È tornato a circolare “Il grande Meaulnes”. L’opera pubblicata ora nei Tascabili Bompiani (280 pagine), è tradotta da Piero Bianconi. Chiara e succosa è la nota introduttiva scritta da Claudio Piersanti. Ci si può chiedere: dopo le edizioni Mursia (1967), Utet (1981), Mondadori (1983) e Garzanti (1987), perché una nuova proposta del celebre libro? La risposta è che “Il grande Meaulnes” appartiene ormai alla letteratura europea e non solo a quella francese e che con gli adolescenti si ha a che fare in ogni tempo. Il romanzo apparve a puntate su «La Nouvelle Revue Française» nel 1913 e si affermò subito come un classico. E i classici, si sa, non invecchiano.
Il lettore avverte subito che Alain Fournier si identifica quasi con il suo personaggio, ma senza cadere nell’autobiografismo diaristico. Infatti, quasi a sottolineare, insieme all’adesione sincera al suo libro, anche il distacco doveroso, la voce narrante non è quella dell’autore o di Agostino Meaulnes, bensì quella di un amico, Francesco, più giovane di due anni rispetto al protagonista, il quale entra in scena appunto a diciassette anni, «quando la peluria già gli ombrava il labbro». Una recensione non ha il compito di riassumere la trama di un’opera narrativa, ma di segnalare gli argomenti tematici che attraversano l’opera: e questi sono il gusto dell’avventura, la tensione insanabile tra il voler fuggire e la nostalgia, la scoperta sconvolgente dell’amore, il bisogno profondo di amicizia e di comunione con la natura. Il romanzo di Alain Fournier ci immerge nel mondo che è dei nostri figli e dei nostri studenti, ma non fa dello psicologismo, freudiano e no, a buon mercato; ispirato dalla grande musa adolescenziale come pochissimi altri, esso è uno dei più intensi «romanzi di formazione» del nostro secolo. Nei decenni successivi forse solo tre opere possono reggere il paragone: “Tonio Kroeger” di Mann, “Agostino” di Moravia e “Il giovane Holden” di Salinger. Tutti e quattro sono lì ad ammonirci di farla finita con lo stereotipo insulso dell’adolescenza «età felice»: no, forse in nessun’altra età si soffre tanto quanto in quella in cui un essere umano si affaccia alle soglie della maturità.
Qualcuno ha giudicato Alain Fournier «uno scrittore per letterati», perché scrive molto bene. Il ragionamento sotteso a un giudizio del genere è francamente insostenibile, come se lo scrivere con la perfetta padronanza dei mezzi espressivi possa mai essere una colpa, o un limite negativo. Anzi, Alain Fournier riesce a dar voce alla profondità dell’anima anche perché ha saputo confrontarsi fino in fondo con altri scrittori del suo tempo, a cui era unito nell’amore per Rimbaud e Dostoevskij. Due in particolare furono i grandi amici con cui egli si misurò, anche attraverso una fitta corrispondenza: il poeta Jacques Rivièer, che era suo cognato, e il fondatore dei «Cahièrs de la Quinzaine», Charles Péguy. Infine, perché non ricordare che il 22 settembre 1914 la guerra uccise l’autore del “Grande Meaulnes”? Péguy era già caduto, colpito da una palla in fronte pochi giorni prima, il 5 settembre. «Nel giudicare della vita altrui – è Montaigne a suggerircelo – io guardo sempre come è avvenuta la fine».
Giornale di Brescia, 7 ottobre 1995.