Il prof. Bognetti ha già detto che i principi sanciti nell’articolo 81 della Costituzione sono in gran parte principi tradizionali del diritto del bilancio. Li ricordiamo ancora una volta brevemente: il rigoroso controllo parlamentare sulla spesa pubblica, l’approvazione annuale del bilancio e dell’esercizio provvisorio del Parlamento, il divieto della commistione fra le decisioni di bilancio e le decisioni cosiddette sostanziali sui tributi e sulle spese, l’obbligo di copertura delle nuove spese a salvaguardia dell’equilibrio finanziario presente e futuro. Vi è infatti l’obbligo di copertura delle spese sia nel caso in cui siano destinate a gravare sul bilancio già approvato sia quando vengano a gravare sui bilanci futuri.
Non vi è quindi un semplice obbligo di pareggio; le singole spese devono essere infatti deliberate dal legislatore tenendo in considerazione il rispetto e l’equilibrio finanziario in un contesto intertemporale.
Questo è il quadro sintetico dei principi espressi nell’art. 81.
L’esperienza applicativa di queste norme costituzionali negli ormai quarant’anni di vita della Repubblica ci mostra innanzitutto che si è realizzato uno spostamento dell’attenzione dallo strumento del bilancio a quello della legislazione sostanziale di spesa. infatti per molto tempo, a partire dagli anni Cinquanta e per buona parte degli anni Settanta, si è assistito ad un infittirsi delle singole leggi di spesa, perlopiù a carattere pluriennale. Queste infatti determinavano già l’entità della spesa anche per i futuri tre, cinque, dieci esercizi, causando quindi un irrigidimento del bilancio.
Ci si accorgeva in definitiva che, nel momento in cui il Governo e il Parlamento formavano il bilancio, non prendevano in realtà delle decisioni, in quanto dovevano semplicemente limitarsi a prendere atto di decisioni già assunte. La formazione del bilancio diventava quindi il riassunto delle spese e delle entrate derivanti dalla legislazione già approvata.
Questo è un primo fenomeno che ha messo in luce l’esperienza applicativa. Il secondo fenomeno riguarda l’osservanza dell’obbligo di copertura. A mio parere l’art. 81 quarto comma ha funzionato come remora rispetto ad una spesa facile non coperta. Non sarebbe corretto dire che non ha avuto nessun effetto la presenza di questa norma costituzionale. Al contrario, per molti anni ha conferito al Governo una posizione di netto vantaggio rispetto all’iniziativa parlamentare nel campo della spesa. Quando cioè si discuteva in Parlamento una legge che comportava una spesa, il Governo aveva a disposizione il bilancio, nelle cui pieghe inserire una nuova spesa. Al Parlamento questo non era concesso: quindi per anni si è constatato che l’iniziativa parlamentare di spesa, pur formalmente non vietata dal nostro ordinamento, subiva una remora effettiva in virtù della presenza di questa norma, che obbligava ad indicare la copertura delle nuove spese.
Ancora, sulla base dell’obbligo di copertura costituzionalmente sancito, i regolamenti parlamentari hanno delineato delle procedure di esame delle leggi di spesa potenzialmente in grado di realizzare un controllo su di essa. Questi regolamenti, per esempio, stabiliscono che ogni legge che comporti spese deve sottostare al parere obbligatorio della Commissione bilancio. Se questo parere è negativo, se cioè si ritiene che non vi sia una copertura sufficiente o idonea, la legge non può essere approvata dalla Commissione di merito con il procedimento deliberante, ma deve essere approvata dall’intera Assemblea, la quale dovrebbe prendersi la responsabilità di contraddire il parere della Commissione bilancio.
Inoltre, nel corso degli anni abbiamo assistito a casi abbastanza numerosi di leggi approvate dal Parlamento e che sono state rinviate a nuovo esame dal Presidente della Repubblica proprio perché difettavano di copertura sufficiente.
Infine abbiamo assistito ad un controllo della Corte Costituzionale sulle leggi di spesa in relazione all’esistenza dell’obbligo di copertura, in quanto è stato chiarito che le leggi di spesa possono essere impugnate davanti alla Corte Costituzionale. In particolare, la Corte Costituzionale, con una interpretazione quasi innovativa, ha ammesso che la Corte dei Conti, può in sede di controllo sugli atti amministrativi del Governo, demandare alla Corte Costituzionale l’esame delle leggi quando riscontri che non hanno rispettato l’obbligo di copertura.
