Per una intesa tra Ebrei e Palestinesi1
Quando i problemi che affliggono il nostro presente e il futuro sono così acuti, può essere difficile esaminare a fondo e da un punto di vista neutrale la questione della pace nei confronti dei popoli confinanti. Il meglio che si possa sperare è un onesto sforzo intellettuale al fine di essere obiettivi. Con questo spirito, questa analisi tenta di spiegare l’atteggiamento di una parte significativa, quantunque minoritaria, di Israele, che si collega a quello che è stato definito il “Fronte della Pace”.
Ciò che segue è stato diviso in tre sezioni: innanzitutto può essere necessario capire la natura dei problemi collegati con la politica estera o, nel nostro vocabolario, con la pace e la guerra, presenti nell’animo degli elettori israeliani2. Poi si potrà procedere ad enunciare le posizioni alternative verso le nazioni arabe, e infine elaborare più specificamente le motivazioni che portano ad appoggiare il “Fronte della Pace”.
I Gli interessi principali di Israele
Il quadro globale dell’analisi delle attuali posizioni di Israele verso una risoluzione del conflitto arabo-israeliano, deve essere visto in un contesto più ampio di priorità generali per i partiti politici.
In quanto democrazia funzionante, l’area delle decisioni governative riguarda un largo numero di problemi da aggiungere a quelli dell’asse sicurezza/pace, che verranno trattati più diffusamente in seguito. Guardando in retrospettiva attraverso gli ultimi dieci anni, possiamo definire in generale quattro settori di problemi nel dibattito politico.
Conformemente alle aree in cui sono presenti contrasti sociali, le tendenze possono andare dalla sinistra alla destra, invocando una economia più socialista, pubblica e statalizzata, una componente di marcato stato assistenziale e forti iniziative dei sindacati; oppure, con aperture del mercato a iniziative private con il supporto di imprese capitalistiche, l’incentivazione con vantaggi fiscali per grandi società d’affari, corporazioni, ecc.
Un dibattito religioso-secolare avente per oggetto la natura della separazione tra Stato e Sinagoga (Chiesa) ha portato alla formazione di partiti politici fondati principalmente sulla predicazione religiosa e sulla difesa dei principi dell’ortodossia ebraica. Mentre le elezioni del 1988 sono state pesantemente incentrate sul problema pace/guerra, i risultati hanno mostrato un chiaro incremento della forza dei partiti religiosi (15% dell’elettorato), con un peso maggiore per gli elementi più ortodossi.
Questo sviluppo ha fatto sì che, nelle discussioni per la formazione della coalizione, si desse più spazio ai problemi religiosi, accantonando le questioni principali, come ad esempio la partecipazione ad una conferenza internazionale di pace.
Gli ebrei originari dei paesi dell’Africa e dell’Asia, arrivati in Israele in un periodo successivo a quello di molti pionieri europei, hanno spesso lamentato gravi ingiustizie e discriminazioni socio-economiche e culturali e mancanza di una sufficiente rappresentanza politica. Tali lagnanze hanno portato alla formazione di partiti basati esclusivamente su principi etnici e hanno portato la questione all’interno dei programmi dei partiti maggiori. Nelle elezioni del 1988 i partiti religiosi si sono organizzati non solo in base a livelli diversi di ortodossia, ma anche seguendo linee etniche, e il partito più dichiaratamente Sefardita (SHAS)3 è diventato con 6 deputati il terzo partito della Knesset.
E’ la dimensione che si ricollega ai problemi delle concessioni territoriali, che a volte sono state viste come la posta più importante in gioco. Ciò è accaduto, ad esempio, nella campagna elettorale ’88, enfatizzata dall’Intifada (la sollevazione palestinese nei territori occupati), che ha avuto riflessi nella campagna elettorale dei laburisti.
Bisogna comprendere che il numero, la composizione e la piattaforma di molti partiti israeliani dipendono dalle posizioni moderate, estremistiche e di centro, relativamente alle quattro questioni sopra menzionate. Attualmente ci sono 15 partiti rappresentati nella Knesset, dei 27 che parteciparono alle elezioni ’88. Per lo più quelli che si interessavano principalmente di un solo problema (che poteva essere quello dei veterani, dell’emigrazione, ecc.) non hanno raggiunto il quorum.
Un numero così cospicuo di partiti non dipende solo dal sistema elettorale, che incoraggia la formazione di partiti piccoli (è sufficiente l’l% del totale dei voti per ottenere un seggio alla Knesset), ma riflette anche una realtà molto profonda. Ritornare a formare una nazione dopo 2000 anni di diaspora nel mondo, significa anche ritrovarsi profondamente divisi sui problemi di base. In queste prime fasi dello sviluppo nazionale, senz’altro simile a quello di altri Stati in altri periodi storici, cì sono gravi fratture fra gli israeliani per quanto riguarda la natura del loro Stato. Non deve perciò stupire che il problema della pace con i paesi vicini, di primaria importanza per gli osservatori stranieri, sia stato posposto ad altri tra quelli sopra elencati.
In teoria, contando che esistono, per ogni tipo di problema, tre possibili soluzioni (moderata, estremistica, di centro), moltiplicandole per il numero dei problemi, si ottengono 81 possibilità, cioè altrettante ipotesi di formazione di partiti politici con una piattaforma elettorale distinta almeno in un punto. Questa spiegazione è di estrema importanza per capire la natura fluttuante dei sondaggi di opinione. L’elettorato israeliano può appoggiare un partito politico o un altro per una serie di motivi riguardanti anche il problema pace/guerra, ma non è detto che queste problematiche siano sempre quelle dominanti. Per esempio, il cambiamento dell’elettorato nel ’77, che portò il Likud al governo dopo una supremazia dei laburisti durata dalla creazione dello Stato nel 1948 (o meglio ancora dalla loro leadership negli anni Trenta all’interno dell’Organizzazione mondiale sionista), non si deve spiegare principalmente come risultato della disillusione a causa della debolezza della posizione dei laburisti verso i paesi arabi e la preferenza di una posizione più militarista, ma piuttosto come dovuto a un risentimento etnico degli ebrei originari dei paesi islamici, che si sentivano alienati dalla loro mancanza di rappresentanza nelle élites del paese. Abilmente Menachem Begin incanalò tale risentimento e alla fine ottenne più voti anche per sostenere le sue posizioni “da falco” nei confronti del problema palestinese.
