La crescita del disavanzo del bilancio dello Stato negli ultimi anni, crescita che sembra a molti sfuggire da qualsiasi possibilità di controllo, ha indotto a proporre variazioni delle attuali norme costituzionali con l’intento di rendere più stringenti i vincoli della spesa pubblica, anche se, naturalmente, dati i prevedibili tempi necessari per modifiche costituzionali, gli eventuali effetti positivi sul bilancio dello Stato di tali modifiche si potranno avere soltanto in tempi medi o lunghi, e scarso potrà quindi essere il loro contributo per riequilibrare il bilancio dello Stato nei prossimi anni.
Le proposte di modificazione alle quali farò riferimento esplicito riguardano soprattutto gli attuali commi terzo e quarto dell’articolo 81 della Costituzione e sono quelle presentate dagli onorevoli Andreotti e Martinazzoli (1991), da un lato e dall’onorevole Fiocchi dall’altro (1991).
Prima di iniziare una discussione specifica di alcune delle modifiche suggerite ed avanzare alcune mie proposte, vorrei qui ricordare che sovente le norme giuridiche sono il punto d’incontro fra diverse esigenze, ed un esempio di ciò è proprio l’art. 81 comma quarto della Costituzione. Da un lato esso, come sappiamo, prescrive l’obbligo di copertura per le leggi di spesa, ma dall’altro esso ricalca, quasi alla lettera, un dettato di Wicksell (1986), il quale richiedeva che “nessuna spesa pubblica dev’essere mai votata senza che simultaneamente vengano determinati i mezzi per coprirne i costi”. Il problema di Wicksell non era conseguire il pareggio del bilancio, pareggio che, nell’ambito della finanza tradizionale, egli dava chiaramente per scontato, ma garantire a tutte le parti sociali rappresentate nel Parlamento la chiarezza su come sarebbe stato distribuito l’onere della spesa. In effetti egli richiedeva che “quando il Governo o una parte del Parlamento propone una nuova attività pubblica o l’estensione di una già esistente, la mozione sarebbe dovuta essere accompagnata, costituzionalmente, da una o svariate proposte alternative per la distribuzione dei suoi costi”. L’art. 81 comma quarto, nella sua attuale formulazione, rispecchia dunque un’importante esigenza di chiarezza nella politica economica ed il proposito di evitare fenomeni di illusione finanziaria per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della spesa pubblica.
Ma esso ha, chiaramente, anche lo scopo di perseguire il principio del pareggio del bilancio, principio che viene enunciato in termini incrementali, richiedendo cioè la copertura, per le nuove e maggiori spese, attraverso entrate che non derivassero da indebitamento. E’ peraltro ovvio che, nel lungo andare, perseguire il pareggio del bilancio in termini incrementali comporterebbe, in sostanza, il pareggio del bilancio nel complesso.
Già negli anni Sessanta, in corrispondenza con la prima importante recessione dell’economia italiana nel secondo dopoguerra, il limite posto dall’art. 81 comma quarto fu sentito come troppo rigidamente vincolante dal punto di vista dell’attuazione di una manovra di tipo keynesiano con spesa pubblica in disavanzo, e risalgono a quegli anni i primi tentativi di allentare, con interpretazioni ad hoc, il vincolo costituzionale.
Non rientra negli scopi di questo lavoro esaminare e discutere le diverse interpretazioni che sono state date per risolvere il problema. Ciò che importa dire qui, come corollario di quanto siamo venuti dicendo, è che, dal punto di vista della politica economica e finanziaria vi è bisogno di una formulazione del principio del pareggio del bilancio che raggiunga, ove è possibile, i tre seguenti obiettivi contemporaneamente: da un lato quello wickselliano di chiarezza sulla ripartizione degli oneri della spesa pubblica; da un altro lato, il pareggio del bilancio, ma da un altro lato ancora, una sufficiente flessibilità del principio del pareggio, in modo da permettere, ove occorrano, politiche di spesa pubblica in disavanzo.
I primi due obiettivi che abbiamo individuati più sopra spingono a non mutare radicalmente l’attuale formulazione dell’art. 81 comma quarto, ma vedremo in seguito in quale modo si possa eventualmente irrigidire l’attuale dettato per evitare il perdurare, o il ripetersi, in futuro di situazioni come quella attuale.
L’obiettivo di una maggiore flessibilità della norma non può essere perseguito, come avviene nelle attuali proposte, con il permettere che le spese in conto capitale possano essere finanziate con il ricorso all’emissione di debito pubblico e che, di conseguenza, le entrate tributarie ed extratributarie (Titoli I e II) coprano sostanzialmente le sole spese correnti.