Vi è da notare che la Corte Costituzionale non ha fatto largo uso di questo suo potere di rimessione: la prima volta accadde nel 1976 e suscitò reazioni anche in sede politica. Tuttavia, con un’ordinanza del 1991, essa ha dichiarato incostituzionale una legge che stanziava somme a favore di enti di gestione delle partecipazioni statali, mantenendo quindi aperta la strada del possibile controllo costituzionale sulle leggi per il mancato rispetto degli obblighi di copertura.
Naturalmente, se è vero che il quarto comma dell’art. 81 ha avuto una sua effettiva incidenza sul processo legislativo di spesa, è anche vero che i modi per aggirare l’obbligo di copertura sono molti e sono stati escogitati dalla fervida fantasia di Governo, Amministrazione pubblica e Parlamento. Spesso infatti, le cosiddette pieghe del bilancio hanno offerto la possibilità di trovare coperture più o meno corrette. Inoltre l’incertezza dei riferimenti per gli esercizi futuri ha facilitato la prassi legislativa del rinvio della spesa. In tal modo si precostituivano delle coperture finanziarie vaghe o talora inesistenti per spese future. Questo ha determinato un forte aggravio del bilancio.
A partire dalla fine degli anni Settanta, il Governo e il Parlamento si sono posti il problema di una razionalizzazione del sistema di decisione nel campo della spesa e hanno intrapreso un certo numero di riforme, a partire dalla legge 468 del 1978. Questo è un campo in cui la capacità riformista del sistema politico italiano si è rivelata non del tutto inesistente. Anzitutto, partendo dai fenomeni di irrigidimento del bilancio, causati dall’accrescersi della legislazione di spesa sostanziale a carattere pluriennale, si è introdotto l’istituto del bilancio pluriennale. In tal modo si è voluto dare alla manovra annuale, che tradizionalmente era basata solo sul bilancio di un singolo esercizio, un orizzonte pluriennale. In definitiva, si è stabilito che il Parlamento non si limiti ad approvare un bilancio delle entrate e delle spese dell’anno a venire, ma debba approvarlo nel contesto di un bilancio pluriennale (che attualmente copre tre anni), nel quale si debbono già indicare le dimensioni complessive, per grandi comparti, delle entrate e delle spese.
Inoltre, pur rispettando formalmente il divieto di inserire nuovi tributi e nuove spese nella legge di bilancio, si è voluto attribuire al Governo e al Parlamento uno strumento annuale di manovra finalizzato a correggere gli andamenti spontanei delle entrate e delle spese, considerati non adeguati agli obiettivi di politica economico-finanziaria. Si è allora introdotta una legge finanziaria che contenesse misure di ordine tributario e sostanziale di spesa, atte a realizzare tali obiettivi.
Si noti che siamo alla fine degli anni Settanta, quando era già dichiarato e proclamato l’obiettivo di controllare la spesa pubblica. La finanziaria quindi non è nata come strumento per spendere di più ma, piuttosto, come strumento per spendere meglio e per controllare l’andamento di tali spese. Se, infatti, dobbiamo limitarci ad approvare, anno per anno, un bilancio che non fa che fotografare la situazione creata dalle leggi esistenti, noi andiamo verso la bancarotta, perché la legislazione esistente porta per le proprie caratteristiche, verso uno squilibrio. Dobbiamo quindi effettuare una manovra di correzione. Quest’ultima però non può essere attuata solo attraverso il bilancio, ma modificando le leggi tributarie e le leggi di spesa. Per far questo è quindi necessaria una legge finanziaria annuale. Questa è la filosofia originaria della legge finanziaria.
