Vorrei iniziare il mio intervento con una premessa o, più precisamente, con un’avvertenza: non bisogna concentrarsi troppo sulle procedure. Ciò che intendo è che – ferma restando la necessità di interventi modificativi sulla struttura delle istituzioni, delle leggi e dei regolamenti – ciò che realmente è necessario è intervenire sulle modalità di gestione della spesa pubblica, proponendo un approccio diverso e finalmente innovativo rispetto all’attuale.
La crisi finanziaria che il Paese oggi sta vivendo, a causa dell’aumento abnorme della spesa pubblica per interessi nei confronti di quella per investimenti, può essere ricondotta a tre principali motivazioni:
a) al venir meno, almeno de facto, del vincolo di bilancio sia a livello centrale sia a livello periferico, come conseguenza di una dispersione delle responsabilità di gestione finanziaria;
b) alla composizione della spesa pubblica, in cui la componente costituita da erogazioni di stipendi e pensioni è sempre più preponderante su quella destinata a investimenti;
c) alla persistente adozione, nella determinazione di spesa, di logiche ormai superate di assistenzialismo.
Quali sono i motivi che hanno favorito la configurazione di questo scenario e, quindi, l’aggravarsi dei problemi sopra accennati? Di chi, soprattutto, la responsabilità?
Possiamo parlare prima di tutto, di una responsabilità diffusa a tutte le componenti sociali, non solo agli attori politici ma anche a quelli economici, pubblici e privati, generata da comportamenti impropri, perché tradizionalmente ispirati a criteri di gestione inefficienti e non produttivi.
Possiamo parlare, poi, della cronica inadeguatezza dei sistemi normativi vigenti, preposti al regolamento delle grandi aree di intervento sociale.
Si può, infine, parlare dello scarso funzionamento dei meccanismi istituzionali di controllo come quelli previsti dall’articolo 81 della Costituzione, motivo per cui siamo oggi convenuti in questa sede.
Qual è, a questo punto, l’obiettivo che ci dobbiamo proporre?
Dobbiamo cercare di restituire alla spesa pubblica la sua corretta funzione, quella di propulsore dell’economia e, al tempo stesso, di strumento di equità sociale. Affinché questo accada, devono però, essere verificate due premesse.
In primo luogo l’adozione di una politica seria e veramente rigorosa di contenimento dei consumi, per un Paese come il nostro che, da troppo tempo ormai, vive ben al di sopra delle sue reali possibilità. In secondo luogo, affinché ciò sia realizzabile, è indispensabile che le istituzioni riacquistino agli occhi dell’opinione pubblica la necessaria credibilità.
Tornando, quindi, al tema del convegno di oggi, cioè a quell’art. 81 al centro dei nostri discorsi, quali mezzi sono ipotizzabili per ridurre in maniera risolutiva il disavanzo corrente?
1) Dobbiamo effettivamente utilizzare al meglio gli, strumenti oggi previsti dal quadro costituzionale, sia quelli che normalmente non vengono oggi utilizzati, sia soprattutto quelli soggetti a un uso improprio o infrequente.
A questo proposito si può accennare al potere di rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica o alla facoltà della Corte dei Conti di adire alla Corte Costituzionale.
2) Dobbiamo introdurre nuovi istituti oggi non previsti dal quadro istituzionale.
In questo senso – e tornando perciò alla questione dell’art. 81 non posso che concordare con le posizioni del ministro Martinazzoli: occorre cioè una modifica che permetta di ridurre drasticamente l’indebitamento per le spese correnti permettendo il permanere solo dell’indebitamento per investimenti, a patto però, che tali spese per investimento siano effettivamente produttive.
Sono d’accordo anche con la proposta di attribuire al Governo la facoltà di bloccare per due mesi le leggi “spendaccione” o, perlomeno, di rendere più difficile la possibilità di emendare le leggi di bilancio, vincolandole, ad esempio, al raggiungimento della maggioranza assoluta delle Camere. Sarebbe poi opportuno un ridimensionamento della potestà legislativa del Parlamento in materia finanziaria (in Francia, ad esempio, non sono ammissibili proposte di legge che abbiano come effetto una riduzione delle entrate o un aggravamento dell’onere pubblico).
Un’altra questione annosa è quella dei bilanci autonomi (da quelli delle USSL, a quello dell’INPS) e, più in generale, della finanza locale.
Potremmo parlare, poi, delle stime che vengono effettuate sugli effetti delle leggi di spesa, stime che spesso si rivelano inattendibili. Sarebbe auspicabile, a questo proposito, la creazione di più efficaci meccanismi istituzionali di controllo, ad esempio, in grado di verificare gli effetti a lungo periodo delle leggi di spesa.
In questo senso anche la Corte dei Conti potrebbe giocare un ruolo determinante, a patto che se ne ridefiniscano struttura, funzioni e ambiti di competenza.
Ma, al di là di questi spunti, è necessario chiarire che il problema della riforma dell’art. 81 non può risolversi se non nel quadro di un progetto di riforma a più ampio respiro. Le riforme, infatti, di qualsiasi genere esse siano, sono legate da un vincolo inscindibile di interdipendenza: abbiamo bisogno di leggi strutturali in materia fiscale, pensionistica, sanitaria, oltre alle riforme istituzionali tanto auspicate in questa sede.
Tutte le istanze riformiste devono, pertanto, procedere di pari passo. Ecco perché, come imprenditori, siamo convinti che, accanto alle riforme economiche, siano più che mai necessarie delle riforme in grado di rilegittimare le istituzioni.
Come può avvenire quest’opera di rilegittimazione? Prima di tutto con una nuova legge elettorale che ristabilisca un rapporto che sia veramente di fiducia e dia al cittadino la possibilità di revocare il mandato di rappresentanza a chi non sia stato in grado di adempiere alle funzioni per cui era stato eletto.
In questo senso è importante tornare all’osservazione più volte espressa dal ministro Martinazzoli in materia di riforma della legge elettorale: una svolta in senso uninominale secco, infatti, rischierebbe di rafforzare il vincolo localistico tra elettori ed eletti, con le connesse degenerazioni clientelari che noi tutti conosciamo. La nostra posizione è quindi quella a favore di un sistema uninominale maggioritario opportunamente corretto, ad esempio un doppio turno.
Riteniamo inoltre che, accanto alla riforma elettorale, sia auspicabile un’opera di autorilegittimazione dei partiti dal loro interno. Questo processo endogeno di rinnovamento dovrebbe attuarsi attraverso una sostanziale ridefinizione di ruoli, di procedure di reclutamento del personale politico e di finanziamento dei partiti.
E’ un discorso lungo, questo, che non può certo essere esaurito in questa sede. Non è infatti la riforma della legge elettorale l’unico termine del problema ma anche, e soprattutto, quella della governabilità, in breve, della capacità di controllo del Parlamento.
Come imprenditore, ma soprattutto come cittadino, sono certo che ci stiamo muovendo verso un processo – denso di ostacoli ma irreversibile – di impegno comune verso il ripristino del primato della politica, inteso come condizione imprescindibile per il nostro Paese per imboccare, senza ulteriori rallentamenti, la via dello sviluppo.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.