Tali affermazioni dovrebbero essere rilevanti soprattutto per i grandi partiti politici come quello Laburista o quello del Likud. Per quanto riguarda la formazione delle coalizioni, si è spesso notato che la Knesset è ugualmente divisa fra il partito Laburista e il Likud, ciascuno con i suoi possibili alleati, dando così medesime possibilità o presentando medesimi ostacoli ad entrambi i partiti leaders. I risultati delle ultime elezioni mostrano che il blocco sionista di centro-sinistra ha primeggiato con 48 seggi (di cui 38 ai laburisti), e i nazionalisti dell’ala destra hanno ottenuto 46 seggi (di cui 39 al Likud che ha sorpassato di un seggio i laburisti).
Il ruolo cardine dei partiti religiosi è stato quantificato questa volta in 18 seggi, con una pesante tendenza verso destra. I partiti massicciamente appoggiati dalla popolazione araba (8 seggi) non sono usciti abbastanza rafforzati da contribuire a una coalizione guidata dai laburisti, capace di prevenirne una analoga sotto l’egida del Likud. Tuttavia una situazione di questo tipo non dovrebbe portare a leggere una divisione identica nei confronti dei problemi connessi con l’alternativa tra pace e guerra. Diversi sondaggi d’opinione hanno mostrato fluttuazioni che sono proprio drammatiche. Per essere più precisi, meno della metà degli israeliani erano disposti a prendere in considerazione una pace con l’Egitto basata su un totale ritiro dal Sinai; ma dopo che tale proposta fu portata avanti dal primo ministro Begin, non solo ottenne un appoggio schiacciante nella Knesset, ma anche la più alta percentuale di gradimento che qualsiasi primo ministro avesse mai avuto su qualsiasi problema: l’89%, isolando l’annessionista “Blocco della Fede” al 10%.
Tuttavia, quando pochi mesi più tardi, il primo ministro Begin decise di promuovere alla Knesset una votazione per l’annessione delle alture del Golan, e fu seguito di necessità dalla maggior parte dei membri del partito Laburista, circa il 79% dell’opinione pubblica israeliana appoggiò l’idea dell’annessione (sebbene non concordando in tutto sui tempi).
Si può affermare che sui problemi cruciali la maggioranza silenziosa israeliana ha seguito le decisioni delle larghe maggioranze, e solo piccole minoranze, fortemente ideologizzate, hanno mantenuto una posizione coerente in un senso o nell’altro. Parlando in generale, si potrebbe valutare intorno al 20% dell’elettorato la consistenza attuale del “Fronte della Pace” più o meno del 5% la porzione più radicale, costituita per la maggior parte da arabi, e una fetta – pure del 20% – costituita da coloro che sono favorevoli alle annessioni, lasciando la maggioranza dell’elettorato con idee più fluttuanti sul problema.
Nel 1983, a proposito delle soluzioni alternative d’Israele nei confronti del problema del futuro di Giudea, Samaria e Gaza, solo il 6% era favorevole alla fondazione di uno Stato palestinese, il 36% alla restituzione della maggior parte dei territori con accordi di sicurezza, il 18% alla loro annessione e il 36% al mantenimento dello status quo. Dall’inizio dell’Intifada, l’appoggio alla cristallizzazione della situazione esistente sembra essere diminuito. Un’inchiesta precedente alle elezioni del 1988 mostrava l’esistenza di tendenze conflittuali: da una parte la necessità di negoziare con i rappresentanti palestinesi (OLP) arrivava al 60%, ma il 57% si opponeva a negoziati diretti con l’OLP, anche se essa avesse rinunciato al terrorismo e avesse riconosciuto il diritto di Israele all’esistenza. Inoltre il 65% era favorevole a concessioni territoriali in cambio della pace, ma circa la stessa percentuale vedeva la formazione di uno Stato palestinese indipendente e smilitarizzato sulla riva occidentale è a Gaza come una minaccia nei confronti dell’esistenza di Israele, e il 71% riteneva che Israele non avrebbe dovuto concedere Gaza e la riva occidentale nemmeno se la pace e la sicurezza fossero state garantite.
Tuttavia non si devono sottovalutare i gruppi fortemente ideologizzati, benché minoranze, che sono in grado di bloccare un eventuale compromesso territoriale o, sul versante opposto, l’annessione territoriale di Gaza e della riva occidentale.
A questo punto può essere utile descrivere le forze che stanno dietro a termini come “Fronte Nazionale” e “Fronte della Pace”: concetti spesso usati rispettivamente dai sostenitori delle due tendenze diverse.
Il “Fronte Nazionale” sembra essere guidato dai quattro seguenti motivi, spesso tra loro correlati:
1) Sciovinismo o nazionalismo estremo. Nel caso di un popolo che è riuscito a sopravvivere a circostanze estremamente avverse, disperso attraverso i secoli e ora riunito nella sua patria storica, il nazionalismo è una tendenza all’estensione massima del territorio, col ritorno il più fedele possibile alle frontiere degli antenati remoti. Le dodici tribù del biblico popolo d’Israele includevano non solo i territori attualmente sotto il controllo di Israele, ma anche la zona ad est del Giordano. Gli appartenenti a questi gruppi non si considerano estremisti, dato che sono pronti a limitare le loro richieste alle zone attualmente occupate.
2) Militarismo, nella forma di eccessiva fiducia nelle forze militari per raggiungere degli obiettivi politici. Esso non risulta solo dalla chiara superiorità delle forze di difesa israeliane, e dalla tentazione di usarla per imporre una pacificazione agli arabi, ma è influenzato anche da sentimenti radicati nel fatto che, nella storia passata, gli ebrei, indifesi, furono alla mercé di nemici esiziali. L’importanza di questo sentimento deriva anche dalla percezione della passività del popolo ebraico nel momento dello sterminio, in particolare di fronte all’Olocausto. Tali terribili immagini permangono ancora fra gli uomini politici sopravvissuti allo sterminio nazista, ma anche in più ampi ambienti sociali. Gli ebrei non vogliono più essere esposti alla mercé di forze storiche determinate ad annientarli, ma ora sono essi i soggetti che determinano la storia, i fabbri del loro destino. Così il mito della “sicurezza” ha profonde motivazioni psicologiche, rafforzate dalla percezione di un ambiente arabo ostile.
3) Fondamentalismo o radicalismo religioso. E’ legato alla partecipazione politica di partiti religiosi e gruppi, fin dall’inizio della vita parlamentare di Israele. Dopo la guerra del ’67 una marcata tendenza nazionalistica è stata connessa a questo fervore religioso, per cui le parole “Dio” e “Volontà divina” sono state usate per giustificare la tendenza all’annessione della Giudea e della Samaria e la nascita di stanziamenti in tutto l’Eretz Israel (Grande Israele). Salvo alcune eccezioni, la maggior parte dei partiti religiosi ha sempre più associato la bandiera dell’ortodossia alle pretese espansionistiche.