Tale norma permette di inserire non solo nuove misure tributarie e di spesa – soprattutto di contenimento o razionalizzazione della spesa – ma anche di rivedere la legislazione di spesa esistente, rimodulandola per renderla adeguata agli obiettivi di politica economico-finanziaria. Con la legge finanziaria, quindi, non dovrebbero più esservi leggi sostanziali di spesa, che una volta deliberate marciano per conto proprio, autonomamente, per cinque o dieci anni. Si consente invece una revisione annuale di tali leggi di spesa, inserendo tale revisione nel quadro del bilancio pluriennale. in tal modo si conferisce notevole elasticità alla manovra annuale di bilancio, quella elasticità che nell’esperienza degli anni precedenti era venuta meno per effetto dell’infittirsi della legislazione pluriennale di spesa. Ancora, in connessione con queste riforme della fine degli anni Settanta, si è riveduto profondamente il procedimento parlamentare di formazione del bilancio, istituendo una sessione di bilancio, cioè un periodo dell’anno che il Parlamento dedica esclusivamente alla manovra di bilancio ed alla legge finanziaria. In tale periodo il Parlamento non può occuparsi di altre questioni, se non quelle relative all’approvazione dei decreti legge. Si è perciò introdotto un meccanismo di razionalizzazione procedimentale che consenta al Governo ed al Parlamento di avere un tempo sufficiente per definire e, coerentemente, approvare le decisioni volte a realizzare gli obiettivi enunciati di politica economica e finanziaria. Perché, allora, nonostante l’esistenza di norme costituzionali – a mio parere, non inefficaci e nonostante gli sforzi di razionalizzazione non scorretti e non privi di rilevanza – i risultati in tema di controllo della spesa e di equilibrio finanziario oggi vengono ritenuti universalmente insoddisfacenti? Quali sono le vere cause di questo andamento insoddisfacente dalla finanza pubblica?
Certamente vi è stato un largo aggiramento dei vincoli dell’art. 81, attraverso il ricorso ai più vari espedienti in tema di copertura delle spese. Molte volte, infatti, la clausola di copertura finanziaria è presente nelle leggi solo formalmente. Per esempio, nel caso accennato di dichiarazione di incostituzionalità vi era una spesa approvata nel seguente modo. Si autorizzavano gli enti di gestione a stipulare mutui, per i quali, nei primi tre anni, lo Stato avrebbe pagato determinate quote d’interesse. Successivamente lo Stato si sarebbe assunto l’onere di rimborsare i mutui stessi. Ma per questo rimborso non era prevista alcuna copertura, dal momento che il periodo del rimborso oltrepassava l’orizzonte temporale del bilancio pluriennale. Era quindi evidente il tentativo di realizzare operazioni di spesa non conformi alle regole costituzionali (attuato attraverso lo slittamento nel tempo).
Si noti inoltre che sull’allargamento dello squilibrio finanziario ha giocato la presenza massiccia di spinte particolaristiche. Tutti infatti affermano che bisognerebbe contenere la spesa. Tuttavia quando si tratta di ridurre la spesa che interessa la propria categoria, il proprio gruppo di interesse – siano essi gli imprenditori che chiedono esoneri fiscali degli oneri sociali a loro carico, gli artigiani che chiedono crediti agevolati o le USSL che chiedono maggiori finanziamenti per l’anzianità – il giudizio cambia e tale spesa viene ritenuta assolutamente indispensabile.
Tali spinte particolaristiche si sono manifestate sia nell’ambito degli organi costituzionali, chiamati a prendere le decisioni, sia certamente nel Parlamento e nel Governo. La cosiddetta legge finanziaria omnibus, che ha caratterizzato il periodo dal ’79 fino al ’87-’88, rappresentava una normativa in cui trovavano posto, accanto alle decisioni legittime (revisioni di entrate, rimodulazioni di spesa e così via) una miriade di misure di spesa che trovavano posto solamente per la ragione che la legge finanziaria sarebbe stata approvata in tempi certi, entro il 31 dicembre o, al più tardi, entro il 30 aprile dell’anno successivo.
La legge finanziaria rappresentava quindi una splendida locomotiva a cui attaccarsi per far passare in Parlamento qualsiasi misura, una carrozza sulla quale montava chiunque voleva l’approvazione di una certa misura. Ma si badi che su questo omnibus montavano non solo i singoli parlamentari, i gruppi, le lobbies, ma anche le amministrazioni di spesa ed i ministeri. Quale ministro non ha approfittato di questa legge per inserire qualche clausola?
La finanziaria, quindi, è diventata un dramma nazionale annuale, nel quale si discute di problemi importanti, ma anche un terreno di battaglia per l’approvazione di misure particolari.
