1-Permettetemi di partire un po’ da lontano e cioè dall’idea della cosiddetta “costituzione economica”: vale a dire dai principi incorporati nella nostra Costituzione e relativi ai fenomeni della produzione e distribuzione della ricchezza.
L’impianto di base dell’economia è, in quella carta, un impianto privatistico: l’iniziativa economica privata, la proprietà privata estesa ai mezzi di produzione, la libertà di lavoro, l’autonomia contrattuale, sono gli istituti cardine che devono reggere l’economia nel suo concreto sviluppo.
D’altra parte, la Costituzione prevede un modello di economia “mista”, dove, accanto alla componente privatistica poggiante sugli istituti che ho elencati, esiste una componente pubblicistica, rappresentata da uno Stato che ha un ampio potere di intervento normativo, nonché un potere di intervento come Stato imprenditore, come Stato fornitore di servizi e come Stato finanziatore. E – occorre notare – nel modello dell’economia “mista” allo Stato spetta di governare l’economia essendo presente nell’insieme del sistema economico in misura nettamente superiore a quella minima caratteristica del modello liberale classico.
Naturalmente ci sono pur dei confini a questo intervento, leggibili nella Costituzione anche se non facili a identificarsi.
Comunque non è di questi confini impliciti all’espandersi della presenza dello Stato nell’economia che per il momento è il caso di parlare.
A mio avviso, leggendo la Costituzione, disposti a cogliere una logica sistematica ed organica, si scopre che in essa esistono anche regole che chiamerei procedurali, relative al governo quotidiano dell’economia. Dentro il quadro di una economia “mista” lo Stato secondo la nostra Costituzione, non deve fare operazioni di esproprio, tanto formale quanto sostanziale, senza pagare indennizzi. Non deve governare l’economia con una politica d’inflazione alta e strutturale, cioè che duri per anni e si avvicini o addirittura superi le due cifre. Ed infine va considerata la regola fondamentale concernente la conformazione del bilancio, quale può dedursi dall’art. 81 e da altri articoli della Costituzione a quello collegati. La regola di cui parlo può enunciarsi così: che il bilancio dello Stato deve tendere verso un pareggio sostanziale, cioè verso un’equivalenza di spese e di entrate tributarie. Ovvero – in una versione della regola meno rigorosamente calvinista – se anno dopo anno il bilancio presenta disavanzi in termini moderati (nel 1983, in Costituzione economica e Corte Costituzionale, esprimevo l’opinione che il disavanzo ammissibile dovesse al massimo oscillare attorno al tasso di incremento annuo del Pil).
Questa regola è in certo senso imposta dalla logica stessa del sistema. Ciò è immediatamente percepibile solo che si rifletta poi sulle possibili conseguenze di una politica finanziaria che disattenda flagrantemente la regola. Qui basti soffermarsi su una di queste possibili conseguenze. Si immaginino bilanci che per anni e anni portino disavanzi di entità cospicuissima: per esempio dell’ordine del 10% e più del menzionato Pil (ahimè, non si tratta di immaginazione: a questo ordine di deficit si infama ormai da vari anni il nostro bilancio).
Alla lunga l’accumularsi del debito pubblico diverrebbe con ogni probabilità un peso insostenibile per la società e, per l’economia nazionale. Per far fronte agli interessi da pagarsi ai titolari di BOT e CCT occorrerebbe effettuare prelievi tributari crescenti sulle retribuzioni dei lavoratori, e cioè, in pratica, sulle entrate della nuova generazione. I giovani ad un certo punto potrebbero ribellarsi a questi imponenti riciclaggi a vantaggio della generazione anziana; e con l’arma del voto potrebbero indurre lo Stato a liberarsi di quel peso in uno dei due modi facilmente utilizzabili allo scopo: ricorrendo ad una inflazione selvaggia che annulli di fatto la portata economica del debito, ovvero annullando anche formalmente per legge il debito stesso, mediante operazioni di “consolidamento”. Si tratta però di due modi che offendono le altre regole “procedurali” di cui ho detto prima: quella contro gli espropri senza indennizzo e quella contro il governo dell’economia attraverso l’inflazione.
Le regole “procedurali” della costituzione economica non piacciono a quella parte della nostra dottrina costituzionalistica che ama autoqualificarsi “progressista”. E si capisce perché.
Quella dottrina ha per anni predicato (e talvolta predica ancora) che la realizzazione dei fini “sociali” che la Costituzione prevede – e che possono riassumersi nella promozione della causa delle classi meno favorite, contemplata nell’art. 3, secondo comma – è per la Repubblica un dovere incondizionato e di immediata attuazione. Questo dovere non dovrebbe essere assoggettato alle strettoie che impongono le regole “procedurali” (così la pensa, se intendo bene, pur dopo tutte le esperienze che si sono fatte Luciani, l’autore della recentissima voce Economia nella Costituzione per l’ultima edizione del DIGESTO dell’Utet).
Ora, è certamente vero che le regole “procedurali” impongono “strettoie” all’adozione di politiche “sociali”: ma si tratta di strettoie necessarie per il buon funzionamento dell’economia, senza il quale alla lunga anche la causa delle classi meno favorite finisce per essere danneggiata e senza il quale ad ogni modo una onesta e giusta vita nella società non può darsi.