4) Pregiudizio etnico, o tendenza esclusivistica, sempre più accentuata nell’ultimo decennio. E’ un sentimento che si è sviluppato con una chiara connotazione razzistica, legittimando tendenze nascoste e stati d’animo irrazionali. Usando alcune affermazioni religiose, quale quella degli “ebrei come popolo eletto” e la necessità della “purezza razziale”, si è giunti all’attuale pubblico dibattito sull’espulsione di quelli che sono considerati come “usurpatori”. In linea con questi atteggiamenti, si avvertono discorsi riguardanti le pretese superiori capacità degli ebrei e la “primitività” degli arabi (che avrebbero trasformato in deserto la terra del “latte e miele”).
Una delle espressioni più estremistiche di tali posizioni è impersonificata da Mei’r Kahane, uno zelota di origine americana, che divenne membro della Knesset dopo le elezioni dell’84, coagulando intorno a sé una forza considerevole, che gli avrebbe assicurato almeno tre seggi se al suo partito noli fosse stata negata l’autorizzazione a presentarsi alle elezioni del 1988.
Esaminando il “Fronte della Pace”, si possono determinare alcune forze trainanti:
1) Innanzitutto può essere importante menzionare separatamente i moventi della popolazione non ebraica di Israele, che raggiunge il 17%. L’appoggio al nazionalismo palestinese è visibile particolarmente tra i musulmani (escludendo le tribù beduine originariamente nomadi), è prevalente tra i cristiani e motto meno tra i drusi.
Un gruppo considerevole di questo 17% preferirebbe sbarazzarsi della presenza di uno Stato ebraico, nel quale essi sono destinati a rimanere una minoranza; altri considerano l’esistenza di questo Stato come un fatto incontrovertibile, anche perché quella posizione di minoranza è preferita a una piena integrazione in una Palestina araba, con i pericoli che corrono molti altri Stati arabi della regione. Comunque una maggioranza schiacciante di questa fetta della popolazione è a priori condizionata all’appoggio verso la causa palestinese portata avanti dall’OLP, purché l’esistenza di Israele sia salvaguardata.
Per altri aspetti, questi abitanti si ricollegano ai membri ebraici del “Fronte della Pace” dove l’appoggio all’autodeterminazione palestinese non è un assioma, per via delle forti pressioni del campo annessionistico, precedentemente descritto.
2) L’orientamento in senso umanitario dell’opinione pubblica ha consentito di esprimere alcune preoccupazioni in ordine alla materia della pace e della sicurezza. Contemporaneamente, si è fatta strada una generale consapevolezza nella capacità dei nostri mezzi militari. E stato affermato, ad esempio, che “grazie alle nostre forze possiamo permetterci di fare concessioni per la pace” (M. Amirav, Gerusalemme, 1 giugno 1988).
Si tratta di un’opinione che è largamente condivisa dagli economisti, sia per la preoccupante pesantezza del bilancio militare, sia per le alterazioni che la prolungata situazione di Stato militarizzato ha comportato per le strutture economiche dei paese.
Inoltre alcuni storici stanno studiando il conflitto israelo-palestinese in una prospettiva più ampia, sottolineando che in un periodo di decolonizzazione è troppo tardi per Israele procedere ad annettere un territorio con una popolazione ostile, come è avvenuto per molte nazioni nel passato, comprese alcune delle potenze che oggi sono severamente critiche nei confronti di tali progetti di Israele (URSS e altre).
3) Il pericolo demografico, di vedere cioè la popolazione araba diventare una maggioranza nell’ipotesi di un allargamento dello Stato di Israele, è considerata ora come una possibilità a breve termine. Con una media di 6 figli per famiglia fra gli arabi, confrontata con una di 3,6 per gli ebrei, il divario si sta colmando. Già oggi, ci sono più bambini arabi che ebrei nella fascia di età che va da 0 a 8 anni. A questa prospettiva non è stata trovata alcuna risposta sui due versanti, e qualsiasi speculazione sul decremento dell’emigrazione ebraica da Israele e sull’incremento dell’immigrazione ebraica o sulla partenza volontaria di palestinesi è chiaramente infondato.
Può essere utile citare i titoli con cui i due fronti contrapposti spesso si chiamano. Il “Fronte Nazionale” viene spesso chiamato “annessionista, fascista, razzista, fanatico”. Il “Fronte della Pace” viene definito come “amante dell’OLP, disfattista, un coltello nel fianco della nazione, ecc.”.
Vale la pena di osservare che, nel momento elettorale, non è certo la linearità ad essere evidenziata dagli israeliani; né nella proposizione del dilemma pace/guerra, né nella combinazione dei motivi che influenzano il comportamento politico.
Ciò rende naturalmente ancora più complessa la lettura della mappa politica di Israele.
Nella seguente sezione le posizioni per la risoluzione del conflitto con gli arabi sono state fissate in cinque ampie categorie.
Tuttavia esse devono essere viste come uno spettro, un continuum con un alternarsi successivo di posizioni diverse. Particolarmente nei grandi blocchi dei laburisti e del Likud è possibile trovare correnti di pensiero e singoli individui che potrebbero facilmente essere piazzati in posizioni diverse da quelle che sono prevalenti ispettivamente in quegli schieramenti.
Mentre può essere possibile vedere una certa coerenza in coloro che appartengono al polo più intransigente o più moderato in ogni asse, tale comportamento politico non è così assiomatico presso gli altri.
Quella che viene normalmente chiamata “sinistra”, un eufemismo per lo più collegato a posizioni socialiste in campo socioeconomico, si esprime a favore di un compromesso territoriale, per la separazione di Stato e religione e denota una certa sensibilità contro la discriminazione etnica.
La destra, tuttavia, nota per lo più per le sue posizioni intransigenti verso gli arabi, sostiene allo stesso tempo l’impresa libera e una politica economica populista, dato che la maggior parte dei suoi sostenitori viene dai settori più poveri della società, per lo più da famiglie ebraiche originarie dei Paesi arabi. Non deve così sorprendere che si trovino membri dei kibbutz attivi nel movimento “Grande Israele” o industriali e proprietari di società sostenitori del “Fronte della Pace”.
Mentre una larga componente dei coloni di Giudea e Samaria è ortodossa, proprio in nome della religione ebraica e delle sue tradizioni storiche, un numero di “tende”‘ nel “campo della pace” sta alzando la bandiera della tolleranza e del rispetto dell’altra parte della nazione, degli arabi.