Un terzo fenomeno da prendere in considerazione riguarda il fatto che gli squilibri della finanza pubblica non sono in gran parte dovuti a singole leggi di spesa, prive di copertura o dotate di copertura scorretta, ma ad una crescita, che dovremmo definire tecnicamente spontanea, della spesa in settori nei quali non esistono leggi volte a quantificare l’erogazione dello Stato. Vi sono poi le spese che hanno carattere obbligatorio, spese cioè che lo Stato non può rifiutarsi di compiere. E’ il caso (per esempio) della retribuzione ai pubblici dipendenti. E da che cosa dipende la retribuzione dei pubblici dipendenti? Anzitutto dalle leggi che organizzano gli uffici, che stabiliscono gli organi e anche dal modo in cui sono disciplinati i trattamenti economici di tali dipendenti. Ebbene, questi trattamenti economici dove sono fissati? Non sono fissati certo in leggi di spese. Il trattamento economico dei pubblici dipendenti è infatti fissato da contratti nazionali, frutto di negoziati triennali tra il Governo ed i sindacati più rappresentativi delle categorie dei pubblici dipendenti. E’ in tali contratti che si annidano le cause degli squilibri finanziari. se infatti il Governo stipula un contratto in base al quale garantisce aumenti di remunerazione ai dipendenti di determinati ministeri, questi aumenti trovano necessariamente riflesso nel bilancio e nessuna legge finanziaria potrà rifiutarsi di stanziare la somma per pagare gli stipendi fissati nei contratti e recepiti in regolari decreti del Presidente della Repubblica.
Ancora, il sistema pensionistico è fondato su alcuni grandi istituti: l’INPS che paga le pensioni private e il Tesoro che paga quelle dei dipendenti pubblici. Anche in questo caso le pensioni sono fissate dalle leggi. Tuttavia il sistema pensionistico produce squilibrio non tanto perché causa l’approvazione di leggi di spesa prive della dovuta copertura, volte ad aumentare le pensioni, quanto perché il sistema pensionistico presenta un’evoluzione spontanea, che dipende dal sistema economico, dal numero di lavoratori impiegati, dai contributi che si raccolgono, dal numero dei pensionati e dalla durata in vita degli stessi. Un invecchiamento della popolazione produce quindi un aumento degli squilibri finanziari.
Questo sistema presenta quindi una logica intrinseca, che viene certamente influenzata dalle leggi, ma che ha pure una dinamica del tutto indipendente da singole decisioni del Governo e del Parlamento. Il problema è che esiste uno squilibrio strutturale. Per rimediare al quale occorre intervenire con norme volte ad aumentare l’età pensionabile ed i contributi e volte a modificare il sistema di calcolo delle pensioni. In questi casi l’art. 81 non può essere d’aiuto, in quanto non si tratta di evitare che il Parlamento ed il Governo adottino delle leggi. In tal caso, invece, si tratta di deliberare nuove leggi e nessun art. 81, nessuna Costituzione possono costringere Governo e Parlamento a fare ciò.
Un altro esempio rilevante è dato dalla spesa regionale locale o da quella sanitaria. In tal caso lo Stato non spende direttamente, ma trasferisce somme alle Regioni, le quali, a loro volta trasferiscono tali risorse alle USSL, ai Comuni ed alle Province. Anche in questo caso non vi sono leggi di spesa che impongono di spendere. Anzi ogni anno la legge finanziaria contiene una serie di misure che tendono a contenere la spesa: aumento dei ticket, riduzione dei prezzi dei medicinali, riduzione degli standard di servizi. Perché allora la spesa sanitaria e quella regionale e locale vanno fuori controllo?
Ancora una volta la causa è da ricercare in meccanismi strutturali. Il servizio sanitario, per esempio, era organizzato in modo tale da indurre sprechi. Se quindi in Italia vi sono troppi ospedali di dimensioni eccessivamente ridotte e con costi troppo elevati. il problema non è, ancora una volta, quello di evitare decisioni di spesa; si tratta invece di prendere decisioni difficili e dolorose volte a cambiare la struttura sanitaria italiana. Si provi, però, a proporre la chiusura di un reparto ospedaliero: la rivolta (lei Comuni e delle popolazioni sarebbe immediata (si pensi al malcontento sollevato dalla nuova legge finanziaria).
In definitiva si ha una spesa che cresce per conto proprio e lo Stato interviene cercando di contenerla tramite espedienti. Così facendo, si sottostimano i bisogni del fondo sanitario e poi, a fine anno, si interviene obbligatoriamente per coprire il deficit creato.
