia del Paese doveva tagliare i fondi alla difesa.
Pochi giorni fa il primo ministro nell’ultima assemblea nazionale del popolo ha aumentato il bilancio della difesa del 12%. Ai militari stanno pagando quelli che io chiamo i “trenta danari di Giuda”: avendo soppresso la rivolta ora ricevono un aumento della paga, portaerei, sottomarini, nuovi carri armati.
La vittoria dei “falchi” e dei militari
Quella rivolta iniziata come una festa di democrazia popolare è finita con la vittoria dei falchi, dei conservatori, dei militari. La Cina di oggi è una specie di dittatura militare burocratica che fa tristezza perché, come dicevo, in una notte di sangue sono stati gettati al vento dieci anni di lavoro di riforma. Intenzionalmente si è lasciato che la protesta degenerasse. Anche Roma o Milano o Parigi o New York se rimanessero bloccate per cinquanta giorni consecutivi senza più servizi pubblici, rifornimenti ai mercati, ecc…arriverebbero al caos totale; provate ad immaginare che cosa ciò significhi per una città come Pechino con dieci milioni di abitanti. Si è lasciata degenerare la situazione – dicevo – e così agli studenti pacifici si sono aggiunti i provocatori. Il 4 giugno, su ogni albero del viale di Piazza Tien An Men erano state appese camicie e stivali di cuoio dei soldati, alcuni di loro sono stati anche sbeffeggiati: queste azioni non sono state certamente fatte dagli studenti ma dai provocatori. Ora è evidente che il potere aspettava proprio questo per rendere legittimo un intervento dei carri armati e questa è stata la tragedia.
Il risultato è che oggi la Cina viene penalizzata, a mio parere, in maniera eccessiva, fermo restando il massacro di Tien An Men e le sue ignobili ragioni politiche e morali. Chi sta pagando in questo momento non è la banda del signor Li Peng o dei quattro “tromboni” della vecchia guardia militare elle detengono il potere, ma sono un miliardo e duecento milioni di cinesi che già stavano assaporando i vantaggi del progresso e del benessere della riforma. L’estate scorsa, quando sono tornato a Roma gli studenti cinesi in Italia sono venuti da me perché andassi dai nostri dirigenti politici a chiedere le sanzioni e la rottura dei rapporti diplomatici. Ebbene, questi studenti, che studiano all’estero e che non sono figli dei contadini analfabeti o degli operai o dei ferrovieri dell’interno della Cina, ma sono figli della nomenclatura e dei dirigenti del Paese, chiedevano un così gravoso provvedimento contro il loro Paese e i loro padri che li stavano mantenendo all’estero. Chiedevano la stessa cosa che l’onorevole Occhetto aveva proposto al presidente Cossiga, Occhetto che definiva Li Peng “fascista” ma a cui aveva stretto cordialmente la mano pochi mesi prima.
Ad un programma di una Tv locale, un operaio mi ha telefonato per chiedermi che cosa penso della definizione che lui durante un comizio tenutosi nella sua fabbrica durante il mese di giugno aveva dato di Li Peng e dei dirigenti cinesi definendoli “nazisti rossi”. Gli ho risposto che sul piano emotivo lo comprendevo benché la definizione fosse politicamente inesatta, ma gli ho ricordato che quando i carri armati ET 54 sovietici erano entrati a Budapest, in un Paese straniero, uccidendo diecimila o tredicimila giovani ungheresi, nelle fabbriche italiane del tempo nessuno si era mai alzato in un comizio per definirli “nazisti rossi”. Oggi è possibile affermare certe cose: questo significa che la coscienza del mondo è progredita.
La politica farisaica dell’Occidente
Il risultato di quanto è avvenuto è questo: la Cina sta pagando troppo penalizzata dalla politica, un po’ farisea delle nazioni occidentali che li hanno deciso di seguire il sentimento e la coscienza della gente, coscienza che si è andata formando guardando le immagini della Tv.
All’epoca di Franco, per esempio, quando questi impiccava con la garrotta i patrioti baschi e catalani, che oggi purtroppo sono diventati terroristi, nazioni democratiche come la Francia o l’Inghilterra o gli Stati Uniti, pur condannando apertamente il suo regime, continuavano a fare ugualmente affari con la Spagna. Le sanzioni non risolvono niente, anzi, danno al tiranno l’occasione di dire: “Ecco vedete, per colpa dei sovvertitori oggi i capitalisti non ci aiutano più, non abbiamo la carne e lo zucchero, non possiamo più fare la tale fabbrica perché non ci prestano i macchinari”. Quel che in realtà ha ferito la coscienza del mondo si ritorce su un miliardo e duecento milioni di cinesi che non hanno colpa.
I cinesi stanno vivendo in una stretta economia che fa stringere il cuore: non hanno cento dollari disponibili per una operazione con l’estero, sono costretti a rinviare progetti vitali per il successo di quella riforma che potrebbe cambiare il modello di comunismo cinese e che aveva avuto dieci anni di anticipo su quello sovietico.