Circa i 2/3 delle famiglie ebraiche originarie dei paesi islamici sostengono partiti dal Likud alla destra, mentre alcune delle “tende” nel “campo della pace” sottolineano la loro origine sefardita.
II Posizioni in Israele su pace e guerra
Le seguenti cinque posizioni vanno dall’intransigenza (posizione n.1) al compromesso (posizione n.5) nei confronti delle richieste arabe. Sebbene per lo più il problema si riferisca a ciò che viene offerto, tuttavia molti disaccordi sono legati anche a problemi tecnici come l’interlocutore da scegliere (Hussein, OLP, veri rappresentanti palestinesi dei territori occupati?), i tempi (Israele deve aspettare passivamente una iniziativa araba o prendere l’iniziativa subito?) e le modalità (negoziati diretti o una conferenza internazionale?). Normalmente ci si aspetta che la volontà di arrivare ad uno scopo finale si rifletta anche nella flessibilità riguardante i mezzi per raggiungerlo. In questo caso non è sempre così: mostreremo come talvolta la flessibilità nei confronti dei fini si accompagni a durezze riguardo ai mezzi del tipo: “La forza è la lingua che gli arabi capiscono” e “solo al tavolo dei negoziati saremo disposti al compromesso”.
Posizione n.1
Annessione immediata di Giudea, Samaria e Gaza mettendo la popolazione di fronte all’alternativa di accettare di essere soggetta durevolmente ad Israele oppure di partire. Spesso una tale posizione è unita ad un appello per il trasferimento di parte (o dell’intera) popolazione palestinese, non solo dai territori occupati, ma dallo stesso Israele. Considerati gli incentivi all’emigrazione verso terre più pacifiche e la durezza delle condizioni esistenti, ci si aspetta che un numero considerevole alla fine parta; in caso contrario si potrebbe prendere in considerazione l’uso della forza.
Sulla posizione più estrema troviamo Mei’r Kahane, il quale vuole tuttavia mostrarsi in una luce più magnanima, offrendo di rimanere a qualsiasi arabo che voglia, a patto che quello si converta al giudaismo. Secondo lui “con i figli o con le pallottole” gli arabi vogliono annientare Israele e quindi il loro trasferimento deve essere inteso come un gesto di legittima autodifesa.
Il movimento denominato Tcheyah (Rinascimento), con cinque membri alla Knesset, ha difeso gli stanziamenti forzati di centinaia di migliaia di palestinesi che, tuttora vivono in campi profughi in Giudea e Samaria, riducendo con ciò la minaccia demografica nel prossimo futuro. L’argomentazione in appoggio a tale posizione si basa sul fatto che Giudea e Samaria non sono mai state considerate come legalmente annesse alla Transgiordania e che solo il Pakistan e il suo protettore, la Gran Bretagna, approvarono la mossa unilaterale di re Abdallah. Inoltre i diritti storici del popolo ebraico su questa terra sono indiscutibili e superiori a quelli di qualsiasi altra nazione. Questa logica sottolinea che se c’è diritto per gli ebrei di controllare l’Ebron, dove si trova la tomba di Abramo, il padre del monoteismo ebraico, allora non ci sono diritti storici per città come Nazareth e Jaffa, nell’Israele minore, che furono per lo più arabe, o altre come Ramleh, che furono fondate sotto la dominazione araba.
I palestinesi possono anche fondare la loro patria nei vasti territori a est del fiume Giordano. La famiglia ashemita, infatti, è stata un’imposizione straniera sulla popolazione e potrebbe facilmente essere rimpiazzata da rappresentanti del 60% palestinese, una maggioranza fra la popolazione giordana. Tale percentuale poi aumenterebbe se gente della riva occidentale scegliesse di attraversare A fiume e di unirsi a fratelli e sorelle in quella realtà nazionale. La trasformazione in senso palestinese della Giordania è l’inevitabile conclusione.
Posizione n.2
Non dovrebbe esserci un trasferimento forzato della popolazione palestinese che potrebbe rimanere a vivere sotto una struttura di autogoverno o autonoma, come determinato dagli accordi di Camp David del 1978.
All’interno di questa idea generale esistono diverse interpretazioni sull’entità del controllo che la popolazione palestinese potrebbe avere sulle risorse naturali (terra e acqua), e sulla natura delle autorità locali di governo (piccoli coordinatori municipali o corpi più grandi, quasi parlamentari, con giurisdizione su tutte le materie, tranne sicurezza e politica estera?).
All’interno dì questa posizione, il Likud ha per lo più appoggiato l’interpretazione più restrittiva; Itzhak Shamir e Moshe Arens, in particolare, si sono opposti all’accordo di Camp David, perché poneva un precedente pericoloso di concessione di tutti i territori per la pace, ma anche per la natura temporanea del periodo di autonomia (5 anni). Nella campagna elettorale del 1988 tuttavia la piattaforma del Likud appoggia completamente l’idea dell’autonomia. La necessità di presentare schemi concreti per la risoluzione del conflitto è chiaramente aumentata dall’inizio dell’Intifiada, da quando cioè lo status quo non è più una posizione sostenibile.
In passato la difficoltà a trovare una soluzione condivisa rese spesso popolare l’idea che mantenere un accordo ad hoc, anche se non formalizzato, con la Giordania sui territori ed ottenere la collaborazione, nei territori della riva occidentale, con alcuni dei leaders tradizionali più affermati poteva essere una proposta realizzabile in un futuro vicino. Il bisogno di muoversi verso una qualche soluzione è sentito oggigiorno anche nelle file del Likud anche perché il costo dell’occupazione, fino a non molto tempo fa considerato irrilevante, sta diventando pesante.
Formalmente il primo ministro Shamir ha richiesto negoziati diretti fra Israele e qualsiasi Stato arabo, mai con l’OLP, per un futuro accordo, respingendo l’idea di una “conferenza internazionale di pace”. Da quando re Hussein, il solo partner che ci si aspettasse per tali colloqui, ha pubblicamente rifiutato tale opzione, dissociandosi più tardi egli stesso dal negoziare in qualsiasi sede in aiuto dei palestinesi, l’atteggiamento di alcuni elementi del Likud è stato quello di affermare che, forse, il tempo per tali negoziati non è ancora maturo, che non si dovrebbero scoprire le carte prima di mettersi al tavolo delle trattative, sottintendendo che, quando servirà, ci sarà spazio per ulteriori concessioni.
Altri dicono che i palestinesi possono concordare per una soluzione di autonomia che dia loro più diritti e più opportunità di sviluppo economico di quanti ne abbiano in qualsiasi paese arabo i loro concittadini, tralasciando i palestinesi che vi si trovano come rifugiati.