Se guardiamo la legislazione di spesa di questi anni, vediamo il moltiplicarsi, da un lato, di vincoli e controlli che dovrebbero contenere le spese e, dall’altro, il moltiplicarsi di misure che allargano i cordoni della borsa, venendo incontro a richieste concrete di ben determinati gruppi di categorie. Manca insomma un centro unitario autorevole di determinazione della politica finanziaria, capace di definire politiche coerenti con gli obiettivi enunciati. Ci si chiede allora che ruolo possano giocare le proposte di riforma costituzionali.
Le proposte si accentrano su due punti locali: da un lato si cerca di introdurre maggiori vincoli sostanziali alle decisioni di spesa e, dall’altro, si cerca di rivedere il sistema dei poteri, cioè il processo decisionale della spesa.
Dico subito che sono piuttosto scettico nei confronti dell’introduzione in Costituzione di un limite rigido alla crescita della spesa pubblica, seppure rapportata al Pil, che finirebbe con l’essere forse uno stimolo a giungere a quel tetto piuttosto che non un vero disincentivo a superarlo. In questo campo contano di più i vincoli della politica economica e conteranno molto più i vincoli della Comunità europea perché, indubbiamente, se l’Italia vorrà far parte del sistema comunitario dovrà attenersi ai vincoli di tale sistema. Si noti, tra l’altro, che questi vincoli non sono solo quantitativi, ma sono spesso vincoli di armonizzazione tra le politiche dei Paesi europei.
Mi pare positivo invece introdurre nella Costituzione (specificando quindi qualcosa che, a mio avviso, è già contenuto nell’art. 81) quel divieto di ricorrere all’indebitamento per coprire la spesa corrente. Questa è una regola di buona amministrazione; qualunque privato cittadino sa che se va a contrarre un mutuo in banca per coprire un deficit corrente determinato da una spesa mensile di 1.200.000 lire, a fronte di un guadagno di 1.000.000, ad un certo punto dovrà accendere un altro mutuo per coprire il buco prodotto dagli interessi sul primo mutuo.
Quindi, come ogni cittadino sa che il ricorso al credito dovrebbe servire solo per operare degli investimenti, così anche lo Stato dovrebbe rispettare questa regola, che potrebbe essere anche introdotta nella Costituzione. in tal caso saremmo a metà tra il vincolo sostanziale e gli aspetti procedimentali dettati da quelle regole che del resto ancora una volta ci vengono dalla CEE. L’autorità monetaria, la Banca Centrale, si troverebbe ad avere allora una maggiore autonomia, una volta che non fosse più condizionata nel perseguimento dei propri obiettivi dallo squilibrio di finanza pubblica. in tal modo si terrebbero fermi alcuni vincoli che consentono di attuare la politica finanziaria liberamente scelta dalle forze politiche, però entro determinati limiti al di là dei quali si verificherebbe la bancarotta dello Stato.
Più significativo, a mio avviso, è ragionare in termini di processo decisionale: le regole costituzionali sono quasi sempre vincolanti e significative dove organizzano i poteri, dove stabiliscono cioè gli aspetti procedurali, piuttosto che non dove pongono tetti (regole di tipo sostanziale). Questo è il vero terreno delle regole costituzionali. Per questo motivo anche per la spesa e la finanza pubblica è opportuno rivedere sul piano costituzionale il processo decisionale.
Io sono favorevole all’abolizione della legge finanziaria e alla rivalutazione della legge di bilancio quale strumento in grado di manovrare anche sulle entrate e sulle spese. Non mi pare che la vecchia idea di evitare che nel bilancio si prendessero surrettiziamente decisioni tributarie di spesa, oggi dovrebbe cedere di fronte all’evidenza che il processo annuale di bilancio è una sede rilevante e importante del processo decisionale complessivo in materia di spesa e di entrata. Quindi non si può togliere allo strumento della legge di bilancio la capacità di intervenire ad ampio raggio e a pieno titolo in tutte le misure che si ritengono necessarie. E’ opportuno perciò rovesciare il principio dell’art. 81 terzo comma, abolendo il divieto di introdurre nella legge di bilancio nuove spese e tributi.
La proposta del Governo mi pare utile perché è volta ad evitare la finzione dello sdoppiamento fra le leggi di bilancio e la legge finanziaria. Naturalmente però questo deve essere accompagnato dalla osservanza rigorosa del contenuto tipico della legge di bilancio; cioè se avremo in futuro una legge di bilancio omnibus come per molti anni è stata la legge finanziaria, allora il risultato sarà negativo. Bisogna infatti mantenere la capacità di fare del bilancio lo strumento della manovra annuale, cioè inserire tutte le misure necessarie per quell’anno, evitando la tentazione di fare del bilancio l’omnibus su cui si sale per qualunque misura legislativa, solo perché è una legge che viene approvata con tempi certi.