Dunque quelle regole vanno considerate parte essenziale della Costituzione, in quanto elementi costitutivi del modello dell’economia “mista” che essa abbraccia. Ma non basta. Due di quelle regole sono state ora esplicitamente incluse nei patti di Maastricht, e se, come si spera, i patti verranno ratificati, esse costituiranno presto per noi un impegno comunitario dotato del valore di “legge superiore”.
La regola antinflazionistica – già del resto presente nell’art. 104 del Trattato di Roma – viene ribadita adesso nell’articolo che impone alla futura Banca europea di considerare come valore primario, agli effetti della sua politica monetaria, la stabilità dei prezzi.
E quanto al bilancio, il nuovo art. 104 C del trattato della Comunità europea stabilisce che gli Stati possono condurre se vogliono una politica finanziaria in deficit: ma i loro bilanci non dovranno recare “disavanzi eccessivi”. E’ con parole esplicite e inequivocabili proprio la regola che a mio avviso è contenuta, per implicito ma con certezza, nell’art. 81 della nostra Costituzione.
2- La regola di fondo dell’art. 81 è dunque quella che ho indicata. Ma le disposizioni particolari di quell’articolo rivelano, da un lato, che i suoi autori avevano ancora, del bilancio un concetto più adatto forse ad un modello liberale classico di economia che a un modello da Stato “sociale”. Dall’altro lato, le disposizioni particolari dell’articolo avrebbero abbisognato, per legare veramente le mani ad una classe politica che non aveva alcuna voglia di condurre una politica finanziaria rigorosa di specificazioni normative (a livello perlomeno di legge ordinaria e di regolamenti parlamentari) che di fatto non intervennero in misura adeguata.
L’idea un po’ antiquata che i costituenti avevano della funzione della legge di bilancio si vede nel terzo comma dell’art. 81. Quel comma prescrive che con essa non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. Soggetta a questi vincoli, la legge di bilancio si riduce ad una presa d’atto quasi meramente fotografica delle previsioni delle entrate e delle spese realizzabili dallo Stato sulla base della legislazione preesistente per fare il punto, all’inizio dell’anno, e per vedere quanto eventualmente manchi nei conti dello Stato per attuare il pareggio. Non balena il pensiero che la legge di bilancio possa essere l’occasione, attraverso l’aggiustamento di tributi e di spese, per impostare la concreta incidenza che dovrà avere, nell’anno entrante, la finanza pubblica sugli andamenti complessivi dell’economia nazionale. E l’assenza di questo pensiero sta appunto in armonia con il tipo di stato liberale classico, le cui finanze non assorbivano mai più del 10-15% del Pil e le cui variazioni non potevano dunque incidere molto sulle vicende economiche del Paese prese nel loro insieme.
Fare il punto sui conti pubblici è invece importante per lo stato liberale, perché ad esso preme davvero di arrivare, ove occorra, al pareggio (ciò rappresenta un caposaldo della sua ideologia : lo Stato, come ogni seria famiglia borghese, deve avere orrore di vivere sui debiti).
Che nelle vene degli autori dell’art. 81 scorresse un’alta parte di sangue liberale si capisce anche dal tenore del successivo comma quarto, il quale prescrive che, fatto il bilancio, ogni legge che comporti nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. Si tratta di una disposizione ispirata manifestamente dal timore che i conti dello Stato, se già non sono in pareggio, anziché tendervi se ne discostino sempre più.
Senza quel timore tale disposizione avrebbe infatti poco senso: perché, quanto a trovare in ogni caso il denaro che gli occorre, lo Stato, a differenza del privato avrebbe sempre la possibilità dell’ultimo rimedio, anche al di là del per lui non difficile indebitamento sul mercato: la stampa della carta moneta. invece, l’obbligo dell’indicare i mezzi per far fronte alle deliberazioni di nuove spese rivela il sottostante desiderio che almeno di regola, ai nuovi esborsi lo Stato provveda procurandosi maggiori entrate tributarie o stornando quantomeno danaro previamente destinato ad altre spese.
Se ogni nuova legge di spesa introducesse contestualmente un nuovo, corrispettivo prelievo tributario, in tempo breve il bilancio dello Stato, partito in disavanzo, si porterebbe al pareggio.
E’ certamente quanto auspicavano e si attendevano gli autori dell’art.81: e di questo auspicio ed attesa è testimone limpidissimo una lettera famosa del Presidente della Repubblica Einaudi al Presidente del Consiglio Pella.
Senonché, il quarto comma dell’art. 81 non prescrive rigidamente che ogni nuova, legge di spesa istituisca sempre una nuova equivalente entrata tributaria o almeno una riduzione di precedente spesa.
Ed è ovvio che non lo prescriva: perché anche lo Stato liberale, il più arcigno, aveva conosciuto, occasionalmente, la necessità di rivolgersi al credito per far fronte a esigenze improvvise di spesa (il classico manuale di scienza delle finanze di Einaudi trattava in una prima parte, della finanza ordinaria fondata sui tributi, ma in una seconda parte appunto della finanza straordinaria, che si alimentava coi crediti).