Posizione n.3
Questa posizione poggia sostanzialmente sull’idea che la pace con i paesi arabi può essere raggiunta solo sulla base di un compromesso territoriale riguardante Gaza e la riva occidentale del Giordano. Resta da discutere nel corso dei negoziati il limite dei futuri confini ma, per anni, la visione prevalente all’interno del blocco laburista è stata comunemente nota come “Piano Alon” (in riferimento al ministro degli esteri e vice-primo ministro Igael Alon) che suggerì di mantenere circa il 30% dell’area della riva occidentale, con scarsa popolazione palestinese e con un alto valore strategico-militare. Essa include la linea delle colline (Gav Haar) e le aree vicine all’antica linea verde e a Gerusalemme, così come un cordone di sicurezza nella pianura del fiume Giordano. La parte rimanente che verrebbe lasciata agli abitanti arabi, collegata con un corridoio che attraversa il territorio di Israele alla striscia di Gaza, potrebbe non essere sufficientemente attraente per la costituzione di uno Stato palestinese e quindi l’idea è sempre stata quella di un compromesso territoriale con la Giordania.
Storicamente la linea, che con David Ben Gurion, prevalse all’interno del partito Laburista, sostenne l’idea di una concorrenza di interessi con la dinastia ascemita, di fatto già accettata prima della creazione dello Stato. Tale posizione fu considerata ragionevole, dal momento che la leadership palestinese di Mufti Haj Amin el Husseini precludeva a quel tempo qualsiasi possibile accordo.
Di contro, una posizione minoritaria guidata da Moshe Sharet preferiva negoziati con la leadership palestinese sulla base di una divisione territoriale e della creazione di uno Stato palestinese sì, ma più debole.
I sostenitori dell'”opzione giordana” subirono un pesante colpo quando nell’agosto ’88 re Hussein annunciò drasticamente il ritiro della Giordania da qualsiasi pretesa di rappresentanza del popolo palestinese.
Il partito Laburista, mediante il suo leader Shimon Peres, ha sostenuto l’idea di una conferenza internazionale che facesse da copertura a colloqui diretti fra Israele e i paesi arabi, includendo la presenza di una delegazione giordano-palestinese e così aggirando il problema di una rappresentanza palestinese separata, con tutta probabilità l’OLP. Ufficialmente per i laburisti della posizione n.2 è assolutamente inammissibile negoziare con l’OLP; tale pregiudiziale tuttavia è stata messa in crisi all’interno delle loro stesse file dal ritiro di re Hussein dal processo di pace.
La disponibilità a discutere con “palestinesi autentici” dei territori occupati è spesso emersa nei discorsi dei leaders laburisti, insinuando così l’idea che essi abbiano bisogno di essere accettati da Israele e possibilmente dalla Giordania, mentre contemporaneamente non ci sarebbero obiezioni se essi fossero anche raccomandati, o persino scelti, dall’OLP. Così successe nel 1984 con Faez Abu Rahme e Hanna Siniora, rispettivamente di Gaza e di Gerusalemme, che furono nominati per essere i probabili candidati nell’eventualità di una delegazione giordano-palestinese. Entrambi furono incontrati dai leaders laburisti e ricevettero una risposta favorevole.
Può essere utile anche porre l’attenzione su quelli che, all’interno del partito Laburista difendono una linea dura verso i palestinesi nazionalisti, imponendo uno stretto controllo sull’attività politica nei territori.
Dal 1984, quando Itzhak Rabin venne nominato ministro della difesa, prevalse nei territori occupati una politica nota come quella del “pugno di ferro”, che causò un notevole aumento di misure repressive come la detenzione amministrativa, la deportazione e la demolizione di case. Con lo scoppio dell’Intifada, la politica della linea dura venne generalizzata e divenne di proporzioni mai raggiunte. Uno dei paradossi è che il generale Rabin fu considerato capace di intraprendere, come ministro della difesa, azioni che nessuno, eccetto il generale Sharon, avrebbe potuto fare nel Likud, in particolare se il partito Laburista si fosse opposto a tali misure. Azioni restrittive vennero adottate non solo nei confronti dei palestinesi che erano implicati nell’opposizione violenta all’occupazione, ma anche verso quelli che si dissociavano chiaramente da tali strategie, richiamandosi invece alla disobbedienza civile e alla resistenza pacifica all’occupazione.
Contemporaneamente, sebbene Rabin condivida con i “duri” idee forti su come trattare le domande palestinesi, tuttavia egli differisce riguardo alle concessioni da accettare al tavolo dei negoziati. Sulla questione di Gerusalemme la posizione laburista non differisce in realtà da quella del Likud: la città deve rimanere riunita come capitale di Israele.
Posizione n.4
Ampiamente identificata con il “Fronte della Pace” essa include quelli che reputano che la soluzione del conflitto ruoti attorno al riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e al ritorno ai territori che erano sotto il controllo di Israele fino al 1967, con l’eccezione dì piccole rettifiche dei confini su cui ci si deve accordare al tavolo dei negoziati. Naturalmente, al di fuori di tale principio, si è d’accordo che Gerusalemme debba ciononostante rimanere riunificata come capitale di Israele. A differenza della posizione n.3, tuttavia, c’è stata nella piattaforma elettorale di partiti come “Il movimento per i diritti civili e per la pace” (RATZ) ed il “Partito unito dei lavoratori” (MAPAM) una formulazione che permette a Gerusalemme di essere anche parte di un qualche tipo di accordo nel quale i desideri dei palestinesi alla sovranità possano anche essere esauditi.
All’interno di questa posizione troviamo i partiti sionisti che sono aggregati ai laburisti, ma anche un numero significativo di membri della Knesset, pure all’interno dello stesso partito e noti come “colombe” per differenziarli dai “falchi” (rappresentati oggigiorno dai sostenitori di Rabin). Nella 11a Knesset essi vennero ad avere approssimativamente 25 membri, rappresentando così il 20% circa dell’intera assemblea.
L’assetto futuro dei territori da restituire agli arabi deve essere deciso liberamente da loro, in modo da includere una possibile federazione o confederazione giordano-palestinese, uno Stato palestinese separato o un’aggregazione federale simile al Benelux, che raggruppa Belgio, Olanda e Lussemburgo. Nonostante le diverse posizioni all’interno del “Fronte della Pace” riguardo a ciò che può essere preferibile per Israele, il denominatore comune è che la scelta deve essere compiuta dai palestinesi stessi.
In nessuna circostanza, tuttavia, tale diritto all’autodeterminazione dovrebbe mettere a repentaglio la sicurezza di Israele.
