Con Giovanni Cristini ci conoscemmo una settimana dopo il fatidico 18 aprile 1948, alla Scuola Editrice di Brescia, e subito divenimmo amici. Egli dirigeva in quegli anni la più bella rivista per studenti che l’Italia abbia mai avuto. “Carta, penna e calamaio” era vivace, non conformista, senza sbavature ideologi che, una vera palestra di confronto, una scuola di formazione. Avevamo interessi diversi. Io mi occupavo prevalentemente di storia, filosofia e pedagogia; lui, di poesia e di letteratura. Ci univano, però, e nel profondo, due cose. Una era la passione per la res publica, per la politica sentita come via necessaria per il riscatto degli sfruttati e per l’affermazione della democrazia; l’altra passione era propriamente religiosa. Il rinnovamento della Chiesa cattolica appariva ai nostri occhi cosa urgente, indifferibile, in quanto condizione fondamentale affinché l’Europa, dopo due spaventose guerre civili estese poi a tutto il mondo, riscoprisse finalmente la sua identità cristiana e, in essa, il terreno comune, la tavola dei valori a cui far riferimento, la fonte d’ispirazione per avviare sia il processo di unificazione politica, sia il dialogo ecumenico tra le grandi confessioni cristiane. A quegli ideali siamo rimasti fedeli, anche se la fedeltà esigeva di pagare un certo prezzo, non per l’iniquità altrui, ma per il semplice fatto che, aprendo il varco nei nostri cuori ad alcune idee direttrici che poi avrebbero caratterizzato il nostro tempo, allora apparivamo in qualche modo “eretici”, o per lo meno “scriteriati”.
Con pochi altri amici formavamo un gruppo che studiava e discuteva, non si arrestava dinanzi alle grandi questioni, si confrontava lealmente con i non credenti, si apriva alle ansie e alle speranze della povera gente. Un’intenzione sovrastava ogni altra: volevamo sinceramente adoperarci a dissipare i tremendi “equivoci fra il mondo moderno e Cristo”, come era solito dire uno dei nostri maestri più amati, padre Giulio Bevilacqua. Memorabili, si intende per noi che vi prendevamo parte, erano i nostri convegni periodici in una cascina di Vallio per mettere alla prova del dialogo idee, argomenti, valutazioni, progetti. Il luogo di quei convegni, in analogia con l’agostiniano Cassiciacum, osammo battezzarlo Valliciacum. Che cosa non pagherei per rintracciare i quaderni in cui venivano riassunte le nostre interminabili discussioni, alle quali ognuno – da Gabriele Calvi a Franco Nardini, da Mauro Laeng al pugliese Gaetano Santomauro, da Lino Monchieri a Giuseppe Giardino, da Giovanni Cristini a Marco Del Corno, a me – dava l’apporto della sua sensibilità, delle sue letture, della sua tendenza poli¬tica. Ma anche dell’esperienza personale; ché, sebbene tutti molto giovani, i bresciani erano stati direttamente impegnati nel movimento partigiano e uno di essi, Monchieri, aveva conosciuto i campi di prigionia in Germania.
Fu proprio da uno dei convegni a Vallio che scoccò la scintilla da cui divampò un grande incendio. Di lì partì, infatti, una nostra lettera collettiva a don Primo Mazzolari perché ponesse apertamente il problema dell’obiezione di coscienza, di cui la giovane democrazia italiana doveva pur riconoscere la legittimità. “Adesso”, il battagliero quindicinale del parroco di Bozzolo, dedicò le due pagine centrali a commentare quella lettera. E per don Mazzolari fu l’inizio di una via crucis. Le proteste si levarono, violentissime, dai più diversi ambienti e noi fummo accusati di essere vigliacchi, venduti allo straniero, comunisti mascherati. Evidentemente sul finire degli Anni Quaranta i tempi in Italia non erano maturi per una soluzione del problema. Dopo una dozzina di anni avemmo la gioia di vedere tra i primi firmatari della proposta di legge per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, il nome di uno dei deputati che più duramente ci aveva contestato.
Uno degli aspetti più belli di quella nostra giovinezza – di dignitosa povertà e di grandi speranze – fu l’approccio comune ad alcuni maestri, lo scambio delle loro opere. E tra i maestri di quegli anni il ricordo va in particolare a Kierkegaard, ai cattolici liberali del nostro Risorgimento, ma anche a Péguy, a Bernanos, a Blondel, a Maritain, a Mounier e alla sua rivista “Èsprit”. Né mancava a noi, grazie soprattutto a Giovanni, il nutrimento della grande poesia, da Dante a Eliot, da Ungaretti a Montale, a Rilke. La chiave, però, per capire l’intima personalità di Giovanni e la sua poesia, è, a mio avviso, la sua sintonia permanente, anche se per pudore sottaciuta, con una incarnazione tipica del sentimento cristiano della vita: quella del più alto e singolare imitatore di Cristo, Francesco d’Assisi.
Giornale di Brescia, 26.2.1996.