Purtroppo, però, proprio la comprensibile indeterminatezza o genericità normativa del quarto comma dell’art. 81 ha aperto la strada a politiche finanziarie che ne hanno tradito radicalmente lo spirito. Già a partire dagli anni Cinquanta le nuove leggi di spesa hanno spesso evitato di cercare una genuina copertura tributaria, lasciando solo per ipotesi più o meno “straordinarie” il ricorso allo strumento creditizio. In conseguenza, dopo un primo periodo in cui il disavanzo ereditato dalla seconda guerra mondiale tese a restringersi, la forbice fra spese e entrate tributarie ricominciò, nel bilancio statale, ad allargarsi. Negli anni Sessanta la forbice riuscì nel complesso ancora a contenersi. Poi, sotto l’impulso di richieste sempre più pressanti di riforme sociali radicali (il sistema sanitario, le pensioni, ecc.), di concessioni di maggiori stipendi all’impiego pubblico, di interventi a salvataggio nel settore dell’economia privata, e via dicendo, il divaricarsi della forbice divenne di anno in anno più vistoso e preoccupante. Forse le spinte provenienti dalla società civile in favore di spese sempre più larghe da parte dello Stato erano irresistibili e forse era inevitabile che la classe politica non volesse o potesse ricorrere all’aggravamento della pressione tributaria per farvi fronte. Forse. Ma resta la colpa della dottrina giuridica – ed in particolare di quella costituzionalistica – di non aver detto alto e forte che quel tipo di politiche “sociali”, abbinate a quel tipo di politica finanziaria, integravano una rottura del modello costituzionale. L’influenza dei giuristi sugli sviluppi della storia è probabilmente molto piccola. Ma, nel suo piccolo, bisognerebbe che essa si esercitasse sempre nella direzione giusta.
Per le materie di cui stiamo trattando essa si indirizza invece per gran parte nella direzione sbagliata. La maggior parte dei giuristi acclamava senza riserve il nuovo corso “sociale” della politica dello Stato, trascurando la violazione che subiva intanto la sapiente regola di fondo dell’art. 81.
3- Verso la fine degli anni Settanta si pensò di mettere un po’ d’ordine e di conferire una certa razionalità alla politica di spesa dello Stato: fu emanata, come è noto, la legge 468 del 1978.
Questa legge si ispira a un concetto del bilancio che a me pare in sé più adeguato di quello dei costituenti alle esigenze di uno Stato “interventista”; e per questo lato può valutarsi positivamente. Ma essa non configurò affatto regole per la confezione del bilancio che costringessero effettivamente la classe politica a rispettare lo spirito dell’art. 81 o le rendessero almeno molto difficile il discostarsene; e per quest’altro lato il giudizio deve dunque essere di netta insufficienza.
Lo Stato italiano, negli anni Settanta, riciclava già con la spesa pubblica, ben oltre il 30% del reddito nazionale e non era perciò più, da tempo, uno Stato liberale. Logico pertanto che si ritenesse conveniente avvalersi della legge di bilancio per programmare la politica finanziaria dello Stato in vista dell’impatto che essa avrebbe avuto sull’economia del Paese.
il legislatore non giudicò però opportuno, o fattibile, riformare il terzo comma dell’art. 81, che a quella utilizzazione si opponeva. Introdusse invece la figura della “legge finanziaria” che, formalmente distinta dalla legge di bilancio, doveva però approvarsi contemporaneamente a quest’ultima ed era intesa a consentire ciò appunto che il terzo comma dell’art. 81 vietava (aggiustare l’insieme preesistente delle leggi di spesa e dei tributi).
Poiché la 468 è una legge ordinaria, la “legge finanziaria” da essa prevista deve considerarsi in sostanza una legge infrauden constitutionis. Il giurista, esperto in vicende costituzionali, non si scandalizzerà peraltro troppo, e potrà giudicare la sua introduzione nel sistema come un fatto di per sé giustificabile, se è giustificabile l’interpretazione evolutiva, per fini approvabili, di un testo normativo costituzionale.
Le perplessità, e molto serie, cominciano invece dopo, quando cioè si esaminano i meccanismi che la legge 468 predisponeva per la programmazione della politica di spesa dello Stato.
La legge finanziaria avrebbe dovuto fissare per l’anno entrante il tetto massimo di indebitamento dello Stato compatibile con il rispetto degli equilibri macroeconomici del sistema.
In ragione di quel tetto avrebbero dovuto aggiustarsi le preesistenti leggi di spesa e tributarie. Le nuove leggi di spesa, che si sarebbero approvate nell’anno entrante, avrebbero dovuto trovare di regola la loro copertura in fondi già stanziati all’uopo in un bilancio confezionato nel rispetto di quel tetto prestabilito all’indebitamento. Il Parlamento avrebbe dovuto anche approvare. assieme al bilancio annuale, un bilancio pluriennale: e le nuove leggi di spesa pluriennali avrebbero dovuto rispettare le previsioni di questo secondo bilancio ed in particolare non avrebbero dovuto stabilire spese di parte corrente che non risultassero coperte da previsioni, in tal bilancio, di incrementi di entrate tributarie a legislazione stabile.
Lo scheletro della programmazione predisposta dalla legge 468 aveva una certa sua logica; ma presentava anche falle vistosissime e gravissime.
intanto, la legge 468 non precisava che nel determinare il tetto dell’indebitamento la “finanziaria” avrebbe dovuto comunque ispirarsi al principio costituzionale del “moderato deficit spending” che era contenuto, implicitamente ma chiaramente, nel quarto comma dell’art. 81 (e che poteva del resto anche dedursi attraverso argomentazioni poggianti sull’art. 47, primo comma, sull’art. 75 e su altri). La legge 468 lasciava in pratica a Governo e Parlamento il compito di predisporre a loro libera discrezione tetti di indebitamento tanto alti quanto volessero. Non richiamando il principio costituzionale, conteneva in sostanza una indiretta facoltizzazione alla spesa facile, alimentata dal ricorso al credito. Si consideri in particolare, sotto questo profilo, che la copertura delle nuove, leggi di spesa fatta, come voleva la legge 468, con riferimento ai fondi speciali prestabiliti in un bilancio annuale presentante un fortissimo disavanzo, equivale in pratica ad una copertura realizzata tutta attraverso il debito.