Una siffatta procedura, anche se è presente negli accordi di Maastricht, non è accettabile. Essa non porrà necessariamente un freno per almeno uno dei due seguenti motivi. In primo luogo, potrà provocare in eccesso di spesa in conto capitale in quanto tale spesa tenderà a diventare una variante indipendente dal gettito tributario. E possiamo a questo proposito citare Einaudi: “Non potrà darsi che la facilità di ricorrere allo strumento debito non incoraggi a fare spese che non si sarebbero compiute se si fosse dovuto ricorrere allo strumento più difficile imposta? L’ammontare della spesa non dipende anche, per la sua misura, dalla scelta che noi faremo dell’imposta o del debito, come mezzo per provvedere ad esso? La deliberazione di chi si illude, ricorrendo al debito, di non pagare, non è seria e grave come debbono essere tutte le deliberazioni di pubblica spesa”. (Einaudi 1948, p.345 e 346).
Non è da credere che la spesa in conto capitale non costituisca spreco: sprechi vi possono essere tanto nelle spese in conto capitale (come ad esempio autostrade inutili), quanto in quelle correnti.
Spese correnti sono anche le spese di manutenzione dei beni capitali e potrebbe accadere, come accadeva nei Paesi socialisti dell’Est europeo, ma non soltanto là, che venisse trascurata la manutenzione delle opere pubbliche già esistenti, in quanto spesa corrente, a favore della costruzione di nuove, con inutile spreco di risorse. Inoltre, normalmente la stessa spesa in conto capitale richiede di necessità spesa corrente: così è della spesa per gli ospedali e di molti altri casi.
L’altro motivo per cui la distinzione fra spesa corrente e spesa in conto capitale non porrà freno alla spesa pubblica, sta in un argomento politico: la distinzione fra spese correnti e spese in conto capitale può facilmente venire aggirata perché in realtà molte delle cosiddette spese correnti, e si tratta anche di quelle che attualmente comportano i maggiori esborsi, hanno natura di spese in conto capitale.
Si pensi, come primo esempio, alle spese per l’istruzione: molti sono gli autori i quali sostengono ragionevolmente trattarsi di spese per la costituzione di capitale umano e che lo sviluppo tecnologico ed economico di un Paese è direttamente e positivamente collegato con il loro ammontare. Se dunque le spese per l’istruzione fanno aumentare la ricchezza futura del Paese, se i loro effetti si ripercuotono su un periodo più ampio dell’esercizio finanziario in cui vengono effettuate, allo stesso modo delle spese per la costruzione di una strada o di un ponte, c’è da domandarsi che senso ha vincolarne l’ammontare al gettito dei primi due titoli delle entrate e non permettere che anch’esse vengano finanziate con debito. E le medesime osservazioni si potrebbero fare, con motivazioni analoghe, per altre spese, quali quelle per la sanità (prove sulla labilità della distinzione già nell’attuale prassi italiana si trovano ora in Commissione tecnica per la spesa pubblica; 1992, p. 68).
Bisogna dunque che tutta la spesa sia coperta dal gettito dei primi due titoli delle entrate.
La possibilità di effettuare spesa pubblica in disavanzo nell’ambito di politiche di tipo keynesiano potrebbe essere acquistata recuperando, in forma attenuata, la logica del bilancio di piena occupazione che era stato largamente studiato negli anni Sessanta. Si potrebbero cioè consentire bilanci complessivamente in disavanzo se, in un certo periodo precedente, da fissare in maniera opportuna, il saggio di disoccupazione risultasse essere stato superiore ad un qualche valore, anch’esso da stabilire (ad esempio, o come percentuale fissa o come variazione rispetto a valori medi tendenziali), con l’obbligo del pareggio dei conti e del rientro, una volta che i valori indicativi della situazione di crisi fossero tornati normali.
Resta da vedere, allora, in che modo si possano rendere più stringenti, eventualmente, le prescrizioni dell’art. 81 comma quarto.