Quando frequentano noi inviati dall’estero non parlano perché sono intimoriti dai dirigenti i quali hanno paura che passiamo informazioni su quello che sta succedendo nell’Europa comunista: non hanno ancora visto le fotografie dei Ceausescu fucilati e le immagini del popolo di Berlino in festa dopo la caduta del muro. Gli studenti sono ancora spaventati, le matricole dell’Università di Beidà sono state mandate a centocinquanta chilometri da Pechino in un campo militare con lezioni di marxismo e di leninismo fatte da professori militari e ufficiali ed esercitazioni militari.
Devo trarre qualche conclusione amara su questo episodio di Piazza Tien An Men. Sono quarant’anni che giro il mondo e ho dato i dieci anni più vigorosi della mia vita alla Cina. Dieci anni di preparazione e di studi e ora che mi accingo a tirare i remi in barca, mi amareggia pensare che il mio “mal di Cina” era soltanto un’illusione.
Un seme su un terreno insanguinato
Non accetto volentieri di sbagliare alla mia età, mantengo viva la speranza che Tien An Men sia un seme che diventi frutto seppur gettato su un terreno insanguinato, ma voi sapete che il sangue è un buon fertilizzante. Non bisogna avere fretta con i cinesi perché il loro senso del tempo è molto diverso dal nostro. Mi ricordo quando nell’aprile 1980 venne per la prima volta in Cina Berlinguer, Den Xiao Ping lo ricevette e lo abbracciò dicendo: “Compagno Berlinguer, sei venuto a trovarci, i nostri due partiti non hanno avuto rapporti per un breve periodo di tempo, cioè dal’60, ma da oggi quel che ci divideva dal compagno Togliatti non ci divide più”. Un breve periodo di tempo per i cinesi possono essere anche vent’anni. Per me è insopportabile pensare che per vent’anni o più debba durare il trionfo di questa banda che vuole girare l’orologio della storia all’indietro.
La Cina è un paese da aiutare e dal punto di vista del mercato ha numeri che farebbero impazzire i nostri computers. Per esempio, se i ragazzi cinesi facessero come voi ragazzi italiani che vi comprate un paio di pantaloni a stagione, quattro paia per un miliardo di persone farebbero quattro miliardi di pantaloni, quanti Carrera e quanti Levi’s!
Il futuro della Cina ha i numeri che interessano tutto il mondo, pensare che questo venga bloccato per la mediocrità e la criminalità di una piccola élite al vertice dà enormemente fastidio.
Sono stato spesso rimproverato di essere troppo freddo nei confronti dei giovani accusandoli di immaturità politica. Nel giovani c’è sempre una vena di immaturità politica che in Cina ha provocato dei danni perché ha favorito i reazionari, i conservatori e i burocrati. Uno dei capi della protesta si chiama Ven Dan, è un ragazzo laureando in storia, ora può essere condannato a morte per aver scritto sul New York Times un manifesto di cinquecento parole in cui spiegava i presupposti ideologici del movimento studentesco. Ricordo una frase alla quale io obiettai fin dall’inizio: “La Cina ha urgente bisogno di un meccanismo politico occidentalizzato per risolvere i suoi problemi”. Sono andato dal ministro degli Esteri a chiedere la grazia sottolineando la sua immaturità politica e spiegando che in un Paese come il mio se uno studente scrive: “L’Italia ha bisogno di un sistema politico sovietizzato” non viene né arrestato né rischia di essere condannato a morte.
La Cina ha già avuto un sistema politico occidentalizzato dalla caduta della dinastia Ming nel 1911 fino alla sconfitta di Cian Gai Shek nel 1949.
Questo sistema occidentalizzato con i suoi partiti liberale e socialista aveva crealo una Shangai che negli anni ’30 era peggiore della New York o della Parigi degli anni’90 con problemi immensi come droga, mafia, inquinamento e sfruttamento industriale straniero. La Cina deve restare socialista, mentre a Mosca il fallimento del comunismo è talmente evidente che i primi ad ammetterlo sono i capi comunisti.
In Cina l’unico tentativo che può garantire un successo per far uscire dalla miseria il paese è una forma di socialismo umano e liberale, una Cina capitalista non si potrebbe immaginare diventerebbe una giungla come negli anni ’30 quando è scoppiata la guerra civile. I ragazzi cinesi da una parte hanno questa esigenza libertaria che è giusta in quanto chiedono garanzie democratiche, dall’altra non si sono resi conto che conducendo fino agli estremi questo tipo di battaglia hanno finito per fare a breve termine gli interessi della reazione conservatrice e ortodossa, e a lungo termine hanno sprecato un’illusione che non servirà perché la Cina non può uscire dal campo socialista, può solo aspirare ad un socialismo liberale.
Dobbiamo aiutare un Paese che ha il 7% della superficie del pianeta e il 23% della popolazione; non si può e non si devono fare battute del tipo: “Il governo cinese è un governo di nazisti rossi” oppure “Signor presidente, rompa le relazioni diplomatiche e attui sanzioni economiche contro la Cina”. Questo comportamento aumenta la mia malinconia perché non è quello giusto per guardare alla Cina. Alla Cina, nonostante tutto, bisogna guardare con speranza. Bisogna aiutarla.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 26.3.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.