Ciò è reso possibile e autorizzato dalla legge 468: e ciò è naturalmente l’esatto contrario di quanto il quarto comma dell’art. 81 vorrebbe di regola, per le nuove leggi di spesa.
Inoltre né la legge 468 né le norme collegate di regolamento parlamentare ponevano ostacoli alla modificabilità da parte del Parlamento dei progetti di “finanziaria” e di bilancio presentati dal Governo.
Questo, considerata la notissima propensione dei Parlamenti contemporanei, e di quello italiano in particolare, ad abbondare senza riflettere nelle spese, significava con certezza predisporre le condizioni perché i tetti di indebitamento, già programmati con larghezza da un Governo non certo incline al rigore, venissero ulteriormente allargati.
La legge 468 non contemplava poi istituti capaci di determinare con sufficiente certezza la portata effettiva dei costi che le nuove leggi di spesa – specie quelle pluriennali – finiscono per porre sulle spalle dello Stato. E l’assenza di questi istituti rendeva del tutto problematico il rispetto reale dei limiti che il sistema programmatorio di “finanziaria” e bilanci (annuale e pluriennale) avrebbero prescritti. Come, in tali condizioni, avrebbe potuto dirsi, al momento di fare una nuova legge di spesa, se essa sfondava o meno un tetto prestabilito?
Infine, la legge 468 non prevedeva alcuna forma di controllo esterno sull’effettiva osservanza da parte della legislazione di nuova spesa delle prescrizioni di “finanziaria” e bilanci, e da parte di questi ultimi dei principi costituzionali.
Il feticcio della “sovranità” dei Poteri politici (Governo e Parlamento) non permise nemmeno di ipotizzare ciò che, nelle circostanze dello Stato contemporaneo, è diventato uno strumento, se non indispensabile, certo notevolmente assai utile per garantire che le spese dello Stato non subiscano paurose sbandate: di Poteri non politici, “neutrali”.
Che cosa è accaduto dopo il 1978, tutti sappiamo. E si tratta di cose per certi aspetti scandalose.
Per cominciare, le Camere, con l’inaudito, vergognoso assenso dei loro Presidenti, hanno per lungo tempo votato per ultimo il primo articolo della legge finanziaria, quello che fissa il tetto all’indebitamento ammissibile: con ciò rovesciando, anzi annullando la logica programmatoria della legge 468, in quanto quel tetto che avrebbe dovuto determinarsi in base a oggettive considerazioni macroeconomiche e avrebbe dovuto di rimbalzo condizionare tutte le successive scelte di adattamento di leggi di spesa e tributarie, divenne la pura e semplice ratifica a posteriori, a pié di lista, delle variazioni delle spese e dei tributi che al Parlamento piacesse, con la “finanziaria”, di effettuare.
Com’è ovvio, quelle variazioni, liberate da qualunque previo vincolo programmatorio, non andarono mai nel senso di restringere la forbice del disavanzo. Già il Governo quella forbice la proponeva ben larga. Il Parlamento, con quel suo metodo del votare il primo articolo della “finanziaria” per ultimo, sempre ulteriormente la divaricò, esercitando quel potere di emendamento che nessuno si era preoccupato, se non di togliergli, di incanalare e di contenere.
A dire il vero non bisogna esagerare sotto questo aspetto le colpe del Parlamento: perché se “finanziaria” e bilancio usciti dalle sue mani sempre accentuarono i passivi previsti dai progetti governativi, questi per loro parte nascevano già flagrantemente in dissonanza con lo spirito dell’art. 81.
Le colpe del Parlamento sono invece insigni, di certo, per quanto riguarda la nuova legislazione di spesa, successiva all’approvazione dei bilanci.
Perché per un verso o per l’altro, per via di calcoli sbagliati o per altre ragioni, le notissime leggi di origine parlamentare, rimaneggiate largamente da emendamenti parlamentari, hanno di anno in anno accumulato doveri di spesa per lo Stato che, alla fine, facevano saltare le previsioni della “finanziaria” in vigore e in autunno costringevano alla impostazione di una “finanziaria” nuova con un disavanzo anche più largo. Il Governo, del resto, quando proponeva nuove spese, non rispettava quei limiti che pretendeva i parlamentari e il Paese dovessero rispettare.
I risultati di questa politica finanziaria, che nessuno sforzo ha fatto, anno dopo anno, per contenere i passivi di bilancio, parlano da sé.
Le spese pubbliche, che costituivano nel 1970 il 33% del reddito nazionale, oggi assorbono oltre il 50% del Pil.
Un quinto circa della spese pubbliche, e cioè il 10% del Pil, viene coperto, ormai da qualche anno, con il ricorso al credito. il volume complessivo del debito pubblico ha superato il volume del reddito nazionale annuo e, continuando il ritmo attuale dei disavanzi di bilancio, assommerà a più del doppio nel giro di circa un quinquennio.