Dobbiamo, prima di tutto, esaminare alcune questioni di fatto. Giavazzi e Spaventa (1989) hanno dimostrato che l’attuale valore del disavanzo primario, come percentuale del Pil, risale agli anni 1970-73 quando esso passò dal 4,3% all’8,3% del Pil. L’aumento del disavanzo fu provocato da un aumento strutturale della spesa pubblica non accompagnato da un corrispondente aumento delle entrate. I primi anni Settanta furono un periodo di grandi riforme sociali, come l’estensione della scuola dell’obbligo, l’apertura dell’istituzione universitaria indistintamente a tutti i diplomati delle scuole secondarie, la riforma sanitaria, la riforma della sicurezza sociale, ecc. il divario creato in quegli anni non è stato più chiuso, ma non si è neanche ulteriormente aperto: la gran parte dell’attuale disavanzo è dovuto al lievitare degli interessi sul debito pubblico, lievitare dovuto, fra tanti altri elementi, all’inflazione ed agli influssi dell’economia internazionale.
Ciò, naturalmente, non vuol dire che il disavanzo primario non sia aumentato in valori assoluti: vuol dire che esso, e quindi la spesa pubblica sottostante, è aumentato di pari passo con l’aumento del prodotto nazionale.
Discende da tutto questo, per il nostro problema, l’indicazione che, nel complesso, il vincolo posto dall’attuale comma quarto dell’art. 81 della Costituzione ha retto in misura non irrilevante, e si tratterà quindi di rafforzare l’obbligo di copertura in modo che non venga aggirato troppo agevolmente: si tratta della stessa esigenza che aveva spinto a non accettare la distinzione, negli obblighi di copertura, fra spesa corrente e spesa in conto capitale.
Poiché si dovrà evitare il ricorso a sotterfugi contabili e dovrà essere tenuta sotto controllo anche la valutazione degli obblighi pluriennali, la soluzione migliore potrebbe consistere in un rafforzamento del controllo, che sia per quanto possibile super partes, dell’obbligo di copertura.
Una soluzione in questo senso potrebbe essere vista in un controllo della Corte dei Conti, che andrebbe reso obbligatorio e che dovrebbe essere preventivo alla firma della legge da parte del Presidente della Repubblica.
Naturalmente, la copertura andrebbe assicurata non soltanto per l’esercizio iniziale della spesa, ma anche per un congruo numero di esercizi successivi. Alla stessa Corte dovrebbe anche essere affidato il compito di controllare, sempre in via preventiva, la congruità delle proiezioni future delle spese pluriennali richieste dall’art. 4 della legge 468 del 1978.
Altrettanto importante al fine di porre limiti all’aumento della spesa pubblica è un’analisi dell’art. 81 comma terzo. Scopo di questa norma, nella visione dei costituenti, era impedire che il Parlamento facesse aumentare la spesa pubblica in fase di approvazione delle norme di bilancio, attraverso patteggiamenti, e reciproche concessioni fra le varie parti. Si voleva evitare, in altri termini, che, per esempio, due proposte di spesa, ciascuna delle quali avrebbe da sola raccolto soltanto il 30% dei voti, e non sarebbe stata dunque approvata, fossero unite insieme e in tal modo fossero approvate con il 60% dei voti.
E’ questo un vincolo importante che deve essere assolutamente mantenuto e vanno, anzi, considerate con preoccupazione tutte quelle norme che ne potrebbero in qualche modo indebolire il vigore.
In effetti un grave indebolimento della portata del comma terzo si e già avuto con l’introduzione, nel 1978, della legge finanziaria. Certamente questa legge ha avuto molti aspetti positivi, quali la possibilità di avere una visione completa della manovra economica impostata dal Governo ogni anno ed il fatto di aver avvicinato quanto più possibile la manovra economica all’inizio dell’esercizio finanziario cui essa si riferisce.
Ma altrettanto certamente essa ha avuto gravi inconvenienti fra i quali non si può tacere della farraginosità legislativa e del disordine normativo. Dal punto di vista che c’interessa, la legge finanziaria ha introdotto quella possibilità di patteggiamenti reciproci e di concessioni che i legislatori costituenti con tanta cura avevano cercato di evitare e che è rimasta anche dopo le recenti riforme.
E’ sempre rischioso, e può essere fuorviante, ragionare in termini di post hoc ergo propter hoc, tuttavia non si può non osservare come i maggiori incrementi della nostra spesa pubblica si siano verificati proprio negli anni in cui ha operato la legge finanziaria. Una drastica riforma di questa legge, se non la sua abolizione, sembrano dunque essere una condizione necessaria, anche se non l’unica, per porre un limite ai disavanzi di bilancio. E una riforma della legge finanziaria potrebbe avvenire in tempi più veloci di una modifica delle norme costituzionali, trattandosi di legge ordinaria.
E’ peraltro veramente molto preoccupante la proposta Andreotti-Martinazzoli (1991), la quale prevede addirittura il rovesciamento dell’attuale norma dell’art. 81 comma terzo e cioè che “con la legge di approvazione del bilancio possono essere stabiliti nuovi tributi e nuove spese” sia pur “avuto riguardo all’equilibrio della finanza pubblica”. Né basta prevedere che gli “emendamenti alla legge di approvazione del bilancio, di iniziativa parlamentare, sono ammessi soltanto se hanno carattere comparativo”.
Non è chiaro, neanche in base alla relazione di accompagnamento alla norma proposta, se essa comporterebbe l’abolizione della finanziaria e quindi se si ipotizza che si avrebbero addirittura due momenti in cui vi potrebbero essere patteggiamenti e reciproche concessioni.
Non è possibile discutere qui le altre ipotesi di riforma dell’attuale dettato costituzionale. In linea generale, direi che non mi sembrano accettabili quelle proposte che prevedono che il bilancio dello Stato venga presentato alle Camere le quali, lo possono soltanto accettare o respingere in blocco, e che la mancata approvazione del bilancio debba comportare la caduta del Governo.
Proposte siffatte, da un lato vincolano eccessivamente la capacità propositiva del Parlamento, che esiste e che è importante conservare, dall’altro metterebbero i membri del Parlamento nella difficile alternativa o di approvare provvedimenti che ritengono, anche con buone motivazioni, inaccettabili, o di far cadere il Governo. Inoltre, esse legherebbero troppo strettamente il destino del bilancio con quello del Governo: il bilancio è, e resterà, fonte di autorizzazione della spesa e i tempi dell’esercizio provvisorio possono essere troppo brevi di fronte a crisi prolungate. Né si vede poi come un nuovo Governo potrebbe in tempi anche brevissimi presentare, con ragionevoli motivazioni, un bilancio sostanzialmente diverso dal precedente non approvato.
Migliore mi sembra dunque la strada che ammette la possibilità che il Parlamento porti modificazioni alle proposte del Governo, ma con l’importante vincolo che si tratti di modificazioni compensative, le quali lascino inalterato il saldo complessivo.
Finora ci siamo limitati a considerare possibili modifiche delle norme relative al bilancio dello Stato, ma certamente ciò non basta, perché in realtà ciò che si vuole evitare è lo squilibrio macroeconomico, vale a dire il disavanzo nei conti dell’intero settore pubblico. Perché certamente non sarebbe accettabile un eventuale pareggio del bilancio dello Stato che scaricasse pesanti oneri di spesa, in disavanzo, su bilanci di altri enti pubblici, territoriali e non, come gli enti locali o il servizio di sicurezza sociale.
Il pareggio dei conti del bilancio dovrà essere dunque inserito all’interno di una norma che preveda il pareggio, senza ricorso al debito, per tutto l’insieme del settore pubblico allargato.
Oltre alla modificazione delle norme finanziarie della Costituzione vi sono poi altre linee d’intervento che è necessario considerare.
La prima riguarda il fatto, ben noto, che numerosi aumenti, e per importi notevoli, della spesa pubblica non sono determinati da leggi di spesa, ma da sentenze degli organi giurisdizionali, in genere della giustizia amministrativa e della Corte Costituzionale. Sovente tali sentenze hanno allargato ad una più ampia cerchia di persone trattamenti economici e normativi che la legge aveva riservato ad un più ristretto numero di casi. Non è questo il luogo per suggerire rimedi a tale proposito: gli studiosi di diritto costituzionale già si sono occupati approfonditamente del problema. Un altro fattore di accrescimento della spesa pubblica è meno noto e può essere esemplificato facendo riferimento ad una delibera abbastanza recente del ministro delle Poste. Con quella delibera il ministro affidò a imprenditori privati il servizio di consegna a domicilio degli espressi nei grossi centri urbani. Questo era un servizio sul quale le poste facevano un profitto, cosicchè, quali che siano state le conseguenze della delibera in termini di efficienza, essa ha provocato, a parità di tutte le altre circostanze, un aumento del disavanzo postale e quindi un onere per il bilancio dello Stato.
I canali, dunque, attraverso i quali si possono creare oneri per il bilancio dello Stato sono molteplici e spesso anche nascosti. E per controllarli non bastano certamente le norme inserite nella Costituzione, quali che esse siano.
E’ indispensabile che le norme costituzionali siano accompagnate da un mutamento di quelli che sono i principi non scritti sui quali si basa la convivenza di una comunità: il fatto cioè che i cittadini considerino un valore politico positivo l’equilibrio dei conti del bilancio pubblico e anche su tale base valutino il comportamento degli uomini politici.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.