Vi è poi il problema del potere di emendamento. Penso che sancire espressamente l’inemendabilità del bilancio ad eccezione degli emendamenti compensativi non basta. L’obbligo di stabilire che il bilancio non può essere emendabile o, meglio, che la spesa non può essere aumentata nel bilancio, se non a seguito della riduzione di qualche altra spesa, dovrebbe essere accompagnato però dal divieto di inserimento nel bilancio di misure particolaristiche di spesa per opera del Governo. Infatti poco conta che un bilancio non possa essere emendato in Parlamento: se, fin dalla nascita, il bilancio non rispetta determinate regole non è un bilancio.
Allo stesso modo, il drastico divieto dell’iniziativa parlamentare di spesa è proprio dei regimi parlamentari. Non si mescoli quindi questo tema con quello delle riforme del regime di Governo a presidenzialismo o altro; questa è una regola tradizionale dei regimi parlamentari puri.
Allora questa regola sta bene, perché è bene che in Parlamento non sia consentito intervenire con misure particolaristiche di spesa, in grado di alterare l’equilibrio complessivo, la coerenza complessiva del disegno.
Resta tuttavia il grande problema dei processi decisionali di spesa nell’ambito dell’esecutivo. Se ci illudiamo di risolvere il problema italiano attraverso una riduzione dell’iniziativa del Parlamento in materia di spesa, ignorando il fatto che nell’esperienza di questi anni i problemi, in realtà, nascono da una politica che non è solo fatta di leggi e di emendamenti parlamentari, ma ancor prima, di proposte governative o, meglio, spesso dell’assenza di proposte governative adeguate, cioè dell’incapacità di realizzare determinate modifiche strutturali che incidano sulla spesa, noi vietiamo l’iniziativa parlamentare di spesa senza però intaccare nella sostanza i motivi e le ragioni dell’attuale squilibrio.
Vi è un esempio che può essere particolarmente indicativo: quello delle famose “leggine”. Il Parlamento approva in commissione un numero notevole di leggi, dotate di coperture fasulle o, comunque, di leggi che aumentano la spesa. Ebbene, secondo l’attuale Costituzione, il Governo ha il potere di impedire che qualunque legge venga approvata da una commissione del Parlamento. in altre parole, il Governo in quanto tale (a prescindere da qualsiasi motivazione relativa alla copertura), ha per dettato costituzionale, il potere di opporsi all’approvazione in commissione deliberante di qualsiasi legge. Se il Governo si oppone la legge non può essere approvata e deve essere rimessa all’aula, il che, in molta parte, può voler significare l’insabbiamento della legge o comunque un ritardo. Ciò consente al Governo di utilizzare l’arma assoluta della questione di fiducia.
Ebbene, quante di queste “leggine” sono passate senza l’opposizione del Governo? E’ evidente che se il Governo non utilizza gli strumenti costituzionali di cui è dotato, difficilmente si possono realizzare gli obiettivi di riequilibrio ai quali esso dice di mirare. il problema vero è quello di imporre o, meglio, favorire – perché imporre non si può mai – le decisioni strutturali dolorose che finora sono state prese raramente.
Come consentire che si faccia una buona riforma del sistema pensionistico, che si faccia una negoziazione nel pubblico impiego, in cui non ci sia un dissennato allargamento dei cordoni della borsa, magari per motivi elettorali, come eliminare la miriade di interventi di tipo assistenzialistico di cui tutte le categorie dei gruppi in Italia godono? Questo è il vero problema, il nodo duro dei nostri conti pubblici. Il problema non è il sistema costituzionale del bilancio e della spesa, ma è il sistema politico.
La vera riforma della finanza pubblica, da questo punto di vista, è a mio avviso quella elettorale, volta a favorire la creazione di coalizioni, di maggioranze, di compagini governative sufficientemente omogenee, non rissose, competitive al loro interno e capaci di definire e di realizzare in maniera coerente la politica economico-finanziaria e non impegnate a battersi esclusivamente attraverso una serie di misure singole, volute per ragioni di conquista o di mantenimento del rispettivo consenso elettorale.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 29.2.1992 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.