La patria di William Shakespeare e di John Donne ebbe nel secolo scorso due grandi poeti: John Keats e Gerard Manley Hopkins. La vita di Hopkins fu intensa e breve, essendo nato a Essex nel 1844 ed essendo morto a Dublino nel 1889. Uomo di stupefacente indipendenza, sottile filosofo e critico delle opere sue ed altrui, si convertì nel 1866 al cattolicesimo, sulle orme di Henry Newman, ed entrò nell’ordine di Ignazio di Loyola. Hopkins fu poeta, nel senso più alto e pieno della parola. Egli non pubblicò mai i suoi versi e questo pudore estremo la dice lunga sulla tempra seria, profonda, robusta della sua arte. Ma quando apparvero, trent’anni dopo la morte del loro autore, quei versi stupirono il mondo. La prima edizione completa delle poesie di Hopkins si ebbe, infatti, nel 1918. Soltanto allora Hopkins fu «scoperto» e si trattò di una scoperta clamorosa. I versi di Hopkins parvero anticipare chiaramente di parecchi lustri aspetti e soluzioni della poesia del Novecento e precorrere decisamente il nostro secolo nel rinnovato interesse per la lirica dei metafisici. È quasi incredibile vedere Hopkins incitare a più riprese i suoi amici Bridges, Dixon, Patmore a pubblicare, a non schivare la gloria, ma a riflettere che il poeta nella sua patria e nel mondo è una potenza spirituale e che questa potenza egli la deve cercare anche per motivi morali, ma per sé egli sceglie la via del nascondimento.
Speculativamente dotatissimo, tuttavia il suo ordine religioso lo tagliò fuori da ogni carriera accademica. «Sono completamente rovinato per le mie presunte stranezze», scrive nell’aprile del 1881 e nel luglio del 1988: «La mia musa ha buttato via da tempo il suo ardimento e da qualche anno fa la lavandaia». Ma gli amici cui Hopkins scrive quelle cose insorgono, e a ragione, contro giudizi così severi e immeritati, avendo intuito la straordinaria originalità di chi aveva scritto “Il naufragio del Deutschland” e “Il gheppio”, negli stessi anni in cui confidava agl’intimi la sua pena, quelle poesie che egli chiama «cocci e macerie» e che invece entreranno a far parte della letteratura inglese ed europea, con i nomi dei “L’Eco di piombo e l’eco d’oro”, “Sonetti terribili”, “La prima comunione del trombettiere”, “Scritto con le foglie di Sibilla”.
Misconosciuto dal suo ordine, continuamente trasferito di qua e di là, costretto a fare il predicatore d’occasione e il professore nelle medie, Hopkins però si trova a suo agio in mezzo ai poveri, di cui condivide la sofferenza e la volontà di riscatto sociale. La situazione degli operai nella ricchissima Inghilterra è ai suoi occhi semplicemente spaventosa e il Nostro si chiede, con grande lucidità: «Se essi in mezzo alle ricchezze superflue devono condurre una vita senza dignità, sapere, conforto, gioia o speranza, chi potrà rimproverarli se un giorno mandano a pezzi tutta questa vecchia cultura con la quale non hanno nulla da condividere?».
Di qui nasce un problema: come un uomo segnato da una così grande tragedia interiore e da un’appassionata identificazione con gli umiliati e gli offesi, abbia potuto darci una poesia di commossa e commovente celebrazione della bellezza del creato e della gloria di Dio? Sono state avanzate varie ipotesi, ma di esse una mi pare risolutiva, perché suggerita dalla sola cosa che conti, la sua opera: nella sua personalità Hopkins realizza, attraversando prove assai difficili, l’unità di poesia e mistica, e di quell’unità egli è stato con estrema precisione consapevole. Da questo punto di vista si può forse dire che egli è lo spirito più francescano del XIX secolo, quello in cui poesia e preghiera si fondono perfettamente senza residuo e la coscienza del dubbioso errare dell’uomo moderno si fa solidarietà col suo soffrire e interrogazione religiosa, supremo atto di offerta a Dio, quel Dio vivente cercato e amato sia nel volto di Cristo, sia in ogni traccia di bellezza profusa nell’universo e, paradossalmente, soprattutto nella «bellezza selvaggia» (brute beauty) che può essere cantata solo in versi di ruvida nudità e forza indomabile. Per questo Hopkins sceglie «il ritmo del salto» per attingere il fascino dell’aspro, di ciò che è rotto, di ciò che appare (e non è) renitente a lodare il Creatore. E il ritmo impresso da Hopkins ai suoi versi è tale da spazzar via tutta la allisciata bellezza dell’età vittoriana.
Chiudo con un breve «assaggio» della poesia sorprendente e profonda di quel grande. «Sia gloria a Dio per le cose screziate, / per i cieli di vario colore come le mucche chiazzate, / per le macchie rosa punteggiate sulla trota che nuota; / per le castagne fresche cadute come brage accesa, per le ali dei fringuelli; / per i paesaggi divisi pezzati, chiuso, maggese e campo arato; / e tutte le arti e gli arnesi e gli strumenti e gli ordigni. / Tutte le cose a contrasto, originali, sobrie, strane; / tutto ciò che è mutevole e chi sa come maculato: / veloce, lento; dolce, aspro; vivido, opaco: /genera senza tregua Colui, la cui bellezza è immutabile: / lode a Lui». Né meno forte e bella l’altra preghiera: «Sii adorato tra gli uomini, Dio Trinità, /matrice dell’essere in me, mio cuore! /Il tuo ribelle che si rintana / tormenta / con naufragio e tempesta. /Ineffabile, /oltre ogni tua consolante parola, / tu sei / lampo e amore, / inverno e calore, / Padre amoroso, sì, /ma del cuore che hai torturato».
Giornale di Brescia, 9.3.1995. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Jhon Meddemen su “Il problema della bellezza corporale nella letteratura cristiana di Hopkins”.