Dal momento che alla posizione n.4 sono state rivolte critiche di arrendevolezza a proposito dei territori, essa ha focalizzato la stia attenzione sui problemi della sicurezza. Si pensa, per esempio, alla smilitarizzazione permanente della riva occidentale del Giordano e di Gaza ed alla presenza militare temporanea (ma almeno per alcuni decenni) di Israele nei punti strategicamente importanti e al pattugliamento da parte di truppe internazionali. La sottolineatura dei carattere temporaneo della presenza militare e del bisogno di accompagnarla con stanziamenti civili, differenziano questo piano da quello di Alon.
C’è un generale accordo sul fatto che gli insediamenti sono stati un ostacolo alla pace, che nessun nuovo stanziamento o allargamento degli attuali dovrebbe essere tollerato. Per quanto riguarda la destinazione dei 60.000 ebrei già stanziati nei territori occupati, le opinioni variano dall’evacuazione al permettere loro, nell’ambito dei negoziati, di rimanere nei territori sotto la sovranità araba, nello stesso modo in cui i palestinesi israeliani rimangono entro i limiti della linea verde come una minoranza.
Per quanto riguarda i termini dei negoziati, i sostenitori di questa posizione non escluderebbero alcun tipo di sede o alcun possibile partner. Taluni sottolineano l’importanza di negoziati con l’OLP come solo rappresentante del popolo palestinese, ma altri lascerebbero aperta la porta anche a giordano-palestinesi e persino a re Hussein, che in passato, con il “piano Hussein”, si avvicinò alla posizione n.4.
Nella formulazione di “Shentov-Yariv”, che comparve a metà degli anni Settanta, ci si orientò verso un riconoscimento “condizionato” dell’OLP, che avrebbe potuto essere considerato un interlocutore legittimo nel caso avesse rinunciato all’uso della violenza e avesse riconosciuto Israele.
All’interno del “Fronte” alcune voci hanno espresso dubbi a proposito della possibilità di disimpegno di Israele dai territori occupati, data la natura “paralizzante” dell’annessione, che ha creato una situazione di fatto che potrebbe essere senza ritorno. Tale posizione, espressa agli inizi degli anni Ottanta, è diventata subito controversa in quanto sembrava legittimare la posizione del Likud.
D’altra parte si obiettava che la posizione n.4, anziché mettere l’accento sulla necessità di giungere ad una soluzione concordata, avrebbe dovuto porre maggiormente l’attenzione sulla mancanza di diritti oggi, vale a dire sulla sofferenza della popolazione palestinese e quindi sulla necessità di organizzare qualcosa in difesa dei loro diritti umani. Altri cercano dì conciliare le due posizioni, mostrando la non contraddizione del lottare per entrambi gli aspetti: un trattamento più umano oggi e un futuro basato sull’autodeterminazione palestinese, rendendo l’occupazione reversibile.
Posizione n.5
Appoggiata soprattutto dai partiti che ottengono la maggioranza dei loro voti dalla popolazione araba di Israele: la “Lista progressista per la pace” e il “Fronte democratico per la pace” di ispirazione comunista. Questo settore fu l’unico, anche prima del ’67, ad essere critico verso la posizione ufficiale di Israele: i suoi rappresentanti erano inflessibili nella richiesta del diritto al ritorno per tutti i palestinesi rifugiati. Dopo il 1967 non ci furono grandi cambiamenti nella loro linea e simili argomentazioni vengono sostenute anche oggi.
Seguendo l’interpretazione sovietica, la guerra stessa è stata da loro considerata un atto di aggressione da parte di Israele e non un’autodifesa; quindi ogni soluzione di pace deve includere innanzitutto un ritiro unilaterale ed incondizionato di Israele da tutti ì territori occupati. Si spera che tale atto faccia sì che i palestinesi ed i paesi arabi in genere siano d’accordo a formalizzare le frontiere seguendo le risoluzioni delle Nazioni Unite.
Per entrambe le componenti di questa posizione, l’unico interlocutore per i negoziati è l’OLP, che deve essere riconosciuto da Israele senza pregiudiziali, mentre da sempre viene rifiutata la candidatura di re Hussein come rappresentante dei palestinesi. Sul problema di Gerusalemme, l’appello ad un ritiro totale include la rinuncia al controllo su Gerusalemme est perché sia la capitale di un futuro Stato palestinese.
In termini di parità, può essere possibile negoziare accordi soddisfacenti per la libertà di movimento, di culto e per altri aspetti pratici. Tale posizione è stata normalmente appoggiata da più della metà dell’elettorato arabo e da pochi elettori ebrei.
III Il Fronte della Pace
Fra le motivazioni principali che convergono in questo Fronte troviamo la visione sionista. Il sogno sionista immagina Israele come un porto sicuro in cui gli ebrei possano vivere una vita normale ed occupare tutti i livelli della società, liberi da anti-semitismo e persecuzioni. I primi pionieri che giunsero per costruire una nuova vita in Palestina sognavano un ritorno alla terra e celebravano il lavoro manuale come mezzo per liberarsi dal marchio, proprio della diaspora, della vita nel ghetto.
L’occupazione dei territori conquistati a partire dal ’67 ha forse irreparabilmente danneggiato tali ideali. Manodopera araba a buon prezzo ha sostituito gli ebrei nell’edilizia, nell’agricoltura ed in altri servizi in modo così capillare, che ampi settori dell’economia di Israele dipendono oggi pesantemente dallo sfruttamento degli arabi. Questo fatto aggiunge al conflitto fra le nazionalità anche una dimensione di lotta di classe.
La recessione economica e i piani governativi di austerità minacciano l’occupazione, ma gli ebrei non vogliono tornare a certi tipi di lavori ed attività manuali. Allo stesso tempo, tuttavia, c’è un crescente risentimento nei confronti degli arabi, che stanno invadendo il mercato del lavoro.
Le strategie: molti appartenenti al “Fronte della Pace”, che hanno speso gran parte della loro vita nelle file delle forze di difesa israeliane, sono preoccupati dal fatto che le guerre nel Medio Oriente stiano diventando sempre più costose da vincere. Accantonando per un attimo il danno all’economia di Israele, lo stato costante di all’erta militare e la perdita di vite umane hanno molto fiaccato la popolazione di Israele.
La stanchezza e il deterioramento dello stato d’animo sono inevitabili in un paese piccolo, nel quale ogni cittadino maschio assolve ad una ferma militare di tre anni a partire dal 180 anno d’età, a cui si aggiunge una media di 30 giorni annui, come riservista fino ai 55 anni.
