Il manifesto è uno strumento artistico che vuole portarci ad una scelta giusta, vuole convincerci di ciò che non sappiamo ancora o di cui dobbiamo persuaderci. La sua struttura simbolica è codificata e deve essere comprensibile. Dopo la seconda guerra mondiale lo sviluppo della cultura del manifesto seguiva due linee principali.
Una di queste era un lavoro patetico con i simboli politici, che da quarant’anni non cambiavano perché il regime non doveva mutare. Il pubblico ha cominciato a percepire questa simbolica come vuota, non rappresentando altro che una violenza del potere. Il tratto specifico del manifesto politico era la sua immobilità, il suo non evolvere a contatto con la cultura e con l’arte del Paese: il suo stile e la sua iconografia erano sempre uguali. I soggetti erano sempre l’operaio vittorioso vestito in divisa, gli agricoltori o la madre con il figlio protesa verso un futuro radioso. In questo gruppo di figure simboliche mancava sempre l’intellettuale, forse con l’unica eccezione della figura dell’ingegnere, perché contribuiva a costruire la storia.
Ogni riferimento alla storia serviva solo a legittimare il potere, nella sua essenza però si trattava di mentire alla propria storia. Comenio, per esempio, non era quel sommo pedagogista e teologo che è, ma solo un maestro delle nazioni; Huss era solo l’iniziatore di un movimento sociale. L’abuso di questi simboli nazionali implicò che la storia sembrasse una lotta continua che da sempre tendeva ardentemente alla realizzazione del comunismo; era sparita la storia intesa come movimento spirituale in cui, al contrario, la lotta contro il potere è sempre un momento essenziale.
La seconda linea dei manifesti tendeva alla creazione di un prodotto artisticamente bello. Il manifesto voleva essere un’opera d’arte, diversa dal realismo socialista teorizzato dal potere. Negli anni Ottanta il manifesto era infatti diventato un fatto estetico, uno strumento per sé bellissimo che cercava di prescindere dai fini a cui pure serviva.
I manifesti delle prime elezioni libere cecoslovacche sfuggono a questi ostacoli, si sottraggono al simbolo politico e al prodotto bello in cui non si realizza la sintesi di forma e contenuto. I loro autori sono studenti delle scuole d’arte, fotografi, tipografi, tutti affascinati dai principi dell’esistenza dei cittadini in una società in cammino vero la democrazia dopo mezzo secolo di menzogna totalitaria. Il loro scopo, nella maggior parte delle volte, era quello di solo accentuare questi principi e metterli in luce per renderli pubblici. L’elaborazione culturale si esprime in questi manifesti solo d’istinto e indirettamente.
Il manifesto ci porta verso il futuro, ma rendendo noti a tutti i valori su cui riposa la nostra vita quotidiana: il diritto degli uomini, lo Stato di diritto, uno Stato in cui la libertà dell’uno non va a scapito dell’altro.
Quando il manifesto ricorre alla caricatura, lo fa solo con riferimento a quei simboli che erano l’origine dell’errore. L’uomo si libera dalla sua paura ridendo, il pubblico cerca di emanciparsi dalla sua angoscia mettendo pubblicamente in ridicolo i simboli politici del passato. Naturalmente il manifesto politico è sempre uno slogan che esce da un processo politico complesso, e, pur riflettendo anche la situazione della cultura, non ne è mai l’esplicazione. In questi manifesti si nota anche un gioioso rilassamento perché finalmente si possono usare, dopo tanta vuota solennità, le parole e le immagini della comune vita quotidiana. E’ un ritorno alla normalità, alle cose concrete di cui è intessuto il destino delle persone e del popolo.
Sono felice che la mostra abbia luogo a Brescia dove un gruppo di amici, a cui anch’io mi sento profondamente unito, difendeva fortemente questi principi della vita quotidiana in cui si svolge il gioco democratico. Si tratta dei valori che hanno reso possibile la dissoluzione di una illusione tragica, della illusione più atroce del nostro secolo. Ho incontrato in questa città amici che conoscono non solo la nostra storia presente, ma anche il nostro passato. Voglio ringraziarli tutti personalmente.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.12.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.