Graham Greene se ne è andato. Romanzi come “Il potere e la gloria”, “Il terzo uomo”, “Il nostro agente a l’Avana” fanno parte della letteratura inglese e mondiale del Novecento. Se avevamo dei dubbi, una rilettura più attenta nei giorni successivi alla morte del loro autore, spentosi il 3 aprile di quest’anno, li ha dissolti.
Graham Green aveva ingegno, grazia, inventiva; ma aveva anche quel che più conta per giungere attraverso la pagina scritta al cuore del lettore, cioè l’umiltà cordiale, il coraggio di andare controcorrente, la capacità di scendere nell’inferno della sofferenza. L’altro Green, Julien, inglese anch’egli ma passato in giovinezza armi e bagagli alla Francia, nella cui lingua scrive, ci ha dato un capolavoro nel suo “Journal”, libera e profonda rappresentazione del cuore umano e del nostro tempo; ma i suoi tanto celebrati romanzi, eccettuati i primi, sono dominati da una cupa oppressione, che sembra negare al lettore il dono che può ben attendersi da ogni vera opera d’arte, la spontanea elevazione della sua anima. Non così i migliori tra i romanzi di Graham Green, in cui il lettore è afferrato subito sia dall’intreccio dei moventi e dell’azione, che dallo spessore umano dei personaggi. Chi potrà scordare il prete beone che fa da protagonista in “Il potere e la gloria”, pover’uomo ed eroe, esemplare nella sua autenticità proprio perché consapevole della sua estrema debolezza?
La cosiddetta “poetica” di un autore è certamente una chiave di lettura della sua opera, ma non la sola, né la più attendibile. Tolstoj è grande come autore, ma come filosofo dell’arte vale ben poco. È un azzardo credere di poter leggere nella “poetica” di un autore leggi della creazione artistica o principi etici di validità universale. Questo vale anche per Graham Green e per la sua celebre affermazione, secondo la quale la missione dello scrittore consiste nello “schierarsi sempre dalla parte dei perdenti”. Dovere che lo scrittore inglese vuol adempiere “sino alla slealtà”, anzi “facendo di slealtà virtù”.
Al di là dell’intenzione magnanima di Graham Greene e del suo amore per il paradosso, occorre però dire con chiarezza che in quelle sue proposizioni l’appello morale si mescola indebitamente a qualcosa che ne altera la natura. In esse Graham ha dato voce a uno stato d’animo molto diffuso, in cui la coabitazione di ciò che è umano e di ciò che è equivoco diventa inquietante ed insieme ricattatoria.
In realtà, il criterio-limite della slealtà per amore della Causa ha già mostrato i suoi esiti disastrosi; era ed è, infatti, una delle malattie dell’ideologia totalitaria. A fortiori, quindi, non può giovare in alcun modo all’affermazione di alti principi di umanità, come pure vorrebbe Greene. Su questo delicato problema fu il nostro Manzoni, quand’era un giovane ancora sconosciuto e non credente, ad imboccare la giusta via, con la sua divisa: “Il santo vero mai non tradir”, e non certo il celebre scrittore cattolico Graham Green, che teorizza “la virtù della…slealtà” come necessaria ad una scelta di campo. Al contrario, la pietà attiva verso i perdenti non va mai confusa con il rivesti-mento pseudo-moralistico della menzogna. Né si può chiamare comprensione e dialogo il lasciare i “perdenti” nella gabbia dei propri miti e alibi che, nell’atto di falsificare il presente e il passato, rischiano già di pregiudicare il futuro.
Non si comprende poi perché mai i perdenti, in quanto tali, debbano aver sempre ragione, almeno dinanzi al tribunale della nostra coscienza. È impossibile negare, infatti, ciò che la storia e l’esperienza personale attestano. Non sempre i perdenti sono incolpevoli. Spesso alcuni sono divenuti tali, perché affetti da irrefrenabile megalomania. Sono stati vinti, sì, ma in un confronto che loro hanno scatenato e che credevano di risolvere a proprio favore con una arroganza pari solo alla cecità.
Ci sono, infine, “perdenti” e “perdenti”, così diversi e persino opposti fra loro, che è impossibile includerli tutti in una stessa categoria, a cui ci si debba rapportare allo stes¬so modo. Di qui l’ambivalenza pericolosa e diseducativa di frasi fascinose come quelle in cui Graham Greene aveva creduto di condensare il suo impegno morale e artistico. Ci sono i perdenti che soffrono senza averne colpa e ci sono i criminali, i prevaricatori, gli oppressori che qualche volta sono battuti e risultano perdenti. Ci sono, insomma, i perdenti-vittime, che sono portati al macello, e ci sono i perdenti-boia che ve li hanno condotti. La pietà, totale e appassionata, per i primi non è dovuta ai secondi; almeno fino al momento in cui anch’essi non siano stati costretti a pagare, e in modo adeguato, per i crimini commessi. La pietà non può mettere a tacere il grido di dolore di chi ha patito ingiustizia.
In conclusione, la frase “schierarsi sempre dalla parte dei perdenti” suona bene e cattura facilmente il consenso; e tuttavia, se sta a significare l’idealizzazione indiscriminata e aprioristica dei perdenti in quanto tali, prescindendo da quelle distinzioni che sono necessarie, essa diventa fonte di grave confusione in campo morale, sociale e politico. Diventa un’altra sciagurata forma di falsificazione del bene.
Giornale di Brescia, 30.4.1991.