La situazione dell’economia italiana si è, in conseguenza, gravemente deteriorata. Il bisogno dello Stato di reperire sul mercato (non volendosi stampare troppa moneta) i crediti necessari a colmare le sue passività, schiaccia le esigenze di finanziamento delle imprese. Ne soffre il nostro sviluppo industriale e la capacità di competere all’estero: mentre è di tutta evidenza – e non viene negata da nessuno – che i servizi che lo Stato fornisce non valgono assolutamente il 50% del reddito nazionale che assorbono per finanziarsi.
Le condizioni delle nostre finanze sono tali che, in base ai parametri convenuti a Maastricht, rischiamo di non essere ammessi alle fasi successive del processo di unificazione europea (dovremmo in breve tempo ridurre il deficit di bilancio al 3% del Pil e il volume del debito pubblico al 60% d’esso; o dovremmo perlomeno dimostrare d’essere seriamente avviati per quella strada e capaci comunque di centrare alla fine quei bersagli).
Da capo, val la pena di notare che la nostra dottrina giuridica “progressista” trova mille scusanti per ciò che è stata la nostra politica finanziaria dopo il 1978 (o almeno ne trovava fino a poco tempo fa). Da un certo punto di vista è facile capire le ragioni dell’atteggiamento di quella dottrina.
Per evitare una politica così dissennatamente dispendiosa, tra l’altro, sarebbe occorso – e tuttora occorrerebbe – non negare i principi dello Stato “sociale”, ma fissarne gli obiettivi a livelli almeno per adesso assai più modesti e più realistici.
Bisognerebbe anche adottare severe leggi in materia sindacale, in materia di diritto di sciopero e in materia di rapporti di lavoro, idonee a ridurre la capacità di ricatto dei lavoratori che chiedono aumenti di salario e di stipendio non corrispettivi a reali aumenti della produttività.
Bisognerebbe che tutta la cultura, giuridica e non, si impegnasse a educare il Paese a moderare le sue richieste nei confronti dello Stato.
La mentalità dei “progressisti” ripugna nel suo profondo ad accogliere ognuna di queste varie prospettive.
4- Ad ogni modo, quasi tutti sono oggi disposti ad ammettere che l’esperienza della legge 468 è stata fallimentare. Se ne è persuasa già da qualche anno anche la classe politica, la quale, nel 1988, ha apportato qualche ritocco alla figura della legge finanziaria, cercando di attenuarne le potenzialità di veicolo per crescenti disavanzi. Ci voleva però ben altro che una legge di superficiale riforma della legge 468 per realizzare una cura adeguata al male. I più sono oggi del parere – ed io mi colloco tra essi – che ci sia bisogno per combattere quel male, di una profonda riforma dello stesso art. 81 della Costituzione. Una riforma – sia ben chiaro e almeno per ciò che mi riguarda – non già diretta a ripudiare lo spirito o la regola di fondo che abbiamo visto sottostare alle sue disposizioni; ma diretta ad introdurre nuove disposizioni destinate a fornire un vero, efficace mordente a una regola di fondo che, finora, è risultata essere all’atto pratico del tutto disarmata.
Non esporrò qui direttamente quella che a me sembra la soluzione di riforma costituzionale più valida. Mi limiterò ad esaminare criticamente le due proposte di riforma forse più importanti e autorevoli che sono state elaborate di recente e che sono state presentate come progetti di revisione della Costituzione nel corso della decima legislatura. L’esame sarà di necessità molto succinto, e perciò inadeguato alla complessità dell’argomento.
Me ne scuso in anticipo.
5- Il senatore Carli ha espresso l’opinione che occorra abbandonare, dopo le esperienze fallimentari fatte, l’idea di utilizzare il bilancio come strumento programmatorio e che convenga ritornare alla volontà originaria dei costituenti: alla “sapienza montanara” (così egli la definisce) degli Einaudi e dei Vanoni, i quali in sede di approvazione del bilancio non volevano modificazioni di leggi preesistenti ma solo un accertamento del disavanzo esistente, che si sarebbe poi trattato, nel fare leggi successive di spesa, di non aggravare ma anzi di ridurre il più rapidamente possibile.
In un certo senso il progetto di revisione costituzionale presentato dall’onorevole Altissimo e dal senatore Fiocchi costituisce la traduzione in articolate disposizioni delle esigenze di cui si fa portavoce l’opinione di Carli.
Secondo il progetto Altissimo-Fiocchi le Camere dovrebbero approvare sei mesi prima della presentazione del progetto di bilancio preventivo annuale da parte del Governo il limite massimo all’autorizzazione a contrarre prestiti sotto qualunque forma per i cinque anni successivi: e questa sarebbe una misura di programmazione. Ma poi le Camere, nell’approvare il bilancio preventivo, non dovrebbero poter stabilire nuovi tributi e nuove spese. il voler ribadire l’attuale terzo comma dell’art. 81 significa – se non mi inganno – prescrivere l’eliminazione in radice della legge finanziaria. E del resto quell’eliminazione corrisponde alla logica delle disposizioni che seguono in materia di successive leggi di spesa, alla cui copertura è escluso assolutamente si possa provvedere mediante riferimento ad eventuali fondi speciali predisposti.