Gli esperti della difesa temono anche che la capacità israeliana di evitare l’invasione araba diminuisca col passare del tempo. Il divario tecnologico, per il momento ancora favorevole ad Israele, si sta colmando rapidamente grazie al costante riarmo degli arabi da parte dei paesi dell’est e dell’ovest. Un fattore da aggiungere all’equazione è la possibilità che entrambe le parti abbiano ottenuto, o siano in grado di produrre, armi atomiche.
In termini puramente strategici, il problema di confini difendibili richiede una rivalutazione. Molti esperti della difesa hanno appoggiato l’idea di una zona smilitarizzata fra Israele ed i suoi vicini ostili, piuttosto di un dispiegamento di forze sui confini. L’attacco di sorpresa di Yom Kippur nel 1973 dimostrò che né gli ostacoli “naturali”, come il Canale di Suez, né le postazioni statiche di difesa, come le fortificazioni di Bar-Lev, sono le migliori garanzie di sicurezza.
Secondo quanto dicono molti di questi esperti, la situazione più vantaggiosa per Israele è quella emersa come risultato del trattato di pace con l’Egitto: un Sinai smilitarizzato, reso sicuro dalla presenza di osservatori stranieri e da sistemi di controllo, che darebbero un preavviso sufficientemente lungo per permettere la mobilitazione nel caso che truppe egiziane attraversassero la penisola. Dal momento che il fiume Giordano non offrirebbe una garanzia altrettanto sicura contro attacchi arabi, essa potrebbe essere data dalla smilitarizzazione della riva occidentale e dalla presenza temporanea di truppe israeliane ed internazionali nella valle del Giordano.
Considerazioni morali: alcuni israeliani trovano difficile negare il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, diritto richiesto e ottenuto per sè dallo stesso movimento sionista. Dal punto di vista morale il dilemma posto dal negare ad un proprio vicino ciò che si ha, richiede profonde e penose riflessioni. A patto che i palestinesi siano d’accordo a vivere in pace, fianco a fianco ad Israele, non ci può essere alcuna ragione etica da opporre al loro diritto di farlo, in conformità a questa argomentazione.
Ad un livello più individuale, la lunga occupazione ha minato seriamente la psiche di Israele. Governatori riluttanti di una popolazione irrequieta, i governanti israeliani nei territori occupati sentono di dover reprimere la protesta con mano ferma, precipitando però così nella resistenza violenta e provocando reazioni sempre più brutali e degradanti. Il modello ha ormai influenzato la struttura morale della generazione più giovane di Israele. Alla ricerca di un fondamento logico per sottomettere i palestinesi, essi tendono a vedere donne, bambini e civili palestinesi come “terroristi” verso i quali è quindi giustificata una politica dura.
L’esercito israeliano, caratterizzato in passato dal suo alto livello morale, si schiera ora quotidianamente contro donne e bambini. Il mantenimento dell’ordine tra una popolazione irrequieta e spesso violenta ha senza dubbio intaccato l’equilibrio della generazione del dopo ’67, che ora fornisce i giovani soldati.
Partendo da questa situazione non è difficile classificare gli arabi di Israele come nemici, anche se la maggior parte di essi, coesiste pacificamente con gli ebrei all’interno dei confini del ’67-’68. Inclusi nella categoria dei “nemici” sono anche gli ebrei di opinione diversa, a cui essi di riferiscono, a volte, come a “un coltello nel fianco della nazione”.
La triste verità è che l’occupazione sta consumando la tolleranza di Israele: il mutuo rispetto e il diritto al dissenso sono valori la cui importanza è nettamente diminuita.
Previsioni demografiche: l’alto tasso di natalità e le crescenti aspettative della popolazione araba, accoppiate con le cifre preoccupanti dell’emigrazione e immigrazione ebraica, consentono di prevedere che, entro due decenni, i palestinesi avranno una forza numerica uguale nell’area ora controllata da Israele. A meno che venga abbandonato l’ideale democratico “un uomo, un voto” il sogno dello Stato ebraico svanirà, se verranno usati mezzi pacifici.
D’altro canto, la popolazione araba all’interno dei confini anteriori al ’67 è solo il 17% del totale, una minoranza vitale che può coesistere con una maggioranza ebraica.
L’inevitabile conclusione è che Israele ha a disposizione due sole delle tre possibili scelte: espellere tutti gli arabi, come richiesto da Kahane, rafforzare il dominio della minoranza seguendo l’esempio del Sud Africa, o ritirarsi entro confini accettati da entrambe le parti. “Peace Now” preferisce l’ultima soluzione.
L’insegnamento religioso: l’Halakhah, la legge ebraica, è stata ampiamente interpretata in senso pacifista, ma quella visione non è condivisa da tutte le scuole rabbiniche.
Il Talmud giustifica l’andare in guerra unicamente per salvare Israele dalle mani di un oppressore, cioè come autodifesa. La ragione è che la difesa della terra di Israele era considerata un compito dato da Dio e da qui il termine “milchemet mitzavah” (guerra obbligatoria).
D’altra parte, la “milchemet reshut” (guerra consentita) per allargare il proprio territorio o per migliorare l’economia, richiedeva il consenso sia del potere esecutivo (il re) che dei 71 membri del Sinedrio (autorità legislativa e giudiziaria). Stando alla tradizione, entrambi i templi vennero distrutti perché Israele cercò la guerra e non la pace.
La biblica “terra di Israele”, secondo il parere della maggior parte delle scuole rabbiniche, non può essere utilizzata per indicare confini precisi. Questa interpretazione del giudaismo favorisce la flessibilità in questioni temporali, quali il possesso del territorio, e rifiuta l’enfatizzazione di oggetti quali le pietre di confine. La santificazione di luoghi, tombe e monumenti non è considerata come parte irrinunciabile della richiesta spirituale di un santuario per il popolo ebraico.
L’accento sull’etica piuttosto che sulla politica evidenzia la priorità di prevenire lo spargimento di sangue evitando il sacrificio, anche di una sola vita, per Dio.
Molti membri religiosi del “Fronte della Pace” riflettono nelle norme di comportamento e nell’umanitarismo le grandi lezioni del giudaismo: fra gli altri, il trattamento umano dei prigionieri, il rispetto dei diritti della popolazione non ebraica, la prevenzione di vittime civili e la condanna dell’uso della tortura. Le nostre tradizioni, essi dicono, sfidano l’Israele contemporaneo a tener fede agli alti livelli morali del suo passato.
Calcoli economici: il costo dell’ultima guerra di Israele è di quasi un milione di dollari al giorno per ogni giorno dei tre anni di occupazione del Libano. Tutti concordano nel dire che la cifra è un ulteriore peso sul cittadino israeliano già oberato di tasse. Il bilancio della difesa di Israele è in proporzione il più alto del mondo: una media annua del 25,5% del prodotto nazionale lordo è andata, nell’ultimo decennio, a coprire spese militari. Il confronto con il bilancio della difesa degli USA sotto l’amministrazione Reagan, che raggiunge circa il 7% del prodotto nazionale lordo, è evidente.
Il costo crescente della sicurezza ha danneggiato la prestazione economica generale, riducendo dai primi anni Settanta il tasso di crescita a zero. Fino all’ultimo blocco dei prezzi, il tasso di inflazione di Israele era fra i più alti del mondo, in concorrenza con quello di alcuni Stati sudamericani.
Gli economisti israeliani sono preoccupati anche per i costi indiretti della guerra. La dipendenza dall’aiuto degli Stati Uniti ha raggiunto un livello pericoloso. Israele è estremamente vulnerabile ad ogni cambio della politica della Casa Bianca ed ogni fluttuazione dell’economia americana viene percepita in Israele.
Un altro costo indiretto della continuità delle guerre è lo squilibrio del settore produttivo israeliano. La necessità di sviluppare una propria industria bellica, al fine di ridurre la dipendenza militare, ha creato un forte complesso industriale in questo campo, che impiega quasi un settimo della forza lavoro. Al fine di rendere vitale quest’industria, l’esportazione di armi è diventata una delle principali fonti di valuta straniera, raggiungendo in alcuni anni il 25% del valore delle esportazioni del paese.
Lasciando pure da parte considerazioni di carattere morale, il pesante appoggio su tali prodotti per il miglioramento della bilancia dei pagamenti ha spinto Israele ad adottare delle scelte “pragmatiche” come la vendita di armi all’Iran di Khomeini.
Prospettive storiche: in un mondo ossessionato dalla decolonizzazione, la corrente di pensiero prevalente fra storici e politologi giudica negativamente progetti annessionistici di ogni tipo. Il precedente primo ministro, Begin, fa notare giustamente che non solo l’Unione Sovietica, ma anche gli Stati Uniti acquisirono in guerra grandi estensioni di territori. Dalla formazione dell’ONU, le norme internazionali di comportamento sono però in qualche modo cambiate ed è ora semplicemente anacronistico che lo Stato ebraico faccia ciò che così spesso è stato fatto da molti altri in passato.
Inoltre oggigiorno nessuna nazione è disposta ad accettare qualcosa di meno della piena autodeterminazione e i palestinesi, che hanno resistito tenacemente all’idea di rinunciare ai loro diritti, non sono un’eccezione.
Un’ironia della storia è che il successo del movimento sionista nella costituzione di uno Stato ebraico abbia rafforzato il nazionalismo palestinese. Parole familiari come diaspora, costituzione della nazione e resistenza alla dominazione straniera, sono ora parole d’ordine per la gioventù palestinese colta.
Se i territori fossero stati privi di abitanti, avrebbero potuto essere annessi unilateralmente, ma ciò non sembra oggi possibile. L’evacuazione dei palestinesi residenti in quelle aree sarebbe totalmente rifiutata dalla comunità internazionale, persino dai pochi sostenitori di Israele rimasti in giro nel mondo. Gli avvenimenti hanno dimostrato anche che i successi militari di Israele non possono imporre la pace nelle capitali arabe. La frustrante palude del Libano è una recente prova dei limiti del potere militare.
Ultimamente alcuni esperti del Medio Oriente hanno notato l’emergere di una certa flessibilità sia all’interno dei regimi arabi, sia nelle file della dirigenza palestinese. Il cambiamento è appena percepibile, ma sembra che alcuni elementi del mondo arabo si rendano conto che la tanto sperata distruzione di Israele non sia possibile. Fu il rifiuto degli arabi di accettare questa realtà che compromise tutte le soluzioni proposte fra il 1936 e il 1967.
Contemporaneamente in Israele sembra esserci la tendenza ad una crescente intransigenza. Che triste situazione per Israele!
Finalmente pare che nel mondo arabo stia sbocciando l’idea dell’accomodamento, ma potrebbe essere arrivata troppo tardi, quando un ampio settore dell’opinione pubblica israeliana sta mischiando profezia e realtà.
Anche se questo scenario è troppo ottimista per quelli che non vedono una tendenza moderata nel mondo arabo, mantenere aperta l’opzione alla restituzione dei territori nel caso che un altro leader arabo, seguendo l’esempio di Sadat, si faccia avanti per cercare la pace attraverso negoziati, sembra solo logico. Chiudere la porta in faccia vorrebbe solo dire rinunciare alla speranza.
Coinvolgimenti emotivi: sono difficilmente definibili in termini strettamente politici; si trovano fra i “pacifisti” quelli che reagiscono molto emotivamente alle tragiche conseguenze della guerra: giovani uccisi, vittime civili, distruzioni. Non è difficile vederli con le lacrime agli occhi, tutti tesi nel desiderio di lavorare per la pace, ma non è possibile fissarli in categorie precise.
Forse il miglior esempio è stato Abbie Nathan, un ex pilota e proprietario di ristorante, che è diventato il capo di una crociata umanitaria. Egli ha al suo attivo un tentativo disperato e vano di volare in Egitto per offrire al presidente Nasser una Bibbia, operazioni di soccorso durante guerre e cataclismi naturali in Israele e all’estero (Nicaragua, Etiopia) e la conduzione, da più di un decennio, di una stazione radio pirata che trasmette “da una qualche parte del Mediterraneo” la ben nota “Voce della Pace”, con musiche e slogans.
Livello dei diritti umani: giuristi e avvocati si trovano di fronte a una vera aporia, dovuta all’assenza di norme di legge nei territori occupati. Ciò che ovviamente ostacola l’imparzialità del giudizio (la mancanza di un’istanza di appello al di sopra dei tribunali militari, procedure di detenzione amministrativa senza processo, uso di metodi coercitivi negli interrogatori e altre pratiche violente) sono situazioni inaccettabili per chi è sorretto da una vera integrità professionale.
Giuristi e avvocati sono stati testimoni anche dell’erosione dei fondamenti del potere civile costituito, quando i membri di un movimento ebraico clandestino anti-arabo giustificarono la loro azione in base ad una legge divina, che è al di sopra della giustizia umana.
1 NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 7.10.1988 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
2 Si tenga presente che la conferenza tenuta a Brescia dai prof. Kaufman si collocava a breve distanza dalle ultime elezioni politiche israeliane dei 1988 (N.d.T.)
3 Nome dato agli ebrei di Spagna fin dal sec. XIV e ai loro discendenti attuali. Deriva da Sepharad “Spagna”. (N.d.T)