Stabilisce infatti il progetto:
“Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve provvedere ai mezzi per farvi fronte per l’intero successivo quinquennio. Tali mezzi possono consistere esclusivamente in: riduzioni di altre spese, introduzioni di nuovi tributi o aumento di tributi esistenti e, esclusivamente per il finanziamento delle spese in conto capitale, ricorso al mercato finanziario”.
Gli unici mezzi di copertura ammessi per ogni nuova legge di spesa sono precisamente enunciati, a differenza di quanto fa ora il quarto comma dell’art. 81: e non v’è dubbio che la predisposizione della copertura con scelta di uno tra quei soli mezzi (e con in più una precisa condizione riguardo al ricorso al credito) debba essere compiuta contestualmente da ciascuna singola legge che introduce nel sistema una nuova spesa.
Il timore di una politica di spesa che si affidi avventatamente al credito e che sia comunque eccessiva è riflesso poi manifestamente nelle disposizioni di ferrea garanzia che concludono la proposta del nuovo art. 81:
“Le leggi che prevedono nuove o maggiori spese devono essere approvate, salvo nel caso siano finanziate con equivalente riduzione di spese, con la maggioranza qualificata dei due terzi da entrambi i rami del Parlamento.
La Corte dei Conti in sede di esame del rendimento deve valutare il costo effettivo delle leggi approvate dalle Camere negli esercizi precedenti.
La Corte dei Conti è abilitata ad investire la Corte Costituzionale dei giudizi nei confronti delle leggi non conformi al presente articolo”.
Basta un momento di riflessione sul progetto Altissimo-Fiocchi per avvedersi che:
a) La sua adozione ancorerebbe ogni maggiorazione di spese di parte corrente alla diminuzione di altre spese o alla maggiorazione dei prelievi tributari – richiedendosi per di più in quest’ultimo caso, il voto di due terzi del Parlamento. Per quelle spese non verrebbe solo escluso il ricorso, aperto o mascherato, all’indebitamento.
Verrebbe anche esclusa la copertura mediante utilizzazione delle maggiori entrate in ipotesi realizzate in corso di esercizio sulla base delle leggi tributarie già in vigore: quella utilizzazione che Einaudi criticava – senza decidersi a dichiararla proprio incostituzionale – nella sua lettera a Pella.
b) Il disavanzo nei bilanci dello Stato tenderebbe con ogni probabilità a diminuire rapidamente. Infatti l’accensione di nuovi debiti sarebbe ammessa solo per coprire spese in conto capitale e col voto favorevole dei due terzi del Parlamento. Dovrebbe in ogni caso contenersi al di sotto del tetto di indebitamento massimo previamente programmato. improbabile dunque, per questo lato, una spinta consistente all’allargamento del disavanzo. D’altra parte, a colmare i disavanzi ereditati dagli esercizi precedenti servirebbero le maggiori entrate che, appunto, in costanza di espansione economica, il sistema produrrebbe tramite le leggi tributarie già in vigore; mentre quelle leggi aumenterebbero di continuo per l’obbligo costituzionale di farne di nuove ogni volta che si procedesse a deliberare un incremento di spesa corrente (salvo a coprire questa con la diminuzione di altra spesa).
c) I meccanismi del nuovo art. 81 produrrebbero per vari aspetti serie incentivazioni a una politica finanziaria di consistente, continua riduzione della spesa pubblica complessiva.
Chi ritenga che nel nostro prossimo futuro la politica finanziaria da seguire sia quella di una forte diminuzione del disavanzo, attraverso soprattutto forti diminuzioni di spesa, difficilmente potrebbe non apprezzare in tutta la sua capacità di incisione innovativa il progetto Altissimo-Fiocchi. E tuttavia non mi sento di aderire ad esso, per una varietà complessa di ragioni.
Accenno soltanto, sinteticamente, ad alcune di esse.
a) il metodo della programmazione in materia finanziaria e di bilancio ha avuto esiti catastrofici in Italia. Ma non credo che il vizio stesse nel metodo in sè, sibbene nel non averlo assoggettato a regole adeguate e a seri controlli esterni, quanto al rispetto di quelle regole.
Opportunamente strutturato il metodo può offrire garanzie di buona riuscita e al tempo stesso una flessibilità nella politica finanziaria che i meccanismi rigidi del progetto Altissimo‑Fiocchi non consentirebbero.
b) in effetti, il dovere per ogni legge di nuova spesa corrente o tagliare spese precedenti o introdurre un nuovo prelievo tributario, quale che sia nel frattempo la stato delle finanze pubbliche, rende la manovra finanziaria, nel quadro del progetto in questione, una procedura dominata da costrizioni automatiche non sempre necessariamente funzionali,
Gli automatismi potrebbero magari servire per riportare le nostre riottose finanze dentro i limiti prescritti dai parametri di Maastricht.
Ma dopo che le finanze fossero state risanate, quegli automatismi tenderebbero probabilmente a produrre effetti persino paradossali: ad allargare, per esempio, la sfera dei prelievi tributari quand’anche la cosa non fosse richiesta a rigore, dal principio stesso del pareggio del bilancio.
c) Massima perplessità desta poi il precetto che per ogni legge di spesa, che non si copra con tagli compensativi, occorra il voto dei due terzi di ciascuna Camera. Sotto un certo profilo il precetto può senza dubbio operare a vantaggio di una finanza che non allarga la sfera delle sue spese, perché per farlo dovrebbe trovare in Parlamento consensi vastissimi che non è facile reperire. Nelle circostanze attuali una prospettiva, questa, senz’altro allettante. Ma se si considera che nell’ambito di una politica generale pur attuante la riduzione della spesa pubblica complessiva possono sopravvenire momenti o circostanze in cui occorre introdurre limitate, nuove spese, sarà agevole vedere che il precetto o opererebbe con effetti irragionevolmente preclusivi o costringerebbe il governo e la maggioranza ad aprirsi all’opposizione e a realizzare forme di democrazia consociativa. Il precetto dei due terzi, anzi, rischierebbe di diventare veramente uno stimolo per instaurare una democrazia consociativa permanente in materia economica, e magari per produrre ciò che proprio non si vorrebbe: l’allegro consolidato accordo di tutti per condurre una politica di spesa facile.
d) Il progetto Altissimo-Fiocchi va molto lodato perché contempla una via efficace per l’attuazione di un autorevole controllo esterno (la Corte Costituzionale).
Ma forse le vie per provocare il controllo di quest’ultima potrebbero venire utilmente aumentate. E varrebbe forse la pena di prevedere in Costituzione anche l’esistenza di istituti che preventivamente permettano il calcolo oggettivo del costo delle leggi che si vogliono approvare.
6- Di tutt’altro tenore, benché anch’esso inteso a curare la piaga sanguinosa dei disavanzi esplosivi, è il progetto Andreotti-Martinazzoli: un progetto di riforma costituzionale che nasce direttamente dal seno del Governo e che ha riscosso l’approvazione almeno parziale di esperti della materia quali il senatore Andreatta.
Questo progetto parte, a mio avviso, col piede giusto perché accetta di massima il metodo della programmazione. Ma è poi così timido nello stabilire le norme che dovrebbero strutturarla e convogliarla obbligatoriamente a sbocchi positivi che il giudizio su di esso non può essere del tutto favorevole. Si tratta di un progetto – senza offesa per nessuno – che reca in sé il marchio dell’eterno stile democristiano: l’insufficienza dei rimedi proposti per la necessità di mediare all’infinito tra una quantità di opposte esigenze in mezzo alle quali campeggia la prudenza nel toccare lo status quo.
Il progetto democristiano fa suo in modo aperto il metodo della programmazione, eliminando finalmente la norma del terzo comma dell’art.81 e fondendo in sostanza in una legge sola le due attuali (“finanziaria” e bilancio) tenute finora artificiosamente distinte. Prevede il progetto: “Con la legge di approvazione del bilancio possono essere stabiliti nuovi tributi e nuove spese, avuto riguardo all’equilibrio della finanza pubblica”.
Qui il bilancio perde definitivamente la sua ultracentenaria connotazione di legge solo formale. E la sua natura di strumento programmatorio di politica finanziaria mi sembra anche ribadita da una successiva disposizione che – salvo errore – vuol dare (tra l’altro) base costituzionale alla figura dei fondi predisposti in bilanci a copertura di sopravvenienti leggi di spesa (“La legge disciplina l’utilizzazione per nuove iniziative degli stanziamenti finanziari per la spesa e per l’entrata contenuti nel bilancio approvato”).
Il progetto Andreotti-Martinazzoli pone due norme importanti in materia di composizione del bilancio e di limiti al ricorso al credito.
La prima è contenuta, se vedo bene, nell’inciso un po’ criptico relativo al dovere – già menzionato – di “aver riguardo all’equilibrio della finanza pubblica” nel comporre il bilancio assestando la legislazione tributaria e di spesa preesistente. Scelgo di interpretare l’inciso nel senso che il bilancio dovrebbe tendere, se non a un sostanziale pareggio, a disavanzi moderati. Ma, se è così, perché non prendere allora il coraggio a due mani e perché non fare chiarezza incorporando senz’altro nella Costituzione la limpida ed esplicita formula convenuta a Maastricht: il bilancio non deve presentare disavanzi eccessivi?
La seconda norma lodevolmente include nella Costituzione italiana una regola che da tempo figura ed ha fatto buona prova nella Costituzione tedesca: “le entrate, provenienti dall’accensione di prestiti e non destinate a rimborsi, sono impiegate per finanziare spese in conto capitale”.
Opportuna è poi la disposizione che, nel riaffermare l’attuale comma quarto, rende esplicito e inequivocabile l’obbligo di prevedere l’intera copertura delle leggi pluriennali di spesa:
“Ogni altra legge dalla quale derivino riduzioni di entrate o nuove maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte durante l’intero periodo di applicazione”.
Per il resto, il progetto democristiano concentra tutta la sua attenzione sulla esigenza di contenere i danni che di solito producono, con l’aumentare le spese, le autonome iniziative dei parlamentari. E il progetto stabilisce:
a) che in sede di approvazione del bilancio il disegno del Governo possa essere emendato per iniziativa parlamentare solo con emendamenti di natura “compensativa” e solo per voto della maggioranza assoluta della Camera ove l’iniziativa è stata presentata;
b) che, dopo l’approvazione del bilancio “fino alla votazione finale di ogni progetto di legge presso ciascuna Camera, il Governo può chiedere la sospensione dell’esame per un periodo non superiore a due mesi, motivata con riferimento alla violazione dei criteri di equilibrio finanziario. Trascorso il termine i progetti di legge sono approvati con la maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna Camera”.
il Parlamento è ridotto ormai a una ribollente rappresentanza di interessi frazionati protesi a ottenere comechessia elargizioni di denaro pubblico a proprio vantaggio. Giustificatissima dunque la preoccupazione che ispira le norme testè citate. Semmai, il progetto democristiano è di gran lunga troppo riguardoso nei confronti dei poteri dei parlamentari. In materia finanziaria quei poteri sono in tutti gli altri grandi ordinamenti europei – Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna – molto più limitati e subordinati comunque, nel predisporre spese, al necessario consenso finale del governo. Io adotterei in proposito la norma dell’art. 40 della Costituzione francese.
Ovvero in alternativa:
a) escluderei emendabilità per iniziativa parlamentare del disegno di legge di bilancio presentato dal Governo;
b) concederci ai parlamentari il potere di iniziativa e di emendamento in materia di leggi di spesa (e di agevolazioni tributarie) solo a condizione che la copertura dei relativi oneri fosse indicata, nelle proposte, o con riferimento a fondi prestabiliti nel bilancio già approvato o con misure “compensative”.
Il progetto Andreotti-Martinazzoli non è dunque, nell’insieme, male. Ma ci sono due punti in cui, francamente, esso presenta un vuoto. E quei due vuoti dovrebbero essere riempiti.
Ho già accennato al fatto che non si può addossare solo al Parlamento la responsabilità per la condizione disastrosa della politica finanziaria italiana degli ultimi vent’anni.
Anche il Governo ha colpe indiscutibili e immense. La verità è che esiste nell’intera classe politica e, sotto e accanto ad essa, nel Paese, o in settori larghissimi del Paese, una radicata propensione a considerare benevolmente le svariatissime pretese che, per ragioni di giustizia, vere o camuffate, o anche a titolo di meritevoli interessi particolari, si avanzano nei confronti dello Stato per ottenere da esso benefici. E’ una propensione in un certo senso connaturata con le strutture stesse dello stato “sociale” e della società civile che gli è sottesa; e non v’è bisogno di dire quanto essa sia in tutta speciale armonia con il carattere italiano, così come formato per secoli da un’educazione che per disgrazia non ha mai conosciuto momenti di individualismo calvinista. Si tratta di una propensione, però, che può produrre guasti gravissimi. Può indurre a dimenticare il rispetto dovuto alle “regole procedurali” della Costituzione economica di un modello “misto”. Può fare di peggio. Può condurre le benevolenti autorità, senza che esse e il Paese quasi se ne accorgano, a far aumentare nel sistema la presenza della componente pubblica – e nel caso nostro della spesa pubblica complessiva – oltre quelli che sono i “confini” del modello stesso.
Ho menzionato all’inizio questi ” confini”.
Tra essi va annoverato quello relativo alla quota massima del Pil che lo Stato può riciclare nel sistema. Non avremmo più un sistema di economia “mista” là dove la spesa pubblica complessiva assorbisse, per esempio, il 70% del reddito nazionale. E il livello attuale della nostra spesa pubblica, dopo la sua imponente espansione negli ultimi venti anni, tocca o sfiora ormai, di certo il confine del modello.
Una riforma dell’art. 81 che pur mettesse quasi esclusivamente in mano al governo la responsabilità della conformazione del bilancio e del flusso delle leggi di spesa, stabilendo limiti netti al ricorso dello Stato al credito, offrirebbe garanzie sotto il profilo del rispetto delle “regole procedurali” del modello. Ma, fermandosi lì, nessuna garanzia darebbe che il Governo non costruisca gradualmente un bilancio – e lo faccia approvare dalle Camere in cui la spesa pubblica divori ben oltre la metà del Pil e sia pronta a crescere ancora.
Per questo a me par giusto che un art. 81 rinnovato debba contenere la definizione della quota massima del reddito nazionale annuo che al settore pubblico allargato sia dato di riciclare: una garanzia, in sostanza, che un confine essenziale del modello non venga superato per iniziativa e colpa di chicchessia. Sia ben chiaro. Non credo che il Paese, in regime di democrazia, volendolo, non possa superare quel confine. (Il grande giudice Holmes soleva dire, con un po’ di cinismo, che un Paese, se lo desidera, ha il diritto di decidere la propria rovina e non spetta alla Costituzione e alle leggi di fermarlo). Ma mi sembra congruo che un passo di tale portata non avvenga scivolandoci sopra senza che si possa richiedere per esso un voto speciale e qualificato, quale si imporrebbe se la norma della quota-tetto venisse inserita in Costituzione (si potrebbe naturalmente anche prevedere, per la eventuale correzione di quella norma, una procedura un po’ più semplice di quella dell’art. 138; mentre la norma dovrebbe comunque precisare che, in situazioni di grave emergenza politica o economica, il limite prestabilito potrebbe anche venir oltrepassato, salvo l’obbligo di sollecito rientro con la ripresa della normalità).
La seconda, seria carenza del progetto democristiano concerne i controlli esterni, ai quali invece il progetto Altissimo-Fiocchi non ha mancato di prestare attenzione. Andreotti e Martinazzoli non ne prevedono alcuno. In Italia, invece, a mio avviso, non se ne può fare a meno. Forse il progetto di cui stiamo parlando è stato trattenuto dal configurarne per effetto, anche in questo caso, di un eccessivo riguardo nei confronti dell’attuale status dei Poteri politici e, in particolare, del Parlamento. Ma naturalmente le ragioni possono anche essere